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6.9.14 - Norme giuridiche della civiltà contadina nei detti calabresi
Angelo Cannatà

7.9.14 - Dopo due secoli, niente processione l'otto settembre
Umberto Di Stilo

19.9.14 - Verso le periferie del mondo e dell'esistenza. Meeting 2014
Carmelo Di Matteo

26.9.14 - Fuori dal coro: elogio della spesa pubblica
Domenico Distilo

19.10.14 - Nell'anniversario della morte di Carmelo Cordiani
Michele Scozzarra

22.10.14 - Re Giorgio, l'ideologia e l'articolo 18
Angelo Cannatà

1.11.14 - La notizia della mancata fibra ottica a Galatro fa arrabbiare il Sindaco

13.11.14 - Galatro esempio di mancata prevenzione del rischio idrogeologico
Maria Francesca Cordiani

26.11.14 - Se questo è un leader di sinistra
Angelo Cannatà

29.11.14 - Il vescovo Milito: la nostra diocesi vive un tempo "strano"
Michele Scozzarra

4.12.14 - Le terme non interessano più a nessuno, o sbaglio?
Rino Dell'Ammassari

24.12.14 - Se meditare l'incarnazione è una questione bizantina
Pasquale Cannatà

24.12.14 - Natale 2014: alla ricerca di un Cristo "vivo"
Michele Scozzarra





(6.9.14) NORME GIURIDICHE DELLA CIVILTA' CONTADINA NEI DETTI CALABRESI (Angelo Cannatà) - Sono in vacanza in Calabria e negli scaffali impolverati della mia casa, chiusa per gran parte dell’anno, ritrovo un vecchio libro ‘U ventu sparti. Norme giuridiche della civiltà contadina nei detti calabresi, Acre, di Umberto Di Stilo. Lo apro. C’è come il desiderio di ritrovare la saggezza popolare. Cultura alta, cultura bassa. Le classi subalterne, anche per le secolari condizioni di vita, hanno coltivato “l’arte del sospetto”, uno sguardo di cui abbiamo ancora bisogno. Provo a leggere alcune pagine al presente. Aiutano a capire il nostro Paese, l’Italicum, la sentenza Ruby, il patto del Nazareno, Equitalia…? Vediamo.

1. Per ogni progetto di riforma si ricorre (abusandone) al latino: abbiamo il Mattarellum, il Porcellum, l’Italicum... Può derivarne qualcosa di buono? “Quando i ciucci parlano latinu è signu ‘i mal’annata.”
2. I detti popolari “anticipano”, spesso, le sentenze dei processi (vedi assoluzione di B. nel caso Ruby, “la nipote di Mubarak): “Avvocati e giudici su’ tutti ‘mbrogghiuni, a cu’ havi tortu ’nci dannu raggiuni.”
3. In molte massime domina il sospetto dell’inganno, l’idea - in verità ben fondata - che non si faccia nulla per il popolo e tutto per il Re (oggi: leggi ad personam; Costituzione ad personam…): “cu’ nventa a leggi, nventa a frodi”. Commenta Di Stilo: “Ai contadini non bastava pensare che ‘fatta la legge, trovato l’inganno’. Essi ritenevano, infatti, che la stessa norma di legge è un inganno.” Una critica ante litteram a Renzi: era favorevole alle preferenze ma con la riforma le abolisce: “chi inventa la legge, inventa la frode.” Sembra, adesso, che si arrivi a una mediazione. Sarà vero?
4. Altri temi: la pena del Caimano. Che invece di finire in carcere, la sconti, con leggerezza, ai servizi sociali - tra barzellette e regali alle vecchiette - non coglie di sorpresa il ceto popolare: soldi e potere possono tutto. In modo più efficace: “cu i sordi e l’amicizia nci vai ‘nculu a la giustizia.” Con la variante: “ ‘a leggi è uguale pe’ tutti ma s’hai sordi ti ndi futti!”.
5. Renzusconi e il “Patto del Nazareno”. Non c’è un documento scritto, da far conoscere e valutare democraticamente. Tra sodali basta la parola: “cu amici pattu, cu avversari cuntrattu.” Possiamo stare tranquilli? Cos’è questa democrazia dell’amicizia, dei patