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18.7.08 - Eluana Englaro: un'ostia vivente in mezzo a noi
di Michele Scozzarra

21.7.08 - I problemi ambientali a Galatro
di Vito Sofrà

25.7.08 - Incazzarsi è un dovere civico
di Michele Scozzarra

1.8.08 - Ricordando Don Rocco Distilo
di Michele Scozzarra

2.8.08 - La festa della Madonna del Carmine
di Michele Scozzarra

4.8.08 - In ricordo di mio fratello Pasquale
di Guerino De Masi

10.8.08 - Ambiente: scorie radioattive o cibi strani?
di Michele Scozzarra

25.8.08 - Rifiuti nocivi e conseguenze nefaste
di Nicola Marazzita

2.9.08 - Scuola: i perchè di un disastro
di Domenico Distilo

4.9.08 - Caro Michele...
di Magdi Cristiano Allam

9.9.08 - Benvenuto al nuovo Viceparroco
di Carmelo Panetta

14.9.08 - Il totem del federalismo
di Domenico Distilo

19.9.08 - Vecchi democristiani e nuovi "moderati"
di Domenico Distilo

15.10.08 - Tra Stato e mercato
di Domenico Distilo

18.10.08 - Ancora sui rifiuti... siamo davvero appestati dai veleni?
di Michele Scozzarra

25.10.08 - Era mio padre... un uomo buono!
di Michele Scozzarra

30.10.08 - Si prendono precauzioni per il degrado ambientale?
di Biagio Cirillo

7.11.08 - Con quel nome così strano
di Michele Scozzarra

13.11.08 - Basta coi litigi in Consiglio Comunale
di Biagio Cirillo

25.11.08 - Qualcosa si sta muovendo a Galatro
di Rino Dell'Ammassari

7.12.08 - San Nicola: una festa spontanea e vera, cioè una festa cristiana
di Michele Scozzarra

11.12.08 - Più scuola... nonostante tutto!
di Stefania Scozzarra

17.12.08 - Nel blu dipinto di... scie bianche
di Ilaria Pizzimenti

24.12.08 - Natale 2008: nel mistero del presepio
di Michele Scozzarra

27.12.08 - Dammi uno scec... e ti fermo la crisi
di Ilaria Pizzimenti





Tramonto (18.7.08) ELUANA ENGLARO: UN'OSTIA VIVENTE IN MEZZO A NOI (di Michele Scozzarra) - La tragica storia di Eluana Englaro, nelle ultime settimane, è rimbalzata in maniera impressionante su tutti i giornali. La sua tragica storia l'abbiamo letta più volte: in stato persistente vegetativo dal 1992, dopo un grave incidente stradale, non dipende da nessun particolare macchinario per vivere - non fa dialisi, respira da sola - e viene nutrita con un sondino naso-gastrico. La Corte di Appello di Milano, a seguito di una sentenza della Corte Costituzionale dello scorso ottobre, ha stabilito che è lecito interrompere la nutrizione e l'idratazione artificiale, anche se Eluana non ha lasciato volontà scritte, perché la "presunta volontà della persona in stato di incoscienza" può essere "ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell'interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita".
Da più parti sono stati lanciati appelli per difendere il diritto alla vita di Eluana e, nel mio piccolo, questo mio intervento vuole essere un contributo affinché trionfi il valore insopprimibile della sacralità della vita, dal concepimento alla morte naturale, quale fondamento della nostra umanità e della nostra civiltà.
Era il 1995, quando ho avuto modo di leggere un raccapricciante articolo che mi ha messo i brividi, e mi ha dato di che pensare sui “boia del relativismo etico che violano incontestabilmente il valore insopprimibile della sacralità della vita”.
Per chi ha la pazienza di seguirmi nelle cose che esprimo (parafrasando senza nessuno spirito di paragone il Manzoni), per i miei forse meno di venticinque lettori per niente annoiati dalle cose che scrivo, mi piace riproporre il vecchio articolo che, anche se datato di oltre quindici anni, lo riscopro di una attualità impressionante:

"Si chiamava Luisa. Era la figlia handicappata (epilettica) del grande Ennio Flaiano, un monumento indiscusso della cultura italiana contemporanea. Di Flaiano si ricordano le battute fulminanti i racconti carichi di ironia. Di Luisa niente, noi comuni mortali non sapevamo nemmeno che esistesse. Ma è Luisa - la sua vita negata, le sue lacrime nascoste - il giudizio più fulminante di Flaiano sul nostro tempo. Luisa adesso c'è, è tornata dall'oblio della cultura italiana come un angelo vendicatore, e pesa più di un qualsiasi aforisma. La vedova di Flaiano, Rosetta, ha deciso di rivelare il dramma di Luisa, sepolta viva dagli amici di Flaiano, i grandi intellettuali che imposero al loro sodale di sopprimerla dai loro occhi. E così Luisa fu annichilita nella sua dignità dai geni della poesia universale. Fa un nome: Federico Fellini. Il vate di Rimini non poteva letteralmente sopportare la vista di Luisa. Un giorno disse: 'Perché non la rinchiudono?".
Luisa allora, notato lo schifo con cui veniva guardata dal fior fiore della sensibilità e dell'umanità pubbliche, si ritirava avvilita, nella sua stanza trasformata in lager dalle belle teste e dalle anime fosforescenti come aureole che ci hanno fatto la morale per tutti questi anni. Alla fine Rosetta ed Ennio decisero di non mostrarla più. La rinchiusero davvero.
Adesso che ha 83 anni, e la passione è sbollita, Rosetta tira con metodica precisione una bomba contro l'ipocrisia maligna degli intellettuali italiani, stupenda casta di assassini del cuore. Lo fa in un'intervista a 'Vita'.
'Sono passati tanti anni: non è più uno sfogo', dice Rosetta Flaiano. 'Oggi è un atto di cultura e di politica. Gli amici e i colleghi di mio marito, i cosiddetti intellettuali, non rivolgevano neanche un cenno di saluto a mia figlia, Luisa, malata di epilessia. Rispetto l'opera di Fellini, ma non dimentico che, quando veniva da noi, non riusciva nemmeno a guardare Luisa. Lui e gli altri giravano la faccia dall'altra parte, infastiditi. Mia figlia che era un concentrato di amore ed era estremamente sensibile, correva a chiudersi nella sua stanza'.
Ancora: 'Questi atteggiamenti determinarono un momento di grande crisi anche tra me e mio marito. Alla fine decidemmo, per buona educazione, di non far più vedere nostra figlia. La nascondemmo ai nostri occhi, ma non al nostro cuore'. Finché il grande Ennio morì. E nel 1991, a 50 anni di età, se ne andò anche Luisa. Allora Rosetta domandò ad un famoso giornalista, amico di Flaiano, di ricordare questa creatura amatissima. Rispose la celebre penna: 'A Ennio non sarebbe piaciuto'. 'Non è vero', dice adesso Rosetta.
Eppure questa coppia famosa, 'i Flaiano', pur di non sparire da quel mondo accettarono l'orribile diktat di segregare come una vergogna la loro figlia. Pur di conservare la loro identità sociale, si rassegnarono a preferire alla loro amatissima figlia le stupide risate a tavola, le estasi per qualche trovata dell'amico Fellini o di altra gente di quel bel giro impennacchiato di allori. Anche questo è tremendo. Vuol dire che anche nei migliori intellettuali c'era qualcosa di più grande dell'amore. Ed era la considerazione sociale, l'opportunità di essere nel circuito virtuoso dove si produce l'arte ma soprattutto si munge la lira. E lì sta in fondo la colpa anche dei migliori, come Ennio Flaiano, come la brava signora Rosetta. Mi domando perché non si sono segregati loro, oppure tutti insieme non hanno abbandonato quel simpatico gruppo che aveva fastidio della cosa più cara che ci sia al mondo, e cioè una figlia. Se fosse stata al posto di Rosetta, una di quelle madri di campagna e timorate di Dio, che ho in mente io, a Fellini avrebbe avvelenato la minestra. Avremmo avuto forse meno poesia al cinema, ma un pò di giustizia in più nella vita.
Senza giungere a rimedi così drastici, è forse più utile ricordare l'esperienza del grande intellettuale francese Emmanuel Mounier. Ebbe una figlia, con un handicap gravissimo, era silenziosa, inerte. Lui e la moglie decisero di collocarla nel posto d'onore a tavola, specie quando venivano ospiti importanti. Mounier guardava la sua piccola Françoise come la presenza fisica del Mistero d'amore. In una lettera Mounier ha ricordato a tutti gli intellettuali del mondo: 'Non è che si può soltanto scrivere libri'. O fare cinema. O - lo dico a me - buttar giù articoli. C'è qualcosa di più importante. E' Luisa. Le Luise della nostra vita".
Cosa dire... preferisco non dire niente... riporto solamente un breve passo di Emanuele Mounier tratto dal libro Lettere dalla sofferenza... E’ una bella lezione di amore e di umanità:
"Che cosa importa se il sonno della nostra bambina si prolunga? L'universo dove dobbiamo vivere è presenza di Dio, dove tutte le delusioni del tempo possono trovare immediatamente il loro posto, tutte le sofferenze trasformarsi in gioia. Non ci resta che diventare cristiani a tempo perduto... Sentivo che mi avvicinavo a quel piccolo letto come ad un altare, ad un luogo sacro da dove Dio parlava mediante un segno. E tutto intorno alla bambina, non ho altre parole: un'adorazione. Bisogna osare di dirlo: una grazia troppo pesante. Un'ostia vivente in mezzo a noi. Muta come un'ostia. Splendente come un'ostia...".


Nella foto: tramonto con cielo nuvoloso.


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(21.7.08) I PROBLEMI AMBIENTALI A GALATRO (di Vito Sofrà) - Ciao a tutti, rinnovo i saluti alla Redazione e a tutti i lettori.
Vorrei far notare a tutti i lettori che il problema che oggi potrebbe essere in primo piano in questo paese è il problema della salute. Tanti morti di malattie gravi.
Qualche anno fa a Cosoleto, un paese non molto lontano dal nostro, è stato mandato un gruppo di dottori specializzati per controllare l'aria nel territorio. Chiedo se si potesse avere anche qui a Galatro un gruppo di specialisti: non dimentichiamo che la spazzatura fino a qualche anno fa si scaricava 'o "Màrcatu", zona che tutti conosciamo.
Vorrei capire quanta diossina si è sprigionata. Forse questo non è il problema, è una mia supposizione.
Signor Michele scozzarra, mi complimento con lei per quello che scrive. E' una profonda immagine per il nostro paese e la stimo tantissimo. Spero che lei possa dare un giudizio su questa problematica.


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Cartina della Libia (25.7.08) INCAZZARSI E' UN DOVERE CIVICO (di Michele Scozzarra) - Non so se ci è permesso il diritto di essere... incazzati! Ma dopo quello che ho letto sui giornali stamattina, non riesco a trovare una parola più appropriata. Questo il titolo in prima pagina sulla Gazzetta di oggi: “Patto di amicizia: regaleremo un’autostrada alla Libia”. Poi all’interno: “Libia e Italia sigleranno nelle prossime settimane un accordo di “compensazione” per i danni del colonialismo. L’intesa ha detto il figlio del colonnello Muammar Gheddafi, è “miliardaria”. Saif al Islam, che parlava alla televisione libica, non ha specificato la valuta della somma. Roma, ha aggiunto, costruirà un’autostrada e finanzierà progetti per l’istruzione...”.
Quanto riportato dalla Gazzetta, non parla di quello che, a detta di tanti, cova sotto la cenere, cioè un accordo sui clandestini con la Libia. In questo momento la rabbia allontana da me le parole adatte alla circostanza, per questo userò quelle di uno che, di queste cose ne sa più di me: Magdi Allam, il quale qualche anno addietro, a Rimini ha avuto parole, non solo dure, ma di una lucidità estrema sui pericoli che l’Occidente corre a trattare con certi personaggi come il “pacifico” colonnello. Vale la pena di sottolineare e, soprattutto, meditare alcuni passaggi dell’intervento di Allam:
“Ho deciso di scrivere “Io amo l’Italia” proprio nel momento in cui mi sono reso conto della profonda discrepanza che c’era tra l’Italia che io avevo interiorizzato come scelta di vita, come patria di valori e di ideali e un’Italia odierna dove si è perso il senso dello Stato, si è perso l’interesse nazionale, la cultura del bene della collettività... Purtroppo farò soltanto due brevi esempi per condividere con voi l’amarezza che ho provato questa mattina, subito dopo il risveglio, leggendo i giornali... La svendita dei propri valori per denaro è una strada che porta al suicidio della civiltà ed è un atteggiamento che l’Italia sta reiterando, per esempio, anche nella vicenda con la Libia, legata al fenomeno dei clandestini.
Quando don Giussani giustamente dice che noi dobbiamo partire dalla realtà, perché la realtà è la verità e la verità è realtà, ci mostra che siamo tutti quanti all’improvviso diventati ciechi, sordi, muti, che non vogliamo prendere atto del fatto che questi clandestini partono dalle coste libiche. Chi è stato in Libia, la Libia di Gheddafi, sa bene che in Libia non c’è foglia che si muova se non lo ordina Gheddafi. E’ assolutamente impensabile che tutti i giorni partano delle carrette del mare, piene di clandestini che pagano 2.000 e 3.000 dollari a mercanti di esseri umani, che usano equipaggi che sono o libici o assoldati dai libici, senza il consenso del Governo libico. Sembra che tutto ciò non sia una realtà e di conseguenza da un lato si alza la voce dicendo: dobbiamo porre fine al fenomeno dei clandestini, militarizzare le coste, ecc., e dall’altro, sottovoce, si dice: dobbiamo trovare un’intesa con Gheddafi. Noi dobbiamo denunciare Gheddafi, non cercare un’intesa con Gheddafi. Se abbiamo veramente a cuore la sorte di questa povera gente, noi dobbiamo denunciare il vero burattinaio di questo traffico di esseri umani, così come dobbiamo prendere atto – e qui vengo all’aspetto che volevo sottolineare: la svendita dei valori – che stiamo subendo un ricatto e continuiamo a comportarci come un Paese che si presta ad essere ricattato, nel momento in cui, oramai da 30 anni, Gheddafi esige quello che lui definisce “l’indennizzo” per i danni coloniali. Non c’è nessuna potenza ex-coloniale che abbia pagato dei danni coloniali a ex-colonie: non l’ha fatto la Gran Bretagna, non l’ha fatto la Francia, l’Olanda, il Belgio, per una ragione molto semplice, che una potenza coloniale ha preso ma ha anche dato ed è difficile quantificare il tutto. Non si comprende perché l’Italia abbia accettato questo principio e si sia fatta trascinare in un continuo gioco al rialzo dell’entità della cifra richiesta. Si era partiti infatti da un ospedale, dove sarebbero dovuti essere curati i libici che hanno subito delle lesioni per i campi minati all’epoca della guerra. Di fatto, poi, un ospedale traumatologico è stato costruito, ma evidentemente per Gheddafi questo non basta. Nel 2002 Berlusconi aveva dato la disponibilità dell’Italia a costruire un ospedale con una cifra complessiva di €. 63.000.000. Gheddafi disse: “Io preferisco un’autostrada che colleghi Tripoli e Bengasi, circa 600 chilometri”. Berlusconi gli disse: “Io ti do 63.000.000 di euro, se vuoi costruire un ospedale, costruisci l’ospedale, se vuoi costruire un’autostrada, costruisci l’autostrada”. Dopo l’assalto, la distruzione e l’incendio del nostro Consolato a Bengasi, il 17 febbraio scorso, l’Italia si è distinta per essere l’unico Paese al mondo in cui viene aggredita la propria rappresentanza diplomatica e il Governo si scusa con il Governo libico dicendo: “E’ stata una reazione all’esposizione della maglietta di Calderoli in televisione”. E’ questo un ennesimo errore di percezione della realtà, perché immagina che il terrorismo sia di natura reattiva, quando è palese che quella aggressione è stata ordinata dal regime libico, altrimenti non sarebbe potuta accadere. Ma dopo questa aggressione terroristica, di fronte alle scuse del Governo italiano, Gheddafi ha colto la palla al balzo e ha detto: “Io non voglio più un’autostrada di 600 km, la voglio di 3.000 km: dalla frontiera tunisina alla frontiera egiziana, costo stimato 3,5 miliardi di euro”. Ecco che cosa significa svendere i valori, la dignità, quando manca il senso dello Stato.
Ed è la stessa considerazione che faccio nei confronti degli Stati Uniti, della Francia e della Germania che, dopo aver subito degli attentati terroristici di cui Gheddafi ha ammesso la sua responsabilità - e mi riferisco alle stragi di Lockerbie del 1988 e del secondo aereo della linea francese Uta, fatto esplodere sui cieli del Niger nel 1989, stiamo parlando complessivamente di circa 500 persone uccise e dell’attentato alla discoteca La Belle - hanno accettato di condonare il crimine di cui Gheddafi ha ammesso la sua responsabilità a fronte di denaro. C’è una consuetudine, nelle tribù arabe: se un membro di una tribù uccide un membro di un'altra tribù, il crimine può essere condonato tramite un pagamento che viene chiamato “il riscatto del sangue”, e l’entità del riscatto varia a seconda dello status della persona e del sesso della persona, cioè se è una donna vale meno. Il fatto grave è che delle nazioni occidentali civili si sono comportate con Gheddafi con la stessa logica delle tribù arabe e con la stessa logica Gheddafi ha dato un riscatto maggiore ai familiari delle vittime americane, uno inferiore ai familiari delle vittime francesi e ancora inferiore ai tedeschi, perché nella sua concezione quella era la gerarchia di importanza. È un ennesimo esempio di quella che è, a mio avviso, una deriva valoriale-etica dell’Occidente. Mettiamoci nei panni degli altri: che percezione potranno mai avere della eticità dell’Occidente, quando si constata che questo Occidente lo si può comprare con il denaro?
Quindi, e qui concludo questa mia introduzione, ci sono indubbiamente dei problemi nella realtà degli altri, dobbiamo però occuparci dei problemi nostri... Ci stiamo affannando a concedere dei diritti agli altri, senza preoccuparci di esigere quei doveri che possono salvaguardare veramente l’interesse di tutti”.

Che dire... Il ricatto, sì proprio ricatto!, del colonnello Gheddafi all’Italia, questa volta sembra funzionare: se veramente volete fermare il flusso di clandestini che partono dalle nostre coste, avrebbe fatto sapere il leader libico ai politici italiani, bisogna che un “gesto simbolico” si concretizzi. In pratica ci invita a calarci ulteriormente le braghe e, piuttosto che venire incontro a tante esigenze di tanti nostri connazionali, che di quei soldi potevano veramente avere un giusto bisogno, il governo ha trovato il modo di fare questo regalo alla Libia... altrimenti, altrimenti son guai!, guai seri per l’Italia...
Senza scomodare il grande Montanelli, che a riguardo di questo oscuro personaggio diceva che la colpa è degli italiani, perché se non ci fossero stati loro in Libia, con la “nostra” cultura e civiltà, il mondo avrebbe avuto un colonnello-dittatore in meno e un cammelliere in più...
Credo che sia sotto gli occhi di tutti, come la “nostra” Italia oggi si trovi di fronte a delle sfide epocali che richiedono un salto di qualità, in primo luogo sul piano della corretta conoscenza della realtà, per allontanare la cappa della mistificazione e della paura che dalla Libia arriva alle nostre sponde...
E alla luce di quanto detto sino ad ora, le condizioni per dire che “dobbiamo” essere incazzati ci sono tutte... ma proprio tutte!

Nella foto: cartina della Libia.


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Don Rocco Distilo a Roma in Piazza S. Pietro. (1.8.08) RICORDANDO DON ROCCO DISTILO (di Michele Scozzarra) - Sono passati trentacinque anni. Il 2 agosto del 1973, Don Rocco Distilo moriva improvvisamente a Galatro: in quel caldo pomeriggio di agosto, quando le sorelle andarono a svegliarlo dal sonno pomeridiano, lo trovarono morto.
Ricordo ancora lo sgomento di quei momenti... e lo ricordo bene, perché io ero uno dei chierichetti di don Rocco, lo seguivo passo passo, e la sua morte mi ha turbato non poco: era il "mio" prete, il prete della mia infanzia, al quale erano legati tutti i miei ricordi collegati alla Chiesa, ed alla Chiesetta del Carmine in particolare.
Per questo, nel ricordare don Rocco, voglio evitare di cadere nella fredda commemorazione, e provo anche una certa paura nello scrivere di lui, non volendo sciupare con le mie tappe cronologiche, il caro ricordo di una presenza amica che mi ha accompagnato fino al giorno della sua morte.
Don Rocco Distilo è nato a Galatro, da Domenico e Maria Annunziata Zito, l'11 novembre 1908. Frequenta le scuole elementari a Galatro e, nell'anno scolastico 1923/24, entra nel Seminario vescovile di Mileto, dove frequenta i cinque anni di ginnasio e ottiene la licenza con la media del 10. A Catanzaro, presso il Seminario Teologico "Pio X", frequenta il liceo filosofico e ottiene la licenza liceale con 10 e lode.
Doveva frequentare il corso di teologia nello stesso Seminario, ma ha dovuto interrompere gli studi perché chiamato a fare il militare. Svolge il servizio presso il Comando Distrettuale di Ascoli Piceno, dove sta al fianco del Col. Francesco Pancrazio, il quale conosciute le doti morali ed intellettuali di don Rocco, gli fa un elogio che è stato pubblicato sul "Giornale del Soldato".
Nell'anno 1933, ottenuto il congedo, andò a Firenze, presso il Collegio "Alla Querce" di San Domenico di Fiesole, dove frequentò i primi tre anni di Teologia. Il quarto anno, l'ultimo, per volere di Mons. D. Paolo Albera, al tempo Vescovo di Mileto, lo frequentò a Catanzaro, presso il Seminario Teologico "Pio X".
Il 1° agosto 1937 viene ordinato sacerdote. Il 1° ottobre dello stesso anno viene mandato quale parroco a Feroleto della Chiesa, dove svolge il suo apostolato per ben 17 anni.
Nel 1954 gli viene affidata la Parrocchia di Maria SS. delle Grazie a Monsoreto, e qui resta per sei anni.
Nel 1961 viene nominato Arciprete della Parrocchia di San Nicola in Galatro, ove esercita la sua missione fino alla morte.
Ma, oltre questi riferimenti biografici, posso dire di aver conosciuto bene don Rocco, solo da grande, dopo aver letto i suoi scritti, nei quali ne ho scoperto l'intelligenza, il temperamento, la sensibilità e la fede.
Don Rocco era dotato di una invidiabile cultura filosofico letteraria, scrisse tanti articoli su molte riviste, ha avuto dispute filosofiche con filosofi di grande fama e scrisse moltissime poesie in lingua ed in vernacolo.
Dai suoi scritti, da "Prime luci nella valle" a "Di sentiero in sentiero", da "Uno è l'amore" a "Giornate di sole" (pubblicato nel 1981, quando è stata intitolata al suo nome la Scuola Media Statale di Galatro), risalta la preoccupazione fondamentale di don Rocco, cioè quella di fare della Chiesa il punto di riferimento dei suoi giudizi, non rinunciando a giudicare nessun avvenimento, piccolo o grande che fosse, da un punto di vista della vita e della realtà cristiana.
Don Rocco ha avuto molte onorificenze e moltissimi critici hanno parlato di lui. E' stato anche un suonatore di organo e pianoforte e ha composto diversi inni sacri e tante opere musicali. Ma, soprattutto, è stato un predicatore di gran fama: moltissimi sono i panegirici tenuti nei vari paesi della Calabria in occasione delle feste religiose.
Sono passati trentacinque anni da quel 2 agosto del 1973: le sorelle non hanno toccato niente nella sua stanza, ancora oggi è così come l'ha lasciata don Rocco, in quel caldo pomeriggio di trentacinque anni fa.
Ed io che ho avuto modo di apprezzare le tante qualità di questo figlio della nostra Calabria innamorato della Chiesa, ancora oggi, ogni qual volta mi ritrovo a guardare verso la finestra della sua stanza, mi sembra ancora di vederlo, con l'immancabile sigaretta in mano, il colletto slacciato per il sudore... e mi sembra ancora di udire il suono maestoso del pianoforte.
Ma don Rocco non c'è più, ora non vive più tra le sue stanze, ma vive nella gloria di Dio, dove è stato accolto dalla Madonna che ha tanto amato e predicato, dai suoi genitori, dai suoi parrocchiani, dai suoi amici...
E sono sicuro che, da lassù, guarda anche a noi che ci ricordiamo di lui.
E intercede per noi...

Nella foto: Don Rocco Distilo a Roma in piazza S. Pietro.

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Madonna del Carmine e Bambino visti di fronte (2.8.08) LA FESTA DELLA MADONNA DEL CARMINE (di Michele Scozzarra) - A Galatro la prima domenica di agosto viene celebrata la festa della Madonna del Carmine e... anche se, ormai da tanti anni, non ci sono più i cosiddetti festeggiamenti civili... anche se nessuno lo dice con i soliti manifesti che si affiggono sui muri... anche se non c’è nessun cantante per allietare la serata... anche se non passa per le strade del paese nessuna macchina ad annunciare la festa... nonostante questo i galatresi lo sanno, sanno che questo non è un giorno come gli altri... questo è un giorno di festa!
Lo sanno perché la festa della Madonna del Carmine, a Galatro, è una festa spontanea, semplice e vera, che ha la sua radice profonda nella tradizione più intima e più cara al popolo galatrese. I galatresi lo sanno perché sentono nel cuore che questa festa c’è, anche se nessuno ne parla, è presente anche quando non si vede... è come la luna che un pò non c’è e poi c’è di nuovo. Ma anche quando non si vede si sa che c’è lo stesso...
La Madonna del Carmine in processione. Ecco la festa della Madonna del Carmine, per tanti galatresi è questo: sapere che c’è… anche quando tutto sembra buio… sapere che c’è... anche se fisicamente le circostanze ci portano lontano… sapere che c’è... pensarla, tenersi pronti anche quando si è lontani, così come i contadini sanno, d’inverno, che a luglio ci sarà da mietere…
La Tradizione racconta che sul Monte Carmelo (Karmel tradotto significa: giardino-paradiso di Dio) si ritiravano degli eremiti, vicino alla fontana del profeta Elia; poi proseguirono ad abitarvi, anche dopo la venuta di Cristo, e verso l'anno 93 un gruppo di essi, che si chiamarono ”Fratelli della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo”, costruirono una cappella dedicata alla Vergine.
Iniziò così un culto verso Maria, il più bel fiore di quel giardino di Dio, che divenne la “Stella Polare, la Stella Maris” del popolo cristiano e il 16 luglio del 1251 la Vergine, circondata da angeli e con il Bambino in braccio, apparve al beato Simone Stock, al quale diede lo ‘scapolare’ col ‘privilegio sabatino’, che consiste nella promessa della salvezza dall’inferno, per coloro che lo indossano e la sollecita liberazione dalle pene del Purgatorio il sabato seguente alla loro morte.
Lo ‘scapolare’ detto anche ‘abitino’ non rappresenta una semplice devozione, ma una forma simbolica di ‘rivestimento’ che richiama la veste dei carmelitani e anche un affidamento alla Vergine per vivere sotto la sua protezione.
Per questo la festa della Madonna del Carmine non ha la durata di un solo giorno, perché è carica di mille significati: in pratica, nella sua essenza, non è altro che l’esperienza della fede, rivissuta così come è stata tramandata da innumerevoli generazioni, dentro un patrimonio culturale nato dai riti imparati nella Chiesa, su cui appunto, per secoli, si sono modellati i gesti, il linguaggio, le feste e anche il lavoro.
Profilo della Madonna del Carmine con Bambino Anche quest’anno il rivivere l’avvenimento di questa festa ci riporta a quanto accadde duemila anni fa. Il cristianesimo accade così nel silenzio della vita quotidiana e poi capovolge la storia, incendia i cuori e illumina il mondo. Anche al tempo di Augusto, in quella primavera dell’anno 747, a Roma, capitale dell’Impero, nessuno avrebbe mai degnato di attenzione una fanciulla ebrea di 16 anni che in un borgo oscuro della Galilea, Nazareth, aveva ricevuto una visita misteriosa e aveva coraggiosamente detto “sì” ad una maternità “impossibile”. Eppure per secoli lei sarebbe stata detta “beata”, per millenni sarebbe stata acclamata come “Regina”, amata come nessuna mai, rappresentata e cantata da centinaia di artisti, invocata da oceani di infelici come il loro dolce soccorso, chiamata da poveracci e re.
In quella piccola ragazza si è compiuto il miracolo più grande che potesse accadere, il più sconvolgente ed il più inspiegabile, per dirla ancora con San Bernardo, nel XXXIII canto del Paradiso della Divina Commedia di Dante:

“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura”...


Di solito i festeggiamenti si aprono con la messa serale che dà inizio alla "novena", con suoni di tamburi e di campane per poi continuare il giorno della vigilia quando la statua della Madonna viene levata dalla nicchia ed esposta, in Chiesa, al culto dei fedeli, mentre intorno si leva l’inno alla Vergine:

Meglio che aurora fulgida,
che fu la notte oscura,
tra noi venisti a nascere,
Immacolata e pura.

E luce a noi portasti
col sommo tuo splendore
Vergine del Carmelo,
Madre d’immenso amore.


La mattina della festa ci si sveglia con lo scoppio dei fuochi d'artificio e, già di buon'ora, per le vie del paese, dal passaggio della banda musicale e dei tamburi, il più delle volte, ma con il passare degli anni sempre di meno, con una coda di ragazzi al seguito...
Nel corso della mattinata è un continuo pellegrinaggio di fedeli che si recano in Chiesa per partecipare alla piccola processione per portare la statua della Madonna dalla Chiesa del Carmine in quella di San Nicola, dove poi si svolgerà la funzione religiosa.
Nel tardo pomeriggio nella piazza antistante la Chiesa, si raccolgono i fedeli che attendono il momento più significativo della festa: l'uscita della statua dalla Chiesa per la processione... infatti la statua viene portata fuori al suono interminabile delle campane, al suono delle marce intonate dalla banda e dal fragore dei tamburi e dei fuochi d’artificio.
La processione, un tempo, oggi accade sempre più raramente, veniva fatta fermare per la presenza, lungo il percorso, di numerosi bambini che, completamente nudi, venivano affidati dai genitori alle persone che portavano la "vara" e da questi alzati verso il cielo e verso la Statua, mentre tutti intorno battevano le mani, atto questo, attraverso cui si intendeva consacrare i bambini alla Madonna.
Passo passo, dopo aver percorso quasi tutte le vie del paese, la processione ritorna di nuovo nella piccola Chiesa del Carmine, dove al suono della banda e delle campane e dei fuochi d’artificio, la Statua della Madonna viene ricondotta ai piedi dell'altare e si pone fine ai festeggiamenti, mentre un coro di voci, stanche dalla fatica, rivolge l’ultimo pensiero alla Vergine:

Tu nostra gran Regina,
Madre di chi t’implora
Al tuo devoto Galatro
Grazie dispensa ogn’ora.

Tu tutto poi proteggilo,
prega per noi il Signore,
Vergine del Carmelo,
Madre d’immenso amore.


Processione della Madonna del Carmine di oltre quarantanni fa

La Madonna del Carmine in una processione di molti anni fa
  Portatori della Madonna in una processione di molti anni fa

Nelle tre foto a colori in alto: la Madonna del Carmine come si presenta oggi. Da notare la bellezza, la soavita, l'eleganza e l'equilibrio armonico che traspaiono sia nella statua della Vergine che in quella del Bambino. Si tratta senza dubbio della più bella realizzazione di Madonna attualmente presente a Galatro.

Nelle tre foto in bianco e nero: momenti della processione della Madonna del Carmine di quaranta / cinquanta anni fa.


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(4.8.08) IN RICORDO DI MIO FRATELLO PASQUALE (di Guerino De Masi) - Ho letto ciò che Michele Scozzarra ha scritto sulla ricorrenza della morte di Don Rocco Distilo e mi sono reso conto che quasi esattamente otto anni prima, moriva mio fratello Pasquale.
Di getto ho scritto il testo seguente.
E' con voi della Redazione che innanzi tutto sentivo il bisogno di comunicare. Siete oramai miei confidenti. Ho molta stima delle vostre persone e del servizio che rendete a tutta la comunità e questo mi conforta già sufficientemente.
Mi auguro che ci sia un futuro luminoso ed incoraggiante per la nostra cara Galatro, per un giorno dimenticare quanto di penoso in questi anni si sta vivendo nel nostro paese.
Credo che saranno persone come voi che potranno dare una svolta positiva. Penso che sia possibile, e prego il Signore che guidi e benedica uomini e donne come voi per il bene di Galatro.
Vi saluto quindi con tutta la mia stima ed affetto cristiano.

* * * * *

Quella domenica mattina, era il 1° Agosto del 1965, Pasquale, l’unico figlio di Peppi ‘i Masi e Meluzza Simari che provvedeva al sostentamento della famiglia facendo il boscaiolo in Francia, si alza presto. Non come durante i giorni feriali in cui già dall’alba, assieme ad Adriano, marito di Rachelina, si apprestava già ad un’altra faticosa giornata nei boschi del sud-est della Francia.
Quella domenica, disse alla mamma che doveva recarsi alla vicina officina meccanica di Vizille per procurarsi una tanica di olio esausto per la lubrificazione della catena della sua indispensabile motosega Dolmar.
Pasquale curava con molta attenzione questa grossa motosega essendo uno strumento fondamentale per l’abbattimento delle conifere in alta quota tra le montagne dell’Isére.
I fratellini erano ancora a letto quando, inforcata la sua “motobecane”, salutava la sua cara mamma e si avviava su quella breve strada che da l’Ile de Falcon lo conduceva fino a Vizille.
La motobecane era il motorino del padre, un cinquantino che Pasquale utilizzava quando occorreva portare qualche carico più gravoso del solito. La bicicletta era di gran lunga da lui preferita al veicolo a motore. Quando Guerino era ancora a casa, prima che andasse in quella scuola alberghiera nel Jura, si facevano delle gran gare tra motorino e bicicletta, ma Pasquale non si faceva mai distanziare e come il vento pedalava dietro al motorino dovendo a volte frenare per non investirlo.
La Peugeot 404 Diesel Limousine era guidata solo da Nazzareno che avendo venti anni aveva la sua “patente”, il “Permis de Conduire”. Pasquale non aveva ancora che diciassette anni e doveva aspettare ancora il 28 Febbraio del 1966 quando avrebbe compiuto i suoi diciotto anni per poterla guidare. Pertanto, essendo Nazzareno finanziere nel Brennero, l’auto rimaneva chiusa in Garage.
Pasquale non se ne dispiaceva. Allegramente svolgeva la sua attività senza mai brontolare o pretendere qualcosa e pur essendo rimasto solo in casa, non faceva pesare a nessuno il fatto d’avere sulle sue sole spalle, l’onere del sostegno di famiglia.
Nazzareno, avendo preso la sua strada nella Guardia di Finanza, non poteva certamente dopo poco più di un anno essere di vero sostegno finanziario per la famiglia. Così neanche Guerino che allora quindicenne, nella scuola alberghiera in cui si trovava, poteva solo usufruire del vitto e alloggio. Per lo meno, nessuno dei due era un peso per le finanze esigue della famiglia.
Il Padre, Peppi ‘i Masi, si era ammalato quello stesso anno di “angina pectoris”, per cui dovette assolutamente smettere con il duro lavoro del boscaiolo.
La Madre, Meluzza Simari, doveva accudire in casa, con ancora altri tre bambini il più grande dei quali, Alfredo, aveva solo nove anni. Degli altri due, Mario, il più piccolo di quando siamo partiti da Galatro, aveva sette anni e Raffaele, l’ultimo nato in Francia, ne aveva cinque.
In quei giorni d’estate, il padre era in visita dalla figlia Auriemma col marito Rocco Marazzita a Gorgonzola. In casa aspettavano il suo ritorno proprio quel primo Agosto.
Tutti erano ansiosi d’avere notizie dall’Italia.
Certamente Pasquale voleva essere presente al suo ritorno per godere assieme al resto della famiglia delle buone notizie che il padre portava. La sua decisione d’andare a Vizille di prima mattina gli doveva dunque permettere di sbrigarsi in tempo per poi poter conversare con il padre non appena sarebbe arrivato.
Inoltre desiderava avere anche notizie di quelle famiglie che pochi mesi prima aveva conosciuto in occasione della loro visita di Pasqua a Gorgonzola. Si trattava di splendide persone che avevano trasmesso a Pasquale, come pure a Domenico ed ai genitori, una folata di aria fresca e nuova. Queste persone avevano un linguaggio familiare alla mamma ed al padre Peppi ‘i Masi. Erano semplici operai, ma conoscitori e facitori di una fede cristiana che si distingueva da quella che il padre Peppi aborriva a seguito della sua esperienza durante la guerra che aveva fatto di lui un “mangiapreti”. Questi parlavano del Signore Gesù.
La mamma era figlia di Michele Simari e sorella di Antonio, quei “protestanti evangelici", che di ritorno da Buenos Aires, negli anni 20, hanno portato a Galatro la loro fede ed il messaggio evangelico fino ad aprire un luogo di culto in casa di “Pinnolaro”. Fin da bambina aveva dunque ascoltato la lettura della Bibbia, quando ancora questa non era consigliata, per non dire vietata, alla gente comune. Non da meno Peppi ‘i Masi, che sin da giovanotto ebbe contatto con questa mite famiglia Simari fino a sposarne la figlia, malgrado i pregiudizi dei familiari e degli amici.
Ma tutto questo era sparito fino a quel benedetto giorno di Pasqua del ’65 quando udendo un certo Domenico Pace, lucano, emigrato in Lombardia qualche anno prima, semplice operaio, praticamente analfabeta, che parlava del Signore Gesù e del meraviglioso messaggio di salvezza che Dio offriva a chiunque con il Vangelo, il padre Peppi disse: “chisti sì cà sugnu cristiani!”.
La pace e la serenità che entrarono in casa dei Demasi da quel giorno vedono il loro radicarsi in ogni componente della famiglia, per la lettura quotidiana della Bibbia che si faceva a casa. Attorno al tavolo, in cucina, ci si riuniva senza alcuno schema predefinito o ordinato, ma con semplicità di cuore e con il desiderio di conoscere ciò che Dio voleva dire ad ognuno. Pasquale ne era leader, con il suo entusiasmo, la sua allegria ed il suo zelo. Era lui che pregava a tavola prima dei pasti, e questo sia a casa che nei boschi dove il lavoro lo tratteneva.
Il padre che tornava da Gorgonzola, avrebbe certamente raccontato di queste famiglie e di cosa aveva ancora ascoltato visitandole.
I pochi chilometri che erano da percorrere per arrivare a Vizille furono brevi e presto Pasquale si dedicò al riempimento della sua tanica per l’olio esausto che il gestore del distributore/officina gli permetteva di procurarsi.
Erano quasi le dieci di quella domenica mattina.
La tanica ben legata sul porta pacchi del motorino con i soliti elastici a gancio.
Pasquale è fermo sul ciglio della piccola carreggiata in procinto di prendere la strada del ritorno.
Una camicia a quadri azzurri, con maniche corte sotto il giubbone che lo proteggeva dall’aria del mattino. Pantalone di tela leggera per la domenica e un paio di scarpette ai piedi.
Il motorino di piccola cilindrata era sì assicurato, essendo d’obbligo per legge in Francia, ma non era d'obbligo indossare il casco.
La Renault R8 che sopraggiungeva faceva il classico rumore che tanto piaceva ai giovani.
L’accelerazione era forte. Certamente l’autista stava gustandosi l’ebbrezza della guida di un'auto così agognata da tutti i ragazzi diciottenni. Lui era neopatentato e probabilmente voleva far notare il suo ingresso nel paesino. Ma un’auto sopraggiungeva dal lato opposto ed egli doveva per forza incrociarla là, dove Pasquale era in attesa.
La strada non era certamente molto stretta, e due auto potevano facilmente transitare in quel punto. Ma vuoi per l’inesperienza del giovane autista, vuoi per l’eccessiva velocità (pare che andasse a cento all’ora), il neopatentato strinse più del dovuto a destra.
L’impatto fu terribile.
L’auto andò ad investire in pieno Pasquale in sella al suo motorino.
La violenza dell’urto fece piroettare in aria Pasquale, strappandogli una scarpa dal piede che fu poi ritrovata sul tetto della casa a due piani del meccanico.
La tanica d’olio esausto volò pure rompendosi e spargendo il suo nero liquido ovunque.
Pasquale ricadde rovinosamente a testa in giù.
Il suo giaccone riportava l’unico segno dell’impatto per uno strappo alle spalle.
Quando sopraggiunse l’ambulanza, Pasquale era a terra, moribondo, coperto e imbrattato da quell'olio esausto.
Fu trasportato direttamente a Grenoble in direzione dell’ospedale La Tronche ma, durante il tragitto, fu deciso di andare all’obitorio, essendo Pasquale morto per la rottura del collo.
Un certo sig. Dialey, che passava con la sua Vespa, riconoscendo Pasquale, andò subito ad avvisare la mamma della sciagura.
La famiglia Dialey era una delle pochissime a l’Ile de Falcon ad avere il telefono. Da casa sua furono fatte le telefonate più urgenti a tutti i figli.
Il Padre era in viaggio di ritorno in treno e non si è potuto informarlo.
Per prima sopraggiunge Rachelina e accorre con la madre in obitorio.
Guerino arriva nel tardo pomeriggio dopo un costoso viaggio in pullman.
Quando il padre arriva è il piccolo Raffaele a corrergli incontro dicendogli subito: “Pascal est mort!”
Il villaggio intero si strinse attorno alla famiglia. “Pepette”, l’amichetta tredicenne di Pasquale indossò il lutto e tutti i ragazzi del paese vennero in casa dimostrando la loro simpatia e partecipazione al lutto che colpiva la famiglia “Demazì”.
Arrivarono pure Auriemma e Rocco con Domenico e sua moglie Caterina in macchina, una vecchia Topolino, con la quale attraversarono le Alpi. Un viaggio di più di quattrocento chilometri su strade di montagna. Come avranno fatto?
La presenza di Rocco Marazzita fu preziosa in quelle ore, quei giorni di profonda tristezza e di sconforto per tutta la famiglia. Egli seppe, con le sue parole, dare consolazione e speranza cristiana al bisogno profondo dell’anima di ognuno.
Il padre decise di trasportare la salma per essere sepolta a Galatro. Nessuno ha pensato, oppure osato, dissuaderlo da un simile progetto per le difficoltà ed il costo cui si andava incontro.
Due giorni dopo, il carro funebre partì da l’Ile de Falcon per l’Italia, con il padre a lato della bara e Guerino a fianco dell’autista.
Ci fu una breve tappa a Gorgonzola ed il viaggio riprese per la volta di Galatro.
Il caldo estivo rese difficile la permanenza nel carro funerario per via dell’odore che la bara emanava. La strada dopo Salerno, attraverso la Valle Lucana, sembrava interminabile.
Finalmente, giunti a Galatro, una folla impressionante riempì la via Regina Margherita ed il corteo si incamminò verso il camposanto dove Guerino svenne, sopraffatto da tanta fatica ed emozione.
Tra gli intervenuti, Domenico Simari rammentò la sua visita in casa dei Demasi in Francia ed i suoi ricordi di Pasquale che non c’è più.
La morte di Pasquale marcò il tempo di un cambiamento profondo nel padre Peppi ‘i Masi e nei fratelli, tra cui Guerino che adesso vuole ricordarlo a distanza di quarantatre anni.
Davanti al corpo esanime sul tavolo freddo dell’obitorio a Grenoble, Guerino si era posto la domanda: dove sarei io adesso se fossi al suo posto? Ed ancora: come è possibile che tutto sia finito così, che mio fratello non c’è più?
Un anno dopo, superato il dubbio innato sul cosa c’è dopo la vita, avendo trovato ciò che rendeva così sereno e felice Pasquale, anche Guerino, come tutti i suoi fratelli, uno alla volta, riceveva Gesù nella sua vita come Salvatore e Signore credendo che alla croce Egli, il Cristo, si era caricato di tutti i suoi mali per dargli la vita, una vita eterna che non finirà mai.

Oggi, primo Agosto 2008, voglio ricordare e onorare la memoria di mio fratello Pasquale Demasi, morto in Francia quella domenica mattina del primo Agosto 1965.

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Michele Scozzarra (10.8.08) AMBIENTE: SCORIE RADIOATTIVE O CIBI STRANI? (di Michele Scozzarra) - Qualche settimana addietro Vito Sofrà, intervenendo su un problema di primo piano, quale è quello della salvaguardia della salute nel nostro ambiente, faceva notare come, nel nostro paese si registrano tanti, forse troppi, decessi per malattie gravi... ponendo una domanda per un controllo più efficace del territorio, per cercare di capirne la causa.
Ricordava come a Cosoleto il Sindaco ha denunziato un problema analogo, definito di eccezionale gravità, mettendo in risalto l’incidenza di mortalità determinata da malattie tumorali all’interno del suo Comune: “solo negli ultimi dieci anni si è registrata poco meno della totalità dei decessi quasi esclusivamente a causa del male incurabile e l'incidenza di morte per cause tumorali è superiore al novanta per cento”.
Concludeva, poi, il suo intervento, chiedendo a me di dare un giudizio su questa problematica, per quanto riguarda il nostro paese.
Ammetto che non so cosa rispondere: innanzitutto perché non ho, a riguardo, alcuna competenza; in secondo luogo perché non mi va di creare delle “favole metropolitane” che hanno sola la funzione di portare allarmismo, spostando forse il problema dalla sua reale dimensione, che non è quella di fantomatiche scorie presenti nel nostro territorio.
Qualche anno addietro, su un noto settimanale a tiratura nazionale, è apparso un articolo nel quale si metteva in risalto, come nei Comuni di Galatro e Brattirò l’incidenza di morte per cause tumorali, in rapporto alla popolazione, era tra le più alte registrate nel territorio Nazionale. Penso che qualcuno qualche piccola indagine l’ha pure svolta, soprattutto nella zona circostante la Diga... ma di radioattività, o altre cose del genere, sembra non si sia riscontrato niente.
Quindi ogni allarmismo a riguardo, a mio avviso, è inutile... Forse è il caso di spostare la mira da qualche altra parte... Dove il problema è serio veramente...
Pomodori di varia tipologia e incerta origine. E’ inutile negare che le abitudini alimentari, anche nel nostro piccolo paese, sono molto cambiate e, per molti versi, non sono diverse da quelle delle grandi città: andiamo a comprare nei grossi supermercati, dove non sappiamo quello che mangiamo da dove proviene, chi lo produce, come è arrivato nelle nostre tavole.
Abbiamo visto nei giorni scorsi che stavano mettendo sul mercato dei generi alimentari surgelati, scaduti già nel 1998... e non penso che questo è il solo caso... ma non voglio andare oltre...
Abbiamo in ogni stagione, ogni tipo di ortaggi e frutta che non sappiamo come è stata prodotta e da dove viene... Per mangiare un’anguria o un melone, o altra frutta di cui non è accertata la provenienza, bisogna avere a portata di mano il Malox... Non sappiamo cosa transita e dove hanno sede le coltivazioni agricole e gli orti che entrano nella grossa catena alimentare di distribuzione...
Penso che queste sì, veramente, stanno diventando strumento fertile per tante terribili malattie...
In parole povere siamo in una realtà dove non sappiamo cosa mangiamo e cosa beviamo... e chi di noi entra in un qualsiasi supermercato alimentare, non può non accorgersene che qualsiasi cosa viene comprata “a scatola chiusa”... Non è raro il caso che si porta a casa un prodotto alimentare senza neanche sapere cosa è, che sapore ha, con che cosa è stato preparato...
Ma... oggi come oggi, non abbiamo alternative! O ti mangi la minestra o ti butti dalla finestra...! Nessuno di noi ha la possibilità di attingere al suo “orto” il proprio fabbisogno alimentare, per questo, diciamo semplicemente che, siamo nelle mani di Dio e che il Signore ci assista e ci guardi Lui, da quello che non solo non possiamo vedere, ma non possiamo neanche sospettare di mettere sulle nostre tavole.
Non avendo, e potendo, altro da dire a riguardo, prima di chiudere questa parentesi “ambientale”, voglio ringraziare tutte quelle persone che, negli ultimi tempi, hanno scritto al sito di Galatro Terme News, con delle parole lusinghiere verso i miei articoli...
Posso solo dire che ringrazio tutti... non è peccato di presunzione dire che mi fa piacere che i miei articoli vengano apprezzati...
I fatti della vita, la realtà delle cose con la quale siamo costretti a confrontarci ogni giorno, portano chi scrive a misurarsi con la passione che lo anima, nella consapevolezza che solo partendo da uno sguardo positivo, e non solo superficiale sull'ambiente nel quale viviamo, si può combattere la cultura della negatività e dell'incertezza e si può realmente costruire qualcosa di reale e di diverso dalla debole filosofia che inneggia alla cultura dell'effimero e del nulla.
Non posso dire altro che: "grazie" a chi ha la pazienza di leggermi e “grazie” anche a Galatro Terme News che mi da la possibilità di divulgare, per i miei forse meno di venticinque lettori per niente annoiati dalle cose che scrivo, i miei modesti servizi... con la consapevolezza, penso non solo da parte mia, che nel "mortorio" culturale nel quale "vivono" tanti nostri paesi, la presenza di un giornale rappresenta un segno di grande sfida e coraggio che porta grandezza al nostro ambiente.
E, in momenti di magra come quelli attuali, un pò di grandezza non guasta. Anzi ne abbiamo bisogno per vivere!

Nelle foto: a sinistra in alto Michele Scozzarra; in basso a destra pomodori di varie tipologie e di incerta origine.

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Fusti di scorie radioattive (25.8.08) RIFIUTI NOCIVI E CONSEGUENZE NEFASTE (di Nicola Marazzita) - Intervengo sollecitato dalle preoccupanti considerazioni postate da Vito Sofrà su questo sito qualche settimana fa, sulle nefaste conseguenze di possibili depositi di rifiuti nocivi nel nostro territorio e sulle altrettanto interessanti valutazioni di Michele Scozzarra. Confermo sicuramente che i problemi posti sono seri ed evidenziano un argomento molto dibattuto negli anni novanta e sul quale molte procure della Repubblica hanno avviato indagini complesse, peraltro ancora non concluse. Non sono peregrine, dunque, le preoccupazioni di Vito Sofrà. Senza “creare allarmismo” e attenendomi ai “fatti” tenterò di ricordare a me stesso e a tutti voi avvenimenti vissuti in prima persona. All’inizio degli anni novanta ricoprivo la carica di Assessore presso la Comunità Montana Tirrenico settentrionale con sede a Cinquefrondi. Fortemente preoccupati, come Ente Territoriale, per i numerosi episodi di morti per gravi patologie tumorali nel territorio, avviammo un’indagine, di concerto con l’allora Unità Sanitaria Locale (USL) ed i Comuni interessati, al fine di accertare se vi fosse un’incidenza maggiore di tali patologie nel territorio della Comunità Montana rispetto al dato regionale e nazionale. Nel corso della lunga e travagliata indagine venimmo a conoscenza, soprattutto attraverso i contatti avviati con le Procure della Repubblica interessate e Legambiente, degli intrecci inquietanti tra clan mafiosi calabresi ed operatori economici senza scrupoli per lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi.
Per motivi che tutti possono comprendere riporto situazioni verificabili e ampiamente trattate nei processi o riferiti dai giornali nazionali.
L’inchiesta ebbe inizio con la presentazione da parte del Dott. Enrico Fontana, dirigente nazionale di Legambiente, dell’esposto presso la Procura di Reggio Calabria indicante i sospetti del traffico di rifiuti tossici tra le regioni del nord e la Calabria.
Iniziavano le indagini che venivano affidate al dott. Francesco Neri Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria e grande esperto in tema di ambiente e di rifiuti. Per meglio inquadrare i fatti riporto stralci dell’intervento di Giacomo Saccomanno, Presidente del Centro di Azione Giuridica di Legambiente Calabria:

“…Dopo mesi di indagini veniva fuori un quadro inquietante…
L'inchiesta subiva un brusco arresto, in quanto il Ministero non dava alla Procura di Reggio Calabria l'autorizzazione ad eseguire una perizia tecnica sulle navi, che risultavano affondate dinanzi a Capo Spartivento, in una frattura del terreno, ove la profondità marina era rilevantissima. La Legambiente, tramite il sottoscritto, si rivolgeva alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per denunciare la violazione della Convenzione in relazione al comportamento omissivo assunto dal Ministero che impediva, di fatto, la prosecuzione delle indagini. Nel frattempo, però, sul problema calava un tenebroso silenzio!
Da voci di corridoio sembrerebbe che l'indagine avesse raggiunto livelli molto alti e che il traffico si riferisse a scorie nucleari, oltre che ai rifiuti tossici. In sostanza, sembrerebbe, che dei calabresi emigrati in Liguria abbiano cominciato, circa venti anni fa, ad interessarsi di rifiuti e che nello spazio di pochi anni abbiano costruito una fortuna ingente. Quando, nella terra ligure i problemi sono diventati tanti, per le indagini assunte dalla magistratura del luogo, i suddetti personaggi trasferivano i loro interessi nelle altre regioni del nord Italia, continuando dapprima il traffico con i rifiuti tossici e poi, successivamente, interessandosi di quelli nucleari. In tale traffico venivano individuati anche possibili responsabilità di alcuni governi europei che affidavano le scorie radioattive ad una società, che si impegnava alla loro eliminazione tramite l'inserimento di queste in tubi di acciaio, che poi dovevano essere conficcati - secondo i contratti - a grandi profondità nel terreno.
Sembrerebbe, invece, che tali scorie venivano consegnate a dei clan mafiosi che provvedevano a caricarle su delle vecchie navi, con l'indicazione di trasporto di polvere di marmo, e, dopo una sosta a Livorno, venivano affondate nel Mediterraneo e, particolarmente, dinanzi a Capo Spartivento, esistendo ivi una fessura marina profondissima. Con tale operazione i clan ricevevano il pagamento per la eliminazione delle scorie radioattive e, contemporaneamente, ricevevano il pagamento, da parte delle assicurazioni, del valore delle navi e della merce dichiarata. Ma, un altro particolare risulta altamente inquietante: nella sosta presso Livorno una parte delle scorie, sembrerebbe, che venisse ripulita per riportarla all'origine e venderla poi ai paesi dell'Africa per la realizzazione della bomba atomica!! In cambio, i clan ricevevano il pagamento in oro che investivano per l'acquisto di armi, da rivendere ad altre nazioni. Per tali indagini, nel mentre si portava a Livorno per eseguire dei sequestri, decedeva, misteriosamente, un coraggioso, valente ed intuitivo ufficiale della Capitaneria di Porto di Reggio Calabria. Dapprima, sembrava che lo stesso fosse stato avvelenato, poi l'inchiesta moriva sul nascere... In tale giro si scoprivano responsabilità di persone molto importanti rivestenti, al tempo, alte cariche.
Inquietante, però, era il risvolto calabrese: i clan spesso facevano scaricare i fusti in mare oppure in discariche abbandonate o, ancora, in grotte ed in zone ove vi erano lavori di sbancamento terra. E tale circostanza veniva, anche, comprovata dallo strano aumento dei casi di tumore in alcune zone e con caratteristiche precise, in relazione alle possibili radiazioni nucleari. Nel corso delle indagini, sembrerebbe, che siano stati scoperti fusti abbandonati ed un perito, che era stato incaricato di rilevare la presenza di fusti nei pianori di Zomaro, veniva minacciato e fatto allontanare.
…L'inchiesta, in considerazione dei personaggi e delle questioni trattate, veniva trasmessa per competenza alla Procura Distrettuale Antimafia.
A parte il lungo e successivo silenzio, sembrerebbe che le navi sospette e affondate dinanzi a Capo Spartivento non vi siano più: abbaglio ed errore iniziale o qualcosa di molto, molto più inquietante?”


C’è di che preoccuparsi.
Magra consolazione è sapere che ad essere coinvolte nelle inchieste sullo smaltimento di questi rifiuti vi sono diverse regioni italiane: Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia. A dimostrazione di come, purtroppo, la criminalità ha esteso le sue attività, passando dal semplice controllo delle discariche abusive al trasporto e alla commercializzazione dei rifiuti tossici e radioattivi, costituendo quindi, una vera catena di produzione. "...A Santa Domenica di Talao, in provincia di Cosenza, sono state rinvenute in una vecchia fornace rifiuti ospedalieri provenienti dal alcune USL Marchigiane. In Aspromonte, invece, la magistratura sospetta la presenza in cavità naturali di bidoni di scorie radioattive provenienti dal Nord Europa. Materiali radiocontaminato è quasi certamente sepolto nel mar Jonio, nel basso Adriatico e nel Tirreno". È tutto finito? Pare proprio di no! Il settimanale l’Espresso, che già si era ampiamente occupato della vicenda rifiuti con una serie di reportage nel 2005, ritorna sull’argomento con un articolo da Reggio Calabria datato primo Luglio 2008.

“Si infittisce il mistero attorno ai legami tra l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin avvenuto a Mogadiscio nel 1994, il traffico di scorie radioattive e l’affondamento di navi nel Mediterraneo.

(…) Il procuratore Neri, per difendersi dalla querela sporta dal presidente somalo Ali Mahdi (ora archiviata), è tornato a studiare le carte della vecchia inchiesta. Una documentazione corposa che raccoglie informazioni determinanti sull'attività di Giorgio Comerio, presidente della società “Oceanic disposal management” (Odm), personaggio già incriminato per frode e truffa, definito in un’informativa dei carabinieri sicuramente massone e appartenente ai servizi segreti argentini, attualmente irreperibile. Entra a pieno titolo nell’inchiesta di Neri nel 1995 dopo la segnalazione del procacciatore di affari Elio Ripamonti, al quale Comerio aveva parlato della possibilità di smaltire scorie nucleari attraverso dei container posizionati in siluri d’acciaio da collocare sul fondo marino a 400 metri di profondità. …Filmati relativi a esperimenti tecnici internazionale sono in esclusiva disponibili sul sito dell’Espresso e documentano la realizzazione di questi penetratori destinati a smaltire nelle profondità dei mari ingenti quantità di rifiuti tossici.”


Il discorso si fa sempre più lungo ed intricato, ma non bisogna aver paura di affrontarlo, anzi sarebbe opportuno che se ne occupassero con più coraggio anche le Istituzioni Locali, le quali farebbero bene, per un momento, a dismettere i panni “festaioli” e dare risposte ai calabresi che hanno il diritto di sapere “cosa sia successo e se, veramente, vi sono le scorie radioattive che rendono il territorio pericolosissimo per la vita dei cittadini e per la stessa esistenza dell'equilibrio ambientale. Un dato crea, comunque, una grande inquietudine: i tumori in Calabria sono aumentati spaventosamente e sono superiori alla media italiana ed a quella europea: una coincidenza o qualcosa di molto più grave ed inquietante!”

Nella foto in alto: fusti di scorie radioattive.

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La scuola è finita:in che senso? Domenico Distilo (2.9.08) SCUOLA: I PERCHE' DI UN DISASTRO (di Domenico Distilo) - Nel dibattito estivo sulla scuola è intervenuto, alcuni giorni prima di ferragosto, l’ex ministro della Pubblica Istruzione onorevole Luigi Berlinguer, che ha rivendicato in un articolo sul Corriere della Sera quelli che sarebbero i successi delle riforme introdotte nel sistema scolastico durante i quattro anni della sua permanenza alla guida del ministero di viale Trastevere.
Peccato che si tratti di successi che vede solo Berlinguer! La realtà certificata dalle statistiche accreditate, oltre che dalla comune percezione, è di segno opposto e attesta che i livelli di conoscenza e competenza dei nostri ragazzi sono paurosamente precipitati, al punto che non riusciamo a tenere il passo neppure di Grecia e Portogallo, a cui in passato davamo molti punti.
Nell’intervento sul Corriere – una testarda difesa d’ufficio di un’ ideologia pedagogica manifestamente fallimentare - Berlinguer indica nel cambiamento dei saperi e nell’ampliarsi delle modalità di trasmissione di essi, con la conseguente perdita di centralità della scuola rispetto ad altre fonti di informazione, la ragione ispiratrice delle riforme (riforme che poi si riassumono nella legge sull’autonomia degli istituti). Poiché, è questo il nucleo del suo ragionamento, l’evoluzione dei saperi e della società ha reso fluido ciò che era solido determinando una generale crisi dei paradigmi con la conseguente perdita di senso, anche esistenziale, dell’organizzazione disciplinare tradizionale, la risposta adeguata non poteva che andare nella direzione di questa fluidità, non poteva che assecondare la crisi producendo un modello di organizzazione scolastica ad essa speculare, mettendo al posto dei saperi stabiliti e garantiti dall’autorità delle tradizioni e delle comunità scientifiche la fantasia e la creatività, la “sperimentale progettualità” delle singole scuole, lanciate in gara tra loro per esercitare il maggiore appeal presso l’utenza e strapparsi reciprocamente studenti-clienti.
Il carattere utopistico, nel senso strettamente etimologico di fuori del mondo, di una riforma ispirata ad idee siffatte non può non saltare agli occhi. Essa coniuga addirittura due utopie molto distanti tra loro, quella sessantottina dell’immaginazione al potere e quella mercatistica propria della temperie culturale (la seconda metà degli anni Novanta) in cui la “grande riforma” è stata concepita.
Dietro le frasi dell’ex ministro non è difficile scorgere un equivoco colossale, di cui né lui né i pedagogisti suoi mentori si sono mai accorti, equivoco che consiste nella confusione dilettantesca tra il livello epistemologico e quello pedagogico. Ammesso che le scienze siano entrate in una fase di crisi dei paradigmi, ammesso che ci si trovi in un periodo di rivoluzione scientifica – per lo storico della scienza ed epistemologo Thomas Kuhn le rivoluzioni scientifiche si alternano con i periodi cosiddetti di scienza normale, nei quali i paradigmi non vengono messi in discussione - ammesso questo, la formazione degli studenti non potrà prescindere dallo studio dei paradigmi stabiliti, non potrà prescindere dall’apprendimento dello stato dell’arte delle varie discipline nel tempo in cui essi studiano. L’aggiornamento e la sperimentazione non potranno così riguardarli – riguarderanno semmai i loro insegnanti o gli insegnanti dei loro insegnanti - quantomeno fino al momento in cui, con impegno e fatica, avranno acquisito la capacità di porsi in modo critico verso ciò che gli sarà stato insegnato, il cui apprendimento e sicuro possesso intellettuale sono la conditio sine qua non di qualsiasi critica, cosa che, se la scuola italiana (e con essa l’Italia) non fosse diventata un mondo alla rovescia, sarebbe perfino ovvia.

Ora, si dà il caso che da questa confusione, da questa sesquipedale sciocchezza, è derivato tutto il caos di cui non si riesce a venire a capo, è derivata, per intenderci, la progettualità anarchica che ha relegato in secondo piano l’insegnamento-apprendimento delle discipline ed è la causa prima – benché misconosciuta - dell’ignoranza degli studenti, dei risultati per nulla lusinghieri che ne connotano le performance in italiano, in matematica e, in generale, nelle discipline di base.
La cosiddetta scuola dell’autonomia si riduce, stando così le cose, ad una tronfia retorica che si esercita soprattutto nella redazione dei cosiddetti POF (acronimo di piano dell’offerta formativa), nei quali trovano posto le idee, sovente bislacche e strampalate, con cui presidi ed insegnanti si sforzano di monetizzare il loro impegno.
L’altro argomento dell’ex ministro è che la moltiplicazione delle fonti d’informazione renderebbe la scuola relativa, per cui il secondo obiettivo della riforma sarebbe stato di fare in modo che non diventasse superflua. Qui c’è da controbattere che è proprio la moltiplicazione delle fonti d’informazione, semmai, a renderla ancora più necessaria.
Non c’è dubbio, beninteso, che i giovani oggi navighino – anche se molto meno di quel che appare - in un mare magnum di informazioni; una scuola che si rispetti non può però limitarsi a prenderne atto. Il suo compito è piuttosto di fare in modo che esse non restino mere informazioni - per usare una suggestiva frase di Hegel, sapere accidentale di accidentali accadimenti - ma costituiscano materia per ciò che più conta e che rappresenta la ragion d’essere della scuola, il solo motivo che essa può avere di continuare ad esistere distinguendosi da tutte le altre “fonti d’informazione”, il fatto di porsi anche, anzi, soprattutto, come fonte di formazione facendo di questa il suo fine prioritario e peculiare.
La formazione però, è qui il punto, non può farsi con la ricerca spasmodica di novità, con l’andar dietro alle mode focalizzando – peraltro in modo quantitativamente e qualitativamente approssimativo - solo l’attualità più stretta – le mode, intese in senso deteriore. Questa non è che la via più sicura per la certificazione proprio della superfluità che l’ex ministro si era proposto di scongiurare. Ciò che la scuola deve fare è invece altro: fornire strumenti d’interpretazione, chiavi di lettura della realtà individuale e collettiva, elementi indispensabili per affrontare il futuro e che non si possono attingere se non dal patrimonio culturale accumulato dall’umanità nel corso della sua storia, in una parola dal passato, essendo la coscienza del passato, la consapevolezza di esso, ciò che distingue l’uomo dalle altre specie animali, ed essendo, infine, il passato, l’unica cosa che si possa insegnare-trasmettere nell’ambito di un’istituzione qual è, appunto, la scuola (insegnare ad essere creativi, come taluni pretendono di fare, è una pretesa ridicola: la creatività, se c’è, troverà da sé il modo di manifestarsi).

Che si intenda volgere la barra in questa direzione, che si voglia recuperare la ragion d’essere della scuola liberandola dalle improprie incombenze - di cui è stata inopinatamente sovraccaricata nell’ultimo decennio, dal patentino per gli studenti alla diffusione di tutte le sensibilità filantropiche - che ne hanno determinato una mutazione genetica trasformandola in una sorta di ammortizzatore sociale-esistenziale, di tutto questo nei propositi enunciati dal ministro e dalla sua maggioranza non c’è assolutamente traccia.
Da alcuni passaggi delle varie interviste sembrerebbe, invero, che si sia deciso di prender congedo dal panpedagogismo che ha dettato le improvvide riforme degli ultimi due decenni. Ma è più che altro un sentimento pervaso di nostalgia - una sehnsucht direbbero i tedeschi - destinato a restare senza conseguenze concrete se non se ne sviluppano, ed attuano, gli inevitabili corollari, che non possono certo essere il voto in condotta, il grembiule, i corsi di aggiornamento per gli insegnanti del Sud e altre simili boutade.
Se, infatti, si riconoscesse davvero che il sociologismo panpedagogico che ha ispirato la politica scolastica degli ultimi due decenni ha fatto danni, allora sarebbe necessario rimediare ed il primo rimedio dovrebbe consistere nella neutralizzazione del frutto più avvelenato che abbia prodotto, l’autonomia degli istituti. Non c’ è però nessun indizio di volersi muovere in questa direzione, direi pour cause.
La legge sull’autonomia, si ricorderà, è stata varata dal primo governo Prodi (con Luigi Berlinguer all’Istruzione). Si tratta però di un caso da manuale di un’idea di destra che riesce ad imporsi a causa del disorientamento della sinistra, che la adotta pensandola come sinonimo di modernizzazione.
Si tratterà pure di modernizzazione, ma di modernizzazione reazionaria, per la semplice ragione che la sola cosa che possa derivare da essa è la forte differenziazione delle opportunità offerte e, consegue necessariamente, degli esiti in fatto di preparazione e formazione. Del resto, che non si trattasse di un’idea di sinistra lo dimostra ora la destra, che ne svolge rigorosamente le implicazioni preparando la trasformazione delle scuole in fondazioni con capitale privato, vale a dire la distruzione pura e semplice della scuola pubblica, in mezzo al sostanziale silenzio di un’opposizione e di un sindacato che appaiono attoniti, incapaci di organizzare una reazione minimamente efficace.
La privatizzazione della scuola è, coerentemente con la logica di questo centrodestra, nient’altro che il pendant e il compimento della privatizzazione del Paese, a cui è stata appena rifilata la “soluzione” del caso Alitalia e a cui sarà rifilato, a breve, il cosiddetto federalismo fiscale, cioè la disarticolazione dello Stato e la messa in liquidazione dell’unità nazionale. L’autonomia delle scuole, per intenderci, è una legge potenzialmente eversiva del dettato costituzionale, ed il fatto che questo aspetto non sia stato colto e adeguatamente sottolineato è indice dello stato pietoso del dibattito pubblico nel nostro Paese.
In cosa consista la potenzialità eversiva dell’autonomia scolastica è presto detto: se il diritto all’istruzione è subordinato – come prescrive la ratio dell’autonomia - alla legge di mercato, per cui le scuole vendono all’utenza ciascuna le proprie particolarità e specificità, lo Stato ha perciò stesso rinunciato al principio dell’omogeneità formativa, delle opportunità offerte a tutti a prescindere dall’estrazione territoriale e sociale, rinuncia a cui non può non seguire l’abolizione del valore legale del titolo di studio e la fine del principio dell’istruzione quale diritto fondamentale a fronte del quale viene erogato un servizio pubblico, di cui è conclamato il carattere essenziale, finalizzato a garantire la cittadinanza democratica.
La logica, come si vede, è stringente: o l’istruzione-formazione deve essere garantita a tutti ed allo stesso modo dallo Stato; oppure si accetta che, in nome del mercato (che, lo si ricordi, consiste nel realizzare una convenienza nell’acquistare, da un lato, e nel vendere, dall’altro) si consenta (cosa che di fatto già avviene) che l’istruzione venga venduta dove e come alle scuole-imprese conviene venderla, senza preoccuparsi di chi, per molteplici ragioni, non può acquistarla, con tanti saluti al diritto universale all’istruzione.
Che si possa invertire questa china c’è ormai francamente da disperare. La sinistra sembra convinta che il riformismo consista nel plaudire a ogni cosa che la destra pensa e fa (ha persino sostanzialmente assecondato il forsennato attacco del ministro Brunetta ai dipendenti pubblici); il sindacato è irretito da complessi di colpa che lo portano a escludere che ci siano azzardi di fronte cui non ha altra scelta che alzare le barricate.
Così affondano assieme la scuola e il Paese, nella generale indifferenza.

Nelle foto in alto: a sinistra aula scolastica con eloquente scritta sulla lavagna; a destra Domenico Distilo, autore dell'articolo.


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Magdi Allam (4.9.08) CARO MICHELE... (di Magdi Cristiano Allam) - Riportiamo il testo di una lettera che il noto commentatore del Corriere della Sera, Magdi Allam, da poco convertitosi al cristianesimo, ha mandato al nostro collaboratore Michele Scozzara, in riferimento al suo articolo sui rapporti Italia-Libia. Fra l'altro, nell'ultimo suo libro "Grazie Gesù", Allam ha menzionato Michele Scozzarra tra gli amici della sua associazione che per primi hanno salutato il suo battesimo alla fede cristiana.

Caro Michele,
mi scuso innanzitutto per il ritardo con cui ti rispondo. Ho letto, apprezzato e condiviso la
tua "incazzatura". Purtroppo ora l'accordo è diventato realtà e la nostra Italia fa la parte di chi si è calato le braghe sottomettendosi al ricatto dei burattinai del terrorismo e dei nuovi schiavisti.
Mi piacerebbe poter leggere dei tuoi interventi nel nostro sito.
Ti abbraccio fraternamente e ti auguro tutto il bene del mondo.
Magdi Cristiano

Nella foto: Magdi Allam

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Carmelo Panetta, sindaco di Galatro. (9.9.08) BENVENUTO AL NUOVO VICEPARROCO (di Carmelo Panetta) - Benvenuto tra noi Don Giuseppe,
a nome mio personale e della comunità civile che mi onoro di rappresentare, in questo momento che segna l’avvio del Suo importante e delicato cammino di fede, sento di poterLe dire Benvenuto nella nostra comunità, nella consapevolezza che tra noi sarà come a casa Sua: tra persone che La stimeranno e Le vorranno bene.
Un saluto di benvenuto anche ai suoi famigliari che oggi vedono coronate le Sue aspirazioni e, felici come non mai, l’accompagnano per festeggiare con Lei e con noi l’inizio del Suo mandato sacerdotale.
Meno di quattro mesi addietro ci siamo trovati riuniti per
salutare il Suo predecessore che finiva il periodo di “apprendistato” e si accingeva ad assumere il delicato impegno parrocchiale. Lei con il predecessore, oltre che dalle comuni incombenze, è accomunato dal nome: Don Giuseppe.
Forse per un preciso proposito della Provvidenza anche in questo particolare dobbiamo intravedere il segno della continuità.
Soprattutto nella continuità del lavoro con i giovani e con i giovanissimi per prepararli ad affrontare in maniera consapevole le insidie che la quotidianità non di rado riserva loro anche nei nostri piccoli ambienti.
Sappiamo che in questi ultimi tempi ha già lavorato insieme a gruppi giovanili. I giovani sono la ricchezza principale di ogni comunità poiché da loro dipende il futuro della società; sono il “gruppo della speranza”.
In loro c’è una forza e un potenziale dinamico e propulsivo che Lei saprà motivare e ben indirizzare.
Sappiamo che Don Cosimo, oberato da impegni diocesani, li affida alle sue cure, affinché nella freschezza dell’impegno sacerdotale, contribuisca alla loro crescita e ne stimoli la propensione alla condivisione ed al superamento di ogni campanilismo ed alla partecipazione sociale e solidale.
Siamo certi che Lei, caro Don Giuseppe, abbinando la preparazione alle giovanili energie ed alla voglia di operare, sotto l’esperta ed illuminata guida del nostro Don Cosimo, con capacità ed abnegazione porterà avanti l’importante missione che oggi Le viene affidata.
Qui a Galatro Lei trova una comunità attenta, consapevole dei doveri che i cristiani hanno rispetto alla missionarietà della parrocchia; una comunità che è desiderosa di crescere sempre più nel proprio cammino spirituale. La nostra, infatti, è una collettività che vuole continuare a essere una famiglia solidale, aperta, attenta ai bisogni dei deboli e dei poveri, disponibile al dialogo, convinta che, per il bene comune, è necessario accogliere l’individualità dell’altro, poiché solo nel riconoscimento di una pluralità di idee, è possibile reciprocamente arricchirsi ed avvicinarsi alla verità.
Nella nostra comunità la Parrocchia e l’Amministrazione comunale lavorano in totale sintonia per realizzare un obiettivo comune: creare risorse utili a vantaggio degli altri.
In quest’ottica l’Amministrazione, pur nei ristretti limiti delle disponibilità finanziarie, non ha mai esitato in passato - e non esiterà certamente in futuro - ad elargire contributi destinati ad interventi finalizzati al miglioramento di strutture nelle quali i sacerdoti e gli educatori agevolino la socializzazione e curino la crescita morale dei nostri giovani.
Cerchiamo, insomma, di essere vicini alla Chiesa nella consapevolezza che Essa è sempre vicina ai bisogni dei cittadi-ni. In questo quadro di totale collaborazione, pertanto, così come nel recente passato siamo stati vicini al Suo predecessore, sin da oggi e per il futuro, l’Amministrazione comunale ed il sottoscritto restano a Sua disposizione per ogni necessità.
Concludendo: nel ringraziare pubblicamente e calorosamente Don Cosimo per il lavoro che da anni sta pazientemente portando avanti per la crescita della nostra comunità, a Lei, Don Giuseppe, desidero formulare il sincero e paterno auspicio che la permanenza galatrese, sotto la guida del colto ed esperto nostro parroco, sia ricca di frutti e feconda di quelle esperienze umane e professionali che Le consentiranno poi, nel volgere di qualche anno, di ricoprire con sicurezza e tranquillità l’incarico di responsabile di una parrocchia.
Con questo augurio, dunque, Le ripeto ancora: Benvenuto tra noi, Don Giuseppe, e buon lavoro!

Galatro, 8 settembre 2008

Visualizza il testo originale dell'intervento del Sindaco

Nella foto sopra: Carmelo Panetta, sindaco di Galatro.

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Italia 'federata' (14.9.08) IL TOTEM DEL FEDERALISMO (di Domenico Distilo) - Una volta si diceva, con ironia, che “non si può parlar male di Garibaldi” quando qualcuno, quasi sempre colui che ricorreva all’adagio, per caso e magari senza volerlo, si trovava in disaccordo con l’opinione generale. L’eroe Nizzardo che aveva fatto l’Italia era considerato l’archetipo di tutto ciò che non poteva essere messo in discussione, per cui chi lo faceva – chi ne metteva in dubbio il valore - si aspettava di ricevere l’anatema.
Oggi Garibaldi è stato sostituito dal federalismo (non si capisce se solo fiscale o anche fiscale), che si propone come il nuovo Figaro che tutti cercano e tutti vogliono, come se fosse la chiave, il passe-partout per una nuova (dando per scontato che ce ne siano state altre) età dell’oro.
Nessuno dice male del federalismo, anzi, tutti, da nord a sud, da destra a sinistra si dicono federalisti convinti. Convinti dell’intrinseca bontà di ciò che non conoscono.
Non conoscono sotto nessun profilo, in primo luogo politico-linguistico.
Che chi parla di federalismo non sappia di cosa parla lo si deduce, infatti, già dall’uso improprio che fa del termine, di cui, evidentemente, ignora il significato.
Federalismo è un sistema politico che nasce allorché tra entità statuali e/o politiche, economiche e sociali diverse si fa un patto, foedus, il cui fine è di mettere assieme, unificare, ciò che prima era separato.
Basta questo per mettere in chiaro che, essendo l’Italia ancora uno stato unitario, non è il caso di parlare di federalismo. Quel che si vuol fare non può quindi, a rigore, essere definito federalismo. Sarà un’altra cosa, magari ottima, ma non il federalismo. A meno che non si voglia prima separare l’Italia per poi riunificarla, cioè farne una federazione o confederazione, cosa logicamente e politicamente contorta benché, teoricamente, possibile.
L’altro profilo del federalismo che i suoi fautori non conoscono è quello storico. Se lo conoscessero osserverebbero che esso non è mai stato un cavallo di ritorno, non è mai consistito in un processo di divisione, come inevitabilmente accadrebbe in Italia, dove, peraltro, si fonderebbe su entità storicamente e culturalmente inconsistenti quali sono le regioni. A differenza dei lander tedeschi che sono radicati nella storia della Germania e vantano significative tradizioni di autonoma statualità, le nostre regioni sono pure astrazioni amministrative senza nessuna storia significativa alle spalle. Quanto agli stati preunitari erano tutt’altra cosa e, in ogni caso, sono scomparsi da centocinquanta anni.
In terzo luogo nessuno ha finora spiegato con chiarezza cosa sarà il federalismo italiano sotto il profilo economico e fiscale. Forse perché ognuno lo capisce benissimo da sé: si tratta di far restare le risorse dove si producono, rinunciando definitivamente a colmare il gap tra Nord e Sud, a tentare di risolvere quella che resta l’unica questione nazionale importante, la questione meridionale. Se così non fosse esso sarebbe, dal punto di vista della stessa Lega di Bossi, una patacca propagandistica. A meno che, cosa probabile, Bossi, ormai del tutto berlusconizzato, non abbia imparato ad accontentarsi delle patacche.
Insomma, non si può dir male del federalismo come una volta non si poteva dir male di Garibaldi e menzionarlo per farne degli apprezzamenti negativi è considerato disdicevole, assolutamente non à la page, quasi da trogloditi.
Sorvolando sul fatto che poco più di due anni fa gli italiani hanno sonoramente bocciato il federalismo nel referendum confermativo, lezione che il centrodestra tornato al potere ha appreso in pieno, al punto da riproporlo oggi nella sola variante fiscale (una furbata per sottrarlo a una nuova bocciatura referendaria: le leggi fiscali non possono essere sottoposte a referendum). Mentre la sinistra, pur tra alcuni distinguo, sostiene che si tratti di una cosa positiva, opportuna, improcrastinabile.
Strano che poi i suoi leader si chiedano perché perdono le elezioni! Semplice: la gente preferisce l’originale alle imitazioni, la destra che dice cose di destra a una sinistra che si sforza di dire cose di destra. E il federalismo nell’attuale congiuntura italiana è una cosa di destra, anche se Cattaneo era, ai suoi tempi, di sinistra.

Nell'immagine: Italia "federata".


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Il leader DC Aldo Moro (19.9.08) VECCHI DEMOCRISTIANI E NUOVI "MODERATI" (di Domenico Distilo) - E’ noto come molti ex elettori democristiani votino per il centrodestra del Cavaliere, accomunandolo con la vecchia DC sotto la categoria del moderatismo.
Si tratta però solo di un effetto indotto dalla propaganda, dal marketing elettorale - nel quale Berlusconi è molto più bravo dei suoi avversari - e da un travisamento nella declinazione del senso di appartenenza individuale ad un partito o a uno schieramento. In realtà tra la DC e la destra attuale le differenze sono siderali, sia in ordine all’ispirazione di fondo, alla cultura politica, che alla forma-partito e alla prassi da quelle derivate.
Per cominciare, la cultura cattolica della vecchia DC, sintesi della dottrina sociale della Chiesa e dell’elaborazione del pensiero cattolico francese degli anni Trenta (Mounier e Maritain soprattutto), era sostanza della politica. Quasi tutti i leader democristiani erano passati attraverso la fucina della FUCI (non è un gioco di parole), l’organizzazione degli universitari cattolici, e avevano appreso, formandosi nel contempo un retroterra culturale solidissimo, la democrazia quale orizzonte imprescindibile e mezzo indispensabile per la edificazione, che sarebbe stata completata in un futuro presumibilmente lontanissimo e comunque nelle mani della Provvidenza, del Regno, della società giusta, cristiana e democratica.
Accostare il berlusconismo a questa ispirazione, a questa cultura politica è una bestemmia, per il semplice fatto che esso non ha dietro nessuna cultura politica degna del nome e si avverte lontano dieci miglia che i frequenti riferimenti al liberalismo e al cristianesimo non sono che enunciazioni vuote, mere formulazioni linguistiche messe al servizio di una ispirazione fondamentale che non è liberale e neppure liberista, sicuramente non democratica e tanto meno cristiana, ma populista, nel senso e nel verso di un popolo che pensa come le televisioni del Cavaliere lo hanno abituato a pensare, cioè a non pensare.
Il berlusconismo, peraltro, non può essere accostato neppure al doroteismo che, contrariamente a quello che sostiene una certa vulgata, non era soltanto una cultura della gestione del potere. La linfa del doroteismo era il popolo piccolo-borghese, il medio ceto impiegatizio, l’Italia rurale organizzata dalla Coldiretti. Per questo nessun leader doroteo, da Rumor a Bisaglia a Gava è mai stato populista, essendo il populismo l’atteggiamento di chi non sa o non può essere autenticamente popolare.
Sostenere che Forza Italia e l’attuale PDL siano la DC del Duemila può essere così solo il frutto di una lettura non tanto superficiale, quanto arbitraria se non cervellotica della storia di quel partito.
Che cosa abbiano a che fare con la vecchia DC il razzismo, la xenofobia e il secessionismo travestito da federalismo della Lega non c’è chi possa convincentemente spiegarlo; così come è lontano le mille miglia dalla sensibilità democristiana il neofascismo mal dissimulato di AN, non meno del culto della personalità che è l’essenza di Forza Italia, partito che nella sua storia non ha mai celebrato un congresso e i cui militanti e quadri non hanno mai discusso, se non nelle sedi periferiche e per mere questioni di potere.
Non che, beninteso, i democristiani non discutessero di potere; ne discutevano esattamente come tutti gli altri. Ma non affrontavano le questioni politiche solo dal lato della propaganda, non decidevano di prendere questa o quella posizione dopo aver guardato i sondaggi e gli indici di gradimento.
Nella DC la discussione era infatti cosa seria, il centro di tutto – non a caso la Discussione era il settimanale del partito - e raramente finiva per non concludersi con una mediazione, che era sempre inclusione, ferma restando la nettezza delle scelte di fondo: l’atlantismo, l’europeismo, i valori della Costituzione.
Da questa prassi l’attuale centrodestra è assolutamente lontano. Anzi, oltre al secessionismo e al neofascismo c’è un terzo elemento a comporre il mostruoso mosaico dell’alleanza al governo, la componente degli ideologi fanatici dell’efficientismo liberistico, alla Brunetta per intenderci, che perseguono obiettivi di darwinismo sociale in palese conflitto col solidarismo della Carta.
Finché questa destra sarà al potere si può perciò star sicuri che la Costituzione sarà sotto scacco, giacché è chiaro che essa ne ha ormai messo in discussione l’essenza di fulcro del patto sociale fondativo della Repubblica, della convivenza civile di questi sessant’anni. Quando il ministro Gelmini dichiara – peraltro senza che nessuno dall’opposizione gli dia sulla voce - che il governo non può farsi carico dei precari della scuola se, in conseguenza del taglio delle cattedre, finiscono disoccupati dopo anni di lavoro, è evidente l’incultura costituzionale che si esplica nell’attacco al diritto costituzionale al lavoro, attacco dietro il quale si scorge la riduzione paleocapitalistica delle persone a merci, a elementi fungibili del processo produttivo. Altro che cattolicesimo proclamato a ogni piè sospinto dalla macchina propagandistica berlusconiana! Altro che eredità della DC!
La verità è probabilmente un’altra. La scomparsa della DC ha riportato la destra italiana alla sua natura antidemocratica e reazionaria, al suo passato prima crispino e poi dannunziano-fascista ed è come se fosse saltato il coperchio che teneva compressi i mostri nella pentola.
Si tratta del problema della destra italiana a suo tempo evocato da Montanelli, della sua sostanziale estraneità alla democrazia, dell’avversione radicale ai principi della cultura liberale, che per il Cavaliere e la sua gente non è che un orpello retorico, una questione d’immagine. Del resto se la destra italiana avesse avuto cultura liberale non si sarebbe messa in mano prima al Duce e poi al Cavaliere, passando sopra alle violenze squadriste e al suo equivalente odierno, la permanente alterazione del processo di formazione dell’opinione pubblica, per non dire d’altro.
Gli anni della DC hanno congelato il problema storico della destra italiana, delle sua persistente propensione a declinarsi in chiave autoritaria. E’ giunto il momento di riproporlo.

Nell'immagine: Aldo Moro.


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Domenico Distilo (15.10.08) TRA STATO E MERCATO (di Domenico Distilo) - Si discute, in questi giorni di tempeste sui mercati finanziari, se la crisi sia soltanto dell’economia di carta o non anche dell’economia reale, come se l’economia cosiddetta di carta non fosse, essa pure, reale e fosse invece un mondo a sé, soltanto virtuale.
Il premier, con la consueta sicumera, ha sostenuto che la crisi è soltanto delle borse, senza conseguenze, neppure possibili, eventuali, sulla cosiddetta economia reale. Tesi di evidente sciocchezza (Berlusconi, del resto, s’intende solo di pubblicità), basti ricordare che tutto è partito con la crisi dei mutui, cioè con l’incapacità reale, non virtuale, di rimborsarli da parte di chi li aveva contratti per acquistare abitazioni. Se tale capacità ci fosse stata la catena di Sant’Antonio (costituita da quelli che in gergo tecnico si chiamano “derivati”) sarebbe continuata ad infinitum, alimentata dalla fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del mercato.
Operatori di borsa preoccupati Non è però la gaffe di Berlusconi (una delle tante) ciò su cui mi voglio soffermare (anche se sarebbe da analizzare come mai un capo del governo che ci rende ridicoli agli occhi del mondo piaccia, dicono, al settanta per cento di noi: ce ne sarebbe abbastanza per invocare la prerogativa turca delle Forze armate o il “paradosso di Barras”, il membro più influente del Direttorio che nel 1797, V della prima repubblica francese, annullò le elezioni, che avevano dato la maggioranza ai realisti, per salvare la democrazia), ma la natura di questa crisi che appare a molti incredibilmente misteriosa, mentre è chiaro che si tratta di una crisi classica del capitalismo, conseguenza di due decenni di deregulation accompagnata dallo smantellamento delle strutture del Welfare.
Per crisi classica del capitalismo si intende, sulla definizione sono tutti d’accordo, la diminuzione della domanda di beni di consumo con il contestuale restringimento del credito (e i connessi fallimenti delle banche, frutto dell’euforia della precedente fase espansiva) e il corollario dei licenziamenti e della disoccupazione di massa.
Era questo lo scenario del 1929; sta per essere questo lo scenario del 2008. Si dà però il caso che molti analisti sostengano che ci sono tra le due crisi differenze sostanziali. E’ vero. La principale è che negli anni Venti non potevano sapere (la cultura politico-economica dell’epoca non poteva averne elaborato il concetto) che lasciando briglia sciolta al mercato sarebbe arrivato il disastro. Negli anni Duemila, proprio sulla scorta dell’esperienza del 1929, lo si sarebbe potuto sapere.
Si sarebbe potuto sapere, in primis, che il mercato lasciato a se stesso polarizza la ricchezza determinando l’impoverimento generale della società; in secundis, che l’impoverimento generale della società, a sua volta, provoca (anche in presenza di un aumento del prodotto lordo, che non può avere effetti significativi se con la diminuzione delle tasse si intacca la capacità di spesa dello Stato paralizzando il meccanismo ridistributivo) la crisi del sistema, dal momento che riduce la capacità di accedere ai consumi dei ceti che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione. La lezione della storia è stata però ignorata, preferendo andar dietro ad ideologi da strapazzo travestiti da economisti e a improvvisati filosofi della storia che raccontavano, riciclandola da destra, la vecchia favola marxista dell’estinzione dello Stato.
Costoro, di fronte a quelle che Norberto Bobbio ha definito una volta le dure repliche della storia, con lo Stato che si riprende il suo spazio, sono ora improvvisamente ammutoliti, o hanno cambiato opinione diventando statalisti, o si stracciano le vesti per i rischi che correrebbe la libertà con la fine del mercato.
Non sarebbe il caso di rievocare qui la vecchia querelle tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi (il primo era dell’avviso che la libertà non si potesse restringere alla libertà del mercato, il secondo identificava libertà e mercato), ma la lezione da trarre dalle vicende di questi giorni è che la libertà e la democrazia non sono garantiti né solo dallo Stato né solo dal mercato, ma dal contemperamento di entrambi, da quella che si chiama(va) economia sociale di mercato, o anche modello renano, lo stesso che in Italia, per cinquant’anni, è stato garantito dalla Democrazia Cristiana. Invece di dichiarare quel modello inservibile e sostituirlo con i paradigmi del monetarismo, sarebbe stato più saggio ripensarlo, adattandolo alla globalizzazione. Lo ha impedito il predominio accademico e mediatico dell’iperliberismo, un’ideologia più che una dottrina economica, contro la quale era inutile accampare le ragioni della scienza economica verace. Lo capì forse per primo il maggiore esponente del neokeynesismo italiano, il professor Federico Caffè, che preferì, nell’aprile del 1987, sparire nel nulla piuttosto che piegarsi al predominio del nuovo verbo.
Ora sarebbe necessario un nuovo new deal. La speranza è che il nuovo Roosevelt possa essere Barak Obama, il nuovo Keynes il neo premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, keynesiano e critico feroce della politica economica di Bush. Facciamo voti.

Nelle foto in alto: a sinistra Domenico Distilo; a destra operatori di borsa preoccupati.


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(18.10.08) ANCORA SUI RIFIUTI... SIAMO DAVVERO APPESTATI DAI VELENI? (di Michele Scozzarra) - Sono passati quasi due mesi dalla pubblicazione del provocante intervento (possiamo definirlo una denuncia vera e propria!) di Nicola Marazzita a riguardo dello smaltimento “nascosto” di rifiuti tossici e radioattivi nel nostro territorio: una denuncia precisa e puntuale e, forse, chissà cosa altro c’è ancora dietro, che non sappiamo...
La cronaca di questi giorni, per quanto è successo a Crotone, ci mostra una realtà ancora più terribile di quanto potevamo immaginare... si parla addirittura che il Sisde, sin dagli inizi del 2000 inviò alla Presidenza del Consiglio una nota riservata nella quale evidenziava “forte allarme per un diretto coinvolgimento delle cosche calabresi della ‘ndrangheta nello smaltimento dei rifiuti tossici”. In particolare segnalava l’attività di alcune cosche “operanti nel versante ionico reggino e nel crotonese”... Questo potrebbe generare la convinzione che il “nostro” territorio, e quando dico “nostro” intendo quello nel quale direttamente è inserito, territorialmente, il nostro piccolo paese non è toccato dalla presenza di rifiuti tossici e radioattivi.
Monticciolo di rifiuti sulla strada d'ingresso a Galatro qualche anno fa Ma a questo punto si inserisce, in maniera chiara ed inequivocabile, la denuncia del nostro Vescovo, Mons. Luciano Bux, il quale il 26 settembre, a Rizziconi, durante l’incontro diocesano non ha usato mezze parole per dire: “C’è il rischio di radioattività nell’acqua della Piana... Non possiamo permetterci di bere neanche la tazzina di caffè preparata dall’acqua del rubinetto perché rischiamo di ingerire sostanze nocive. Tanti gli spettri che si aggirano nelle nostre comunità per debellare tutto quello che è rimasto di buono...”.
In ogni modo non si può ignorare che tutte queste denunce sono state sempre regolarmente censurate sia dai rappresentanti delle istituzioni che dalla stessa popolazione che più di una volta è scesa in piazza per protestare contro “le dicerie degli untori”.
Faccio un esempio, nel mio precedente articolo ho parlato dell’inchiesta pubblicata su “il Borghese” nel 1999, dove a proposito del nostro paese riferiva: “Ma il fenomeno di Brattirò non è isolato. Anche Galatro è nell’occhio del ciclone tanto che, allo scopo di controllare la potabilità dell’acqua, nel paese sono stati installati dei contatori Geiger per misurare la radioattività. Una bomba ecologica di vaste proporzioni sta dunque per esplodere in questa zona della Calabria, fra la strafottenza degli amministratori e l’indifferenza dell’amministrazione regionale distante anni luce dalle emergenze sanitarie”.
Strana schiuma nel fiume Fermano Ebbene, se allora a Brattirò si è assistito allo scontro tra i produttori che giuravano sulla genuinità del loro vino ed il parroco che parlava della possibilità che anche il vino era “contaminato” da sostanze cancerogene... lo stesso vediamo oggi a Crotone, dove a fronte di tutte le “bombe ecologiche” esplose, non solo sulla stampa, i produttori del pecorino crotonese giurano sulla genuinità del loro prodotto...
Che dire... forse il business is business è più forte di ogni azione a difesa della salute... e questo potrebbe spiegare l’indifferenza della gente di fronte al problema così come è rimbalzata sui giornali: “E’ strabiliante vedere come la città di Crotone viva in maniera del tutto indifferente quanto sta accadendo negli ultimi giorni. C’è il rischio che si possa scoprire la più grande catastrofe ambientale ed i cittadini trascinano stancamente avanti la vita di tutti i giorni. Le associazioni dopo le prime reazioni non hanno preso nessuna iniziativa affermando che prima c’è da capire a cosa effettivamente si va incontro”.
A questo punto, ritornando alla realtà del nostro territorio, devo dire che non me la sento di evocare catastrofi, inquinamento eccessivo e quant’altro, per diversi motivi.
Un primo motivo è la constatazione che, nel nostro territorio, non vi è alcun “segnale” che faccia pensare che stiamo per assistere alla scomparsa di specie di bosco o di specie di selvaggina: abbiamo un bosco, una natura veramente incontaminati, che sono oggi così come erano secoli e secoli addietro... quindi rischi o segnali di radioattività nel nostro territorio non sembra se ne veda traccia.
Schiuma nel Fermano Un secondo motivo è che non credo che le autorità inquirenti competenti per il nostro territorio siano così insensibili, tolleranti e strafottenti da “sapere” che in una determinata zona ci sono delle sostanze che mettono a rischio la vita di intere comunità e facciano finta di niente... E’ vero che esistono delle discariche, abusive o meno, che alterano in una certa misura l’ecosistema del territorio... ma le discariche radioattive sono un’altra cosa!...
Certo bisogna essere accorti, non sottovalutare nulla, avere un occhio ed una attenzione particolare verso quello che notiamo, soprattutto quando ci accorgiamo che quello che vediamo non va bene...
Qualche anno addietro c’è stato un Comune della nostra provincia che ha buttato i propri rifiuti nella strada di accesso al nostro Paese... Non so che tipo di proteste o iniziative sono state prese dagli amministratori per evitare che abusi del genere possano ripetersi...
Oppure, non so se qualcuno se ne è mai accorto, ma ad ogni temporale nei nostri fiumi si forma una enorme quantità di schiuma che non sarebbe male se a qualcuno venisse in mente, in via del tutto precauzionale e senza alcun allarmismo, di procedere ad una analisi della composizione e natura della schiuma... Le foto che allego sono più eloquenti di qualsiasi discorso...
A conclusione che dire... la vigilanza sul nostro territorio è un compito che non possiamo lasciare solo ad enti e amministrazioni... ognuno di noi deve essere vigilante, anche se non siamo in grado neanche di sospettare come può essere insidiato e maltrattato il nostro territorio... e così come ho detto nel mio precedente articolo sull’ambiente, anche qua posso solo dire che siamo nelle mani di Dio e che ci assista e ci guardi Lui, da tutte quelle pestilenze che non solo non possiamo vedere, ma non possiamo neanche sospettare di avere nel nostro territorio.

Densa schiuma nel fiume Fermano   La schiuma vista da altra angolazione

Nelle foto: nella prima in alto a destra monticciolo di rifiuti sulla strada d'ingresso a Galatro qualche anno fa; nelle altre, schiume di inspiegabile origine nel fiume Fermano.

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Il padre di Michele Scozzarra (25.10.08) ERA MIO PADRE... UN UOMO BUONO! (di Michele Scozzarra) - Nel trascorrere degli anni, ci vengono innanzi e, soprattutto dentro la coscienza e dentro il cuore, i giorni di ricorrenze che il volgere del tempo non riesce a scalfire, per cui siamo indotti a fermarci, a meditare su quale sia il senso di questa vivida “memoria”. Così accade a me per la ricorrenza di oggi, 25 ottobre, anniversario della morte di mio padre.
Penso che esiste un punto nella vita di ogni uomo in cui si apre una linea estrema, sulle interrogazioni e sui misteri della morte, sulle ragioni stesse dell’esistere, su ciò che si spalanca davanti a noi di definitivo e di grande. E’ questo il momento in cui avvertiamo, con una tenerezza struggente, quello che abbiamo vissuto fino a quel momento.
Quell’attimo di chiarezza estrema e dolorosa, può coincidere con il momento in cui il nostro genitore, cioè proprio chi ci ha dato la vita, se ne va... o, come si usa dire, ci lascia, muore... Proprio in quell’attimo, sembra che, morendo, lui ci ridia un’altra volta la vita, ce la riconsegni, fatta cosciente e consapevole che la morte, appunto, non è più il suo arresto crudele.
Se, poi, proviamo ad esaminare il tempo che è trascorso dal momento della nostra nascita a quello della sua morte e ci mettiamo a meditarlo, vediamo come tutti gli attimi di cui è composto sono vissuti sotto il suo silenzioso e riservato, quanto attento, sguardo... nella fatica e nella gioia di procedere insieme a tutta la sua famiglia, non avendo altra preoccupazione che sostenere il nostro avanzare, operare, camminare...
Per questo penso che nella memoria dei nostri cari risiede il nostro vero diritto ad esistere: il nostro presente presuppone, inevitabilmente, riconoscere ciò che c’è dietro di noi... i nostri affetti più cari che ci portiamo nel cuore e che spesso la morte contribuisce a renderli più vivi e presenti di quando erano in vita, perché formano il centro della nostra memoria.
Certamente la morte di un genitore è una gran brutta batosta... che bisogna vivere con accettazione e non con rassegnazione, rassegnarsi non è da cristiani, sa di passività e di vittimismo... accettare la morte di un genitore all’interno di un più grande, e misterioso, disegno di Dio è il solo modo per dare luce e penetrare il mistero di quel momento.
E poi... quando penso alla morte di mio padre, mi piace immaginarla come un “ritornare a casa”, accolto solennemente e affettuosamente da tutta la sua famiglia... una famiglia davvero allargata che comprende gli antenati mai conosciuti, e dove ogni nuovo arrivato trova il proprio posto, come una tessera che va ad occupare spontaneamente il proprio spazio, in un immenso mosaico disegnato fin dall’inizio dei tempi...
E mi piace pure immaginare come, al suo arrivo, il più vecchio di tutti gli sia andato incontro dicendo: “Salvatore ti accogliamo con gioia perché sei stato un uomo buono: sei stato un buon marito, un buon padre, un nonno buono e affettuoso...”.
Io posso solo dire: “davvero era un uomo buono... era mio padre!”.

Nella foto: il padre di Michele Scozzarra.


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(30.10.08) SI PRENDONO PRECAUZIONI PER IL DEGRADO AMBIENTALE? (di Biagio Cirillo) - Leggendo gli articoli pubblicati da Nicola Marazzita e da Michele Scozzarra mi viene la pelle d’oca nel poter immaginare il nostro paese contaminato da sostanze tossiche e radioattive. Eppure, a giudicare dalle foto scattate nel nostro fiume pieno di schiuma, i dubbi diventano quasi certezze dal momento che Galatro è il primo paese che le acque attraversano e quindi a monte non c'è nessuna fabbrica che può scaricare veleni o scorie di qualunque genere.
A questo punto la domanda mi viene spontanea: le nostre autorità e l’Amministrazione Comunale si sono accorte di tutto questo? Se ci sono sospetti d’inquinamento si stanno prendendo le dovute precauzioni? Spero per la popolazione di Galatro che si facciano al più presto degli esami sulle nostre acque e delle indagini su tutto il territorio.
Non possiamo aspettarci che semplici cittadini possano risolvere questioni delicate come queste, anzi, dobbiamo ringraziare Nicola marazzita e Michele Scozzarra per aver scritto articoli di grande importanza per tutta la popolazione galatrese e la Redazione di Galatro Terme News per averli messi a disposizione di noi lettori.
Mi chiedo se nella fascia dei laureati galatresi non ci sia qualcuno laureato in questa materia che possa prendere in mano la situazione, in caso contrario si potrebbe segnalare il tutto all’ASL della zona o a chi di competenza.
Spero in un futuro migliore del nostro paese.

Passando ad altro. Caro Michele Scozzarra ho letto il tuo articolo sul tuo caro papà e mi sono commosso tanto perché tuo padre, come il mio e tanti altri, hanno lavorato e lottato tutta la vita per non farci mancare niente. Oltre a darci la vita hanno saputo trasmetterci sani principi e onestà, hanno saputo educarci, amarci e farsi amare, ci hanno insegnato il rispetto (quello vero). Purtroppo quando vengono a mancare i genitori manca una parte di noi, siamo come una pianta che viene privata dalle proprie radici, ci vuole del tempo e la vita ricomincia, i ricordi belli ci aiutano a crescere più sani e più forti. Continua così Michele, sei grande.
Purtroppo devo porgere le condoglianze a mio cognato Renato per la perdita di suo padre (Michele Cirillo).
Non posso chiudere senza fare i migliori auguri di pronta guarigione al mio più grande amico Giuseppe O. Sii forte la nostra classe del '61 è una classe di ferro.
Un saluto ai miei genitori, alla famiglia Gregorio Gambino, a Pino Pangallo e famiglia, e a tutti gli amici galatresi.
Ringrazio e saluto Massimo e Domenico Distilo per la loro professionalità a gestire questo grande e invidiabile sito, e le loro famiglie.

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Michele Scozzarra (7.11.08) CON QUEL NOME COSI' STRANO (di Michele Scozzarra) - Qualche giorno addietro la Suprema Corte di Cassazione ha confermato che un bimbo chiamato dai genitori “Venerdì”, dovrà invece chiamarsi “Gregorio”, cioè il nome del Santo del Giorno in cui i genitori lo hanno iscritto all’anagrafe.
Vediamo il fatto.
A seguito di segnalazione del Comune di Genova, il Procuratore della Repubblica chiedeva al locale Tribunale che fosse rettificato il nome “Venerdì”, imposto dai genitori al proprio figlio, non avendo essi alcuna intenzione di modificarlo. Il Tribunale accoglieva l’istanza, dichiarava illegittimo il nome scelto dai genitori e lo rettificava in “Gregorio”, corrispondente a quello del Santo del giorno di nascita del bambino. Ricordava il Tribunale che “... è vietato imporre al bambino nomi ridicoli o vergognosi, e che occorreva evitare che, con l’attribuzione di un tale nome, si potessero creare situazioni discriminanti e difficoltà di inserimento della persona nel contesto sociale; che la libera scelta genitoriale incontrava il limite del sentire comune e del significato proprio dei nomi all’interno della comunità sociale”.
In particolare i giudici rilevavano che il nome imposto dai genitori al figlio evocava il personaggio romanzesco creato dallo scrittore Daniel Defoe nell’opera Robinson Crusoe, una figura umana caratterizzata dalla sudditanza e dalla inferiorità che non raggiungerebbe mai lo stato dell’uomo civilizzato. Da qui la prognosi di un probabile disagio per il bambino ed il futuro adulto, facilmente esposto al senso del ridicolo, in ragione di quel richiamo al personaggio letterario.
I genitori del bambino proponevano ricorso davanti alla Corte di Appello di Genova chiedendo la riforma del decreto del Tribunale e la declaratoria di legittimità del nome imposto al figlio. Secondo i genitori, il temuto senso del ridicolo andava escluso perché quelle connotazioni negative potevano essere proprie solo nella società inglese del XVIII secolo, non certo in quella attuale, caratterizzata dalla parità degli individui e anche dalla diffusione di nomi facenti riferimento ad altri giorni della settimana (Domenico, Sabato, Sabatino) o a eventi religiosi richiamanti sentimenti di inferiorità e di sofferenza (Genuflessa, Crocefissa, Addolorata, Incatenata).
Peraltro, le nuove disposizioni di legge, dettate in tema di rettifica dei nomi, sarebbero caratterizzate dalla volontà di dare maggiore peso alla volontà dei genitori, rispetto alle valutazioni dell’autorità.
Con parere sfavorevole del Procuratore Generale la Corte di Appello confermava il decreto del Tribunale. Secondo i giudici la peculiare rilevanza del prenome, quale primo elemento connotativo dell’individuo nella sua proiezione sociale, attraverso la sua comunicazione in ogni contatto conoscitivo e relazionale, avrebbe esaltato il carattere ridicolo e suscettivo di ironia e scherno, proprio del nome prescelto, con un grave nocumento della persona. Il nome “Venerdì”, specie nel sentire infantile, avrebbe avuto un carattere “inusuale, strano, bizzarro”.
La stampa, nei giorni scorsi, ha dato molto risalto a questo fatto, non dimenticando di evidenziare come, il più delle volte le vertenze giudiziarie sono per “cambiare” e non “mantenere” il nome. Infatti è la legge stessa che prevede che possano essere sostituiti i nomi che, negli anni, possono limitare i rapporti sociali e creare insicurezze: viene valutato l’interesse della persona, secondo le consuetudini e anche secondo il territorio di provenienza: ad esempio, a Napoli tante persone che portavano il nome “Zoccola” hanno scelto di cambiarlo... Ed è stato ricordato anche il caso di una signora milanese: si chiamava Vera Vacca e anche lei ottenne di cambiare il nome di battesimo.
In un articolo che ho scritto diversi anni fa, che mi piace riportare qualche stralcio, mi sono occupato dei tanti che, in diverse parti d’Italia, hanno chiesto la modifica del loro nome o cognome all'anagrafe...
In effetti, come negare che tante volte il cognome risulta essere un impaccio: chiamarsi Porco o Ciuccio, Bastardo o Minchia, non deve essere molto piacevole.
Decisamente difficile non solidarizzare con chi chiede la modifica perché porta un cognome scomodo del tipo: Culazzo, Minchione, Favagrossa, Ficarotta, Trunzo, Frocione, Culetto (mi riferisco a dei veri casi giudiziari per il cambio del cognome!).
La conseguenza del chiamarsi così è da individuare in anni di stupidi dileggi, di battute scontate, che sono il prezzo da pagare per cognomi di questo tipo e, spesso, chi li porta non ne può più: così negli ultimi decenni sono state migliaia le persone che hanno affrontato la spesa, e la non semplice procedura giudiziaria, per cambiare un cognome ritenuto ridicolo o vergognoso.
In effetti, tra i molti diritti riconosciuti alla persona umana c'è quello di scegliersi la professione, il coniuge, la residenza, gli amici... tante altre cosa ancora, ma non il nome.
E se per il cognome, per molti versi, non c'è niente da fare... il nome è una "discutibile" prerogativa dei genitori, che non sempre l'esercitano con la necessaria oculatezza, e spesso fanno dell'ignaro figlio, il vessillo di personali passioni politiche, musicali, sportive, ecc. ecc.
Tempo addietro ho avuto modo di leggere su un noto settimanale il lungo e drammatico sfogo di una donna: "Crocefissa: era il nome di mia nonna, e prima ancora della sua; così per 400 anni. Forse nessuno della mia famiglia avrebbe mai pensato che questo sarebbe stato all'origine di tanti guai. Tante madri non sanno come un nome, semplice elemento di distinzione, possa cambiare la vita di una persona. Io lo so. Ci sono passata e non ne sono ancora uscita. Mi ricordo con angoscia quando i bambini che abitavano nel mio palazzo inscenavano con le croci fatte di scope, una specie di crocifissione. Al mio passaggio urlavano "Crocifissa! Crocifissa!...". E poi, ogni volta che per una pratica sono costretta a dire il mio nome, sono esposta alle più mortificanti umiliazioni...".
Terribile questa testimonianza... che il nome sia importante nella vita, nessuno lo nega. L'avevano capito gli antichi greci, imponendo ai loro figli nomi bene auguranti: Temistocle, Demostene, Ilario, Fausto, ecc. Ma, non è raro, il caso di quei genitori che si sbizzarriscono sui figli, per dare sfogo alle loro allergie anticlericali o chissà che altro: è il caso dei vari Satana, Diavolella, Negadio...
C'è stato un contadino ravennate, con una arroganza che sfiora la brutalità, chiamò la figlia Antavlèva (non ti volevo), perché assolutamente non desiderata. A Rimini un operaio di nome Sciopero ha registrato all'anagrafe il figlio col nome Ordigno; un altro, ha registrato una piccola Dinamitarda.
Il dogmatismo comunista ha spinto un usciere del comune di Forlì a chiamare la figlia Pravda ed il figlio Rudepravo. Un ferroviere, colto sicuramente da raptus, chiamò il figlio Binario (un giorno sulla lapide che gli scriveranno? Qui giace “Binario morto”!).
Mentre un tale, a Milano, volendo mettere alla figlia il nome del santo del giorno la chiamò Comdef (non riuscendo a capire che com.def. è l'abbreviazione per indicare il giorno della Commemorazione dei defunti!).
Per non parlare dell'arrivo di Maradona a Napoli che ha fatto registrare più di 300 Diego Armando... o dei Paulo Roberto registrati a Roma dall’arrivo di Falcao... o della presidenza di Pertini che ha fatto registrare un lunga schiera di Pertinia... o dei vari Sue Ellen, Gei Ar, Pamele... e quant’altro prese, non dalla tradizione familiare, bensì dai personaggi (?!...), protagonisti delle più insulse telenovele che entrano nelle nostre case...
Per quanto mi riguarda, credo che per ogni persona, la scelta del nome non deve cadere a caso. Mi ha sempre affascinato la vicenda dei genitori di Francesco 'il paolano', che esauditi per la nascita del figlio, imposero a questi il nome del Santo di Assisi; lo stesso hanno fatto i genitori di Francesco Forgione, che con il nome di Padre Pio seguì i passi del Poverello di Assisi.
Può sembrare fuori tempo ed anacronistico, ma rispetto ai vari eroi negativi della Tv, o altri irrazionali puntigli, penso nella tradizione cristiana si possono attingere dei nomi, che richiamino ad un vero significato, ed abbiano un senso... E poi ognuno deve pure aver un Santo protettore al quale rivolgersi?... Un santo di quelli veri però!...

Nella foto: Michele Scozzarra.


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Biagio Cirillo (13.11.08) BASTA COI LITIGI IN CONSIGLIO COMUNALE (di Biagio Cirillo) - Alcuni anni fa, non ricordo per l’esattezza se ne siano passati cinque o sei ma ricordo che era nelle ferie di agosto, ad un Consiglio Comunale sono stati invitati ad assistere gli emigrati. Per fortuna di emigrati eravamo solo due o tre, poichè nel bel mezzo delle loro discussioni i consiglieri hanno iniziato a litigare e qualcuno di loro si è alzato e ha abbandonato l’aula.
Ricordo che sia io che gli altri due emigrati che avevamo accettato l’invito, indignati dal modo di fare politica, ci siamo avvicinati all’uscita e siamo andati via, tanto nessuno ci aveva considerati minimamente.
In verità pensavo fosse una coincidenza l’essere capitato in una riunione del genere, ma l'altra sera leggendo l'articolo "
La minoranza abbandona il Consiglio, ma Lucia si dissocia" mi rendo conto che a Galatro la politica si fa in maniera diversa dagli altri comuni, anzi non si fa proprio. E' questo uno dei motivi per cui Galatro non va avanti.
Cari politicanti galatresi non voglio essere io a dirvi cosa fare, ma una cosa è certa: se andate alle riunioni per litigare, non si risolverà mai niente.
Non mi vorrei dilungare oltre, e perciò mi resta solo di augurarvi un futuro di collaborazione e un caloroso saluto a tutti.

Nella foto: Biagio Cirillo.

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Rino Dell'Ammassari (25.11.08) QUALCOSA SI STA MUOVENDO A GALATRO (di Rino Dell'Ammassari) - La sezione dell'UDC di Galatro ha deciso di promuovere un programma politico mirato ad aprire un dialogo con le istituzioni, chiedendo ai vari rappresentanti, cosa pensano, cosa prevedono, con quale programma si stanno muovendo o che intenzioni hanno per il futuro. L'UDC prendendo questa iniziativa si è sostituita ai cittadini galatresi, i quali da qualche tempo stanno a guardare, senza proporre niente, ma sicuramente facendosi delle domande sul da farsi.
Ebbene, qualcosa si sta muovendo a Galatro,
l'UDC ha creato un programma per interloquire, aprire un dibattito, in poche parole: fare politica!
Questa apertura probabilmente ha spiazzato i cosiddetti dormienti della politica paesana, i quali non avendo stimoli elettorali sono rimasti in attesa, e probabilmente rimarranno passivi fino alla fine del quinquennio. Purtroppo la politica a Galatro si fa ogni cinque anni, cioé solo quando si sviluppa la campagna elettorale, poi ci si addormenta, si va in letargo fino a nuove elezioni. L'UDC ha dato una svolta a questo modo di far politica, inserendosi nel contesto e prendendosi la responsabilità di dare un impulso nuovo, proponendosi di affrontare i problemi di Galatro, e soprattutto programmare una politica che va al di là del palazzo comunale, ma una politica che vive tutti i giorni con le problematiche dei cittadini, si pone quindi come nuovo interlocutore politico.
Bisogna riconoscere che il programma con le interviste ha suscitato un certo interesse, poiché non c'è il classico dibattito con i vari protagonisti del momento, ma anche le domande fatte dal pubblico vengono scritte su foglietti anonimi e consegnate al segretario, il quale poi formula la domanda all'interessato di turno.
Purtroppo qualcuno durante il convegno si è lamentato del metodo, tanto da abbandonare la sala. Anche questo a mio parere è un elemento nuovo che fa riflettere sul comportamento, ed induce ad una certa umiltà, annullando così le manie di protagonismo.
Evviva la novità.

Nella foto: Rino Dell'Ammassari, già assessore comunale a Galatro.

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San Nicola nell'omonima chiesa di Galatro: particolare (7.12.08) SAN NICOLA: UNA FESTA SPONTANEA E VERA, CIOE' UNA FESTA CRISTIANA (di Michele Scozzarra) - Non penso di essere stato il solo a pensare come nel nostro paese, da qualche anno a questa parte, la festa di San Nicola, nostro Patrono, sta assumendo dei caratteri che, nella loro semplicità e spontaneità, ci richiamano veramente a quella che è la vera essenza della festa cristiana.
I riti che si sono vissuti in questa festa sono quelli delle feste comandate (preparazione della novena, messa solenne, processione) e la gente vi ha partecipato numerosa, anche se non c’è stato nessun risvolto mondano di quelli che, di solito, attirano la presenza della gente... anzi, a dire il vero, per quanto mi riguarda, forse è proprio la mancanza del risvolto mondano che ci ha fatto gustare il vero senso della festa del nostro Patrono.
San Nicola con sullo sfondo l'altare del Gagini Quello che abbiamo vissuto nella festa di San Nicola è la testimonianza più autentica che ancora oggi, nonostante i grossi problemi che affliggono la gente, è possibile fare festa per ricordare e non per dimenticare: per ricordare chi siamo, le nostre radici, la nostra fede, la nostra cultura che è quella più autentica del popolo cristiano.
Insomma la festa è tale se diventa una occasione per rileggere la nostra vita alla luce di quella speranza e di quella promessa alla quale la nostra fede ci richiama: vale la pena di far festa per ricordarci di noi stessi, per scoprire il nostro vero volto e le nostre radici più autentiche, piuttosto che annullare ed annegare le nostre tradizioni più autentiche, e vere, per l’interesse per qualche concerto, che nulla richiama alla festa che si vuole celebrare.
La giornata è stata tutta una festa. silenziosamente, forse anche nascostamente, si percepiva nel volto della gente questo desiderio della festa, che si è espresso nella compostezza e serietà con cui si è partecipato alla processione (nonostante l’incidente della rottura del Pastorale, che nella via Madonna ha urtato contro un balcone!)... nel modo attento con cui si è partecipato alla Messa solenne dopo la processione.
E, perché no!, la festa è continuata con lo stesso spirito e significato anche nella piazza quando don Cosimo e don Giuseppe hanno benedetto “u migghiu” e tutto il resto che è servito per continuare a vivere in piazza tutto quello che durante la giornata si era vissuto in Chiesa.
Forse nessuno ci ha mai pensato... ma Gesù Cristo quando voleva indicare e parlare di una festa si riferiva sempre ad un banchetto, non aveva un altro esempio per indicare la festa... e la festa che abbiamo vissuto in piazza sera di sabato è stata una festa proprio in questo senso, perché carica di mille significati, non solo per la grande partecipazione dei fedeli: quella festa non è stato altro che il rivivere l’esperienza della fede, dentro un patrimonio culturale che è nato nella Chiesa e sul quale la nostra gente, nel tempo, ha modellato i gesti, il linguaggio, il lavoro e... anche le feste, le feste spontanee e vere, quelle che accendono il cuore e alimentano una speranza nuova... insomma le vere feste cristiane.
E la festa di San Nicola a Galatro lo è stata... è stata una festa vera, vale a dire... cristiana!

Momento della processione   ALtro momento della processione
   
Autorità religiose e civili   Inizia la sagra
   
Si lavora   Inizia la degustazione
   
Degustazione   Arrivano le zeppole
   
Momenti gastronomici   Altri momenti gastronomici

Nelle foto sopra vari momenti della festa di San Nicola: processione e degustazioni.


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(11.12.08) PIU' SCUOLA... NONOSTANTE TUTTO (di Stefania Scozzarra) - Pubblichiamo un articolo della giovane studentessa galatrese Stefania Scozzarra sui disagi patiti dagli studenti pendolari durante i recenti scioperi delle autolinee. L'articolo, apparso anche sul sito di "Repubblica", è visualizzabile nella sezione Repubblica@SCUOLA.

Ai tanti disagi che noi giovani calabresi siamo costretti quotidianamente a sopportare, tempo fa se n'è aggiunto uno legato ai trasporti. Gli autisti delle autolinee che coprono il servizio nella Piana di Gioia Tauro, hanno scioperato, come ogni anno per quindici giorni consecutivi, lasciando centinaia di ragazzi privi di mezzi di trasporto per raggiungere le strutture scolastiche.
Quindici comuni e relative contrade sono stati coinvolti dallo sciopero e sono stati privati della possibilità di poter raggiungere i luoghi di lavoro e di studio. Nonostante ciò noi studenti ci siamo organizzati e abbiamo raggiunto le rispettive scuole per ogni giorno della protesta, non senza creare disagi in famiglia però.
C'è stato chi si è fatto accompagnare a scuola dai genitori, chi da amici, e chi si organizzava facendo a turni con i propri compaesani.
Non è stato raro vedere ragazzi aspettare fino alle 14.30 (ben oltre la normale fine delle lezioni) l´agognato passaggio e nel frattempo studiare su una panchina, sembrava quasi un anticipo di quello che ci attende all´università.
Non sempre infatti, gli impegni lavorativi permettevano ai genitori di essere puntuali.
Comunque sia, nonostante questi disagi, lo sciopero in linea generale è stato considerato un'esperienza costruttiva.
Le chiacchiere tranquille in auto, gli iPod a palla durante il tragitto, le lamentele sui prof... e sui troppi compiti, tutto questo era uno sprint mattutino! Una carica in più per la giornata, una voglia in più per non lasciare sedie vuote a scuola.
Ma lo sciopero ha portato alla luce una cosa da non sottovalutare: il livello d'interesse delle istituzioni per i problemi dei cittadini. Ben 15 giorni di sciopero, centinaia di famiglie coinvolte e da parte delle istituzioni... nulla! Si sono totalmente disinteressate, cosa assolutamente non consona al ruolo da loro svolto. Beh, confortante per noi giovani che abbiamo dato un esempio. Un esempio di maturità e soprattutto responsabilità. Nessuno ha usato lo sciopero come pretesto per non frequentare le lezioni, per venire meno al proprio dovere di studente. Uno schiaffo morale per le nostre care istituzioni che hanno reso evidente il motivo dell'arretratezza calabrese... Se le istituzioni pur conoscendo i nostri problemi non fanno niente, come si risolveranno?

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Scie chimiche aeree in cielo (17.12.08) NEL BLU DIPINTO DI... SCIE BIANCHE (di Ilaria Pizzimenti) - Cosa sono quelle scie bianche che compaiono nel cielo quando passa un aereo? Una persona naturalmente dirà che sono i gas di scarico prodotti dal motore, non conoscendo la grande differenza che sta tra una scia chimica e una scia di condensazione. E’ quest’ultimo termine, infatti, ad indicare il risultato della combustione del motore. Un comune aereo di linea lascia una scia che scompare entro pochi secondi, o addirittura non si vede affatto. Quelle che si vedono sopra i nostri cieli, e che rimangono visibili per intere ore, sono le scie chimiche.
Le scie chimiche fanno parte del programma americano HAARP, nato con lo scopo di studiare le proprietà della ionosfera e le tecnologie avanzate applicabili nel campo della difesa, ma in realtà hanno delle implicazioni su vari campi: da quello militare a quello sociale, economico e politico. Nonostante la forte rilevanza che il problema delle scie chimiche comporta, nulla ancora è stato fatto da parte del Governo e della stampa nazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica ed informarla sulla pericolosità di esse. Nessun giornale o notiziario ha parlato delle numerose interrogazioni parlamentari contro le scie chimiche attuate dai deputati Antonio Di Pietro (IdV) e Sandro Brandolini (PD), dal Senatore Amedeo Ciccanti (UDC), dal deputato olandese EriK Meijer e da quello greco Fotis Kuvelis e molti altri, tra cui intere associazioni per la tutela dell’ambiente e della salute dell’uomo. Il Parlamento Europeo in un rapporto del 1999 “considera il sistema militare USA di manipolazione ionosferica HAARP la più grave minaccia militare per l’ambiente globale e la salute umana”. Ma la disinformazione riguardo a questo problema è grande. Nell’era della comunicazione multimediale, il dovere di esporre la cruda verità è lasciato ad internet,dove sul sito di un Comitato Romano Spontaneo contro le Scie-Nuvole Chimiche (
cieliliberi.blogspot.com) si può trovare tutta la documentazione e le testimonianze con video, foto ed interviste sull’effettiva esistenza e gravità del problema.
In base a quanto affermano i media e gli stessi parlamentari, le scie chimiche sono prodotte da aerei militari speciali, anonimi, invisibili ai normali sistemi di identificazione poiché percorrono una rotta non prevista per i normali aerei di linea. Come conferma il C.N.R., rilasciano nell’atmosfera “sostanze chimico-biologiche disperse tramite aerosol” e metalli come bario e alluminio costituiscono gli elementi principali, abnormemente presenti nell’aria che respiriamo, nel terreno e nei cibi, ma anche nel nostro corpo. Essi sono la causa di malattie, anche gravi, come il morbo di Alzheimer, cancro, morbo di Morgellons, dolori muscolari, affezioni respiratorie, bruciori agli occhi e alla gola, stanchezza, spossatezza, depressione, diminuzione delle difese del sistema immunitario.
Non sempre però tutti questi mali che ormai sono diventati all’ordine del giorno vengono correttamente interpretati come necessaria conseguenza del continuo “bombardamento” di queste sostanze nell’atmosfera. Il cittadino non sempre riesce a capire cosa siano realmente quelle belle scie bianche che allegramente colorano il cielo, sia per disinformazione sia perché a volte si rifiuta di accettare le implicazioni che la verità comporta. Una verità che è difficile, dura, ma che chiede di essere gridata a gran voce.

Nella foto: scie chimiche aeree in cielo.

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Natività (17.12.08) NATALE 2008: NEL MISTERO DEL PRESEPIO (di Michele Scozzarra) - Anche questo Natale, sicuramente, passerà alla svelta, nonostante le sensazioni che si provano quando vengono tirati fuori dalle scatole i personaggi del presepe, per vivere alcune settimane di gloria. E ogni anno che passa l'impressione crescente è che tornino per l'ultima volta: l'indifferenza in cui è stata relegata la nascita di Gesù Cristo sembra, sempre di più, una faccenda lontana, lontanissima dalla vita di tutti. Anche di fronte al presepio nei più anziani si rinnova, forse, un attimo di sincera nostalgia, legata al ricordo di facce e luoghi lontani: i genitori, il paese, le persone care che non ci sono più e la familiarità delle antiche messe di mezzanotte. Ma nei più l'immagine di quella grotta non riesce ad evocare, ormai, neppure il sussulto fragilissimo dei buoni propositi, dei buoni sentimenti. In tanti si vergognano pure del presepe allestito in casa e cercano il capro espiatorio per minimizzare: "Sa, i bambini... e poi la nonna che ci tiene", sottintendendo in quello scaricabarile una forma di arteriosclerosi a sfondo religioso o comunque qualcosa d'antiquato. Che tristezza quell'aria di sufficienza e d'imbarazzo...
Nonostante questo, l’assimilazione “Natale uguale presepe” resiste, ancora, in maniera radicale nella tradizione dei nostri paesi, si perde nel buio dei tempi: in tanti paesi c'è come una sensazione di "respirare un'aria antica" nel vedere tante persone, con un'abilità stupefacente, dare vita ad un mondo fiabesco fatto dalle piccole luci multicolori dei presepi, dalla policromia dei personaggi, dai variegati paesaggi...
Per questo, non possiamo non domandarci quale grande mistero nasconde il presepio dietro le sue figure? Perché i Magi, i Pastori, il Bue, l'Asino, la Mangiatoia?...
La prima rappresentazione del mistero del Presepio si trova, per quanto ne sappiamo, su un sarcofago del Museo delle Terme a Roma: nel bassorilievo paleocristiano compare un alberello che indica la capanna; un pastore che medita appoggiato ad un bastone; una rustica greppia di foglie, in cui è posto a giacere il Bambino avvolto nelle fasce; e, chine su di Lui, le teste dell'asino e del bue. Questa semplice scena è la più antica rappresentazione conservata della nascita del Signore: fu scolpita verso il 325 e ci ricorda anche che, in quegli anni, veniva creata pure la solennità liturgica del Natale, festività che sarebbe divenuta, con il passare dei secoli, la festa più amata dai cristiani.
Nella rappresentazione del sarcofago delle Terme non c'è la Madonna, non c'è Giuseppe, non c'è nessuna grotta, così come non vi sono angeli e stelle. Ma vi sono le figure dell'asino e del bue: che mistero si nasconde dietro queste due figure? La costante presenza dei due animali non risponde ai dati del Vangelo, perché gli evangelisti non ne parlano; non risponde alla necessità di dare forma tangibile e poetica al dato della mangiatoia, perché sarebbe stato sufficiente mettere qualsiasi animale, e non necessariamente due; né risponde ai racconti favolosi dei libri apocrifi. La presenza dei due animali nasce da finalità simboliche: corrisponde ad un'interpretazione patristica di due profezie: quella di Isaia ("conosce il bue il suo padrone, e l'asino la greppia del suo possessore") e quella di Abacuc ("in mezzo a due animali ti manifesterai").
I Padri hanno capito in senso messianico queste parole e le hanno messe in rapporto con la greppia di Betlemme. I due animali sono lì come simbolo di riconoscimento del Messia: il bue, secondo l'interpretazione Patristica, è il popolo d'Israele, che portò il giogo della Legge; l'asino, animale da soma, è il popolo dei Gentili, carico dei peccati di idolatria. L'asino ed il bue significano, quindi, le due componenti originali della Chiesa: la Chiesa dei Gentili e la Chiesa della Circoncisione. Per questo è da ritenere che l'asino ed il bue non sono, nell'iconografia primitiva del Natale, un semplice aneddoto o un dato folcloristico, bensì sono uno splendido simbolo ecclesiale.
I Magi Finalità simboliche riscontriamo anche nelle figure dei Magi e dei Pastori. I Magi dell'Oriente, condotti da una stella ad adorare "il neonato re dei Giudei", hanno un chiaro simbolismo di chiamata universale alla salvezza. Loro sono la figura della vocazione dei Gentili. I Pastori di Betlemme, ai quali gli angeli annunciano la nascita del Messia Salvatore, sono un simbolo della chiamata dei Giudei. Infatti dice Sant'Agostino: "Dalla stessa culla della sua nascita, si manifestò Cristo a coloro che erano vicini e a coloro che si trovavano lontani: ai Giudei nei vicini pastori, ai Gentili nei Magi lontani".
Traendo spunto da questa esegesi dei Padri, l'iconografia cristiana forgiò altri simboli ecclesiali: i Magi, provenienti dalla Gentilità, ed i Pastori, provenienti dal popolo d'Israele, acquistarono nell'arte primitiva lo stesso simbolismo dell'Asino e del Bue. Così, intorno alla metà del IV secolo, sorge un nuovo schema natalizio, in cui, oltre al bue e all'asino sono presenti i Pastori ed i Magi: infatti, i Magi ed i Pastori verificavano così, nella realtà della storia, ciò che l'asino ed il bue prefiguravano a livello di profezie. Coi Pastori di Luca ed i Magi di Matteo, con l'asino e il bue di Isaia e Abacuc, gli antichi artisti cristiani hanno quindi creato un'impressionante immagine del presepio, che è simbolo riuscito della Chiesa radunata presso la culla del Signore. E, se hanno separato, lievemente, la Madre dal Figlio (cosa che difficilmente riesce a capire la nostra mentalità), l'hanno fatto per circondare la greppia del neonato con quei simboli profetici che presentano Cristo come Messia, Salvatore della Chiesa universale: quella che viene dai Giudei, ma che viene pure dalla Gentilità. In questa ottica si vede che l'interesse degli antichi per la scena di Betlemme non è sentimentale ed il presepio si presenta come una cifra dogmatica: il Figlio di Dio, messo a giacere nella mangiatoia, diventa così, persino figurativamente, asse e centro della storia salvifica di tutti gli uomini.
Nelle ultime manifestazioni dell'iconografia paleocristiana occidentale, lo schema mutò. Al posto dei due gruppi simmetrici di pastori e magi, furono raffigurati ad ambo i lati della culla, Maria e Giuseppe. L'asino ed il bue conservarono il loro posto e si chinano sul Bambino adagiato nella paglia, non più attratti dal fieno, ma dal pane disceso dal cielo e, da questo momento, anche la mangiatoia sarà elemento essenziale delle rappresentazioni natalizie, in quanto richiama direttamente all'altare e la presenza di questo altare lega l'incarnazione di Cristo con la sua morte sacrificale, evidentemente, in termini di simbolismo eucaristico.
Il presepio rappresenta un grande Mistero: dietro ogni scena c'è la Chiesa con tutti i suoi misteri, capaci di far riaffiorare nell'animo ricordi ancestrali, attese, speranze mai sopite... si avverte che quello che è accaduto più di duemila anni addietro, miracolosamente, continua ad accadere ancora oggi... E la certezza che quel fatto umanissimo accaduto duemila anni fa, non smette mai di riaccadere. E accade anche oggi nell'Anno del Signore 2008: tutto è, oggi, semplice per noi, così come, allora, lo fu per quei poveri pastori della Palestina... una giovane ragazza ha dato alla luce un Bambino. C’è solo da andare e vedere. Tutti quanti... nessuno escluso!
Buon Natale...

Presepe

Nelle immagini: particolari del presepe di Michele Scozzarra.


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Un blocco di scec (27.12.08) DAMMI UNO SCEC... E TI FERMO LA CRISI (di Ilaria Pizzimenti) - Per far fronte alla crisi economica i Napoletani propongono una nuova moneta: lo SCEC, emesso dall’Associazione Masaniello Onlus. Si tratta di un buono distribuito gratuitamente a chi ne fa richiesta in qualità di consumatore, privato o azienda. Nato con lo scopo di ridare slancio all’economia locale, circola in un territorio limitato e permette così di ancorare la ricchezza al territorio che l’ha prodotta.
La moneta ha valore nel momento in cui viene accettata dai commercianti e le aziende che decidono di aderire all’iniziativa. Già alcuni comuni hanno deciso di sostenerla ufficialmente: Trento, Napoli, Roma, Sandale, Castrovillari, e dal 9 novembre anche il Comune di Crotone, promossa dall’Arcivescovo di Crotone–Santa Severina e Presidente Nazionale del Comitato Scientifico di Arcipelagoscec S. E. Mons. Domenico Graziani, dal Presidente di Arcipelago-Calabria Ettore Affatati e dal Presidente Nazionale di Arcipelagoscec Pierluigi Paoletti.
Il progetto crotonese consiste nell’emissione di buoni locali di solidarietà nel territorio provinciale che contribuiranno a sostenere le famiglie e le piccole imprese di fronte all’incalzare della crisi economica che sta investendo non solo il nostro Paese, ma l’intero circuito commerciale globale.
Davanti ad una progressiva globalizzazione e quindi ad una eccessiva delocalizzazione dell’attività economica, questo nuovo sistema di scambi commerciali punta al dialogo e alla cooperazione tra le imprese. Trattandosi di una moneta complementare all'euro non è convertibile, ma si utilizza insieme agli euro senza sostituirli; a differenza della moneta attuale non contiene il tasso di interesse emesso dalla banca, fonte di debito per i cittadini. La moneta a corso forzoso, infatti, quando viene emessa dalla Banca D’Italia, ci indebita perchè le banche vogliono la restituzione di quello che hanno dato più gli interessi (sempre più alti). Matematicamente il debito non è mai saldabile poichè la moneta emessa in tutte le sue forme, sia creditizia che cartacea, è sempre in quantità minore di quella che deve essere restituita, in quanto gravata dagli interessi.
Lo Scec non causa inflazione per un motivo molto semplice: viene speso solo in una percentuale del prezzo, la parte restante continua comunque ad essere pagata in Euro. Inoltre presenta numerosi altri vantaggi, che possono essere così elencati:

  • Realizzazione in tempi rapidi.
  • Svincolo degli aderenti dalla dipendenza da finanziamenti esterni all'attività, con conseguente programmazione a medio-lungo termine.
  • Grande diversificazione delle produzioni in spazi territoriali ristretti per show-room con offerta molto diversificata e concorrenziale.
  • Coalizione tra produttori e punti vendita di zona con sinergie potenzialmente enormi per il territorio.
  • I produttori ottengono un prezzo equo dalla vendita della loro produzione.
  • Il consumatore ottiene un prezzo competitivo, una qualità migliore e un servizio ottimo e capillare.
  • Si mantengono cultura e produzioni locali specializzate senza perdere competenze.
  • Gli investimenti hanno un impegno economico limitato e danno il loro frutto molto velocemente.
  • Si mette in moto un meccanismo virtuoso che passa dall'arresto del degrado economico al rilancio del territorio; questo apre la strada ad altre iniziative con una base solida di auto-sostenibilità.
  • La struttura modulare del progetto consente la sua applicazione a più livelli ed ogni soggetto interessato, pubblico o privato, può decidere il suo grado di coinvolgimento senza per questo pregiudicare il successo dell’iniziativa.

    In seguito a queste considerazioni e al livello di successo ottenuto su tutto il territorio nazionale, ci aspettiamo che lo Scec arrivi anche all’interno del nostro territorio entro breve termine.

    Per ulteriori informazioni si possono consultare i seguenti siti:
    www.progettoscec.com
    www.arcipelagoscec.org
    www.scecservice.org


    Nella foto in alto: un blocco di scec.

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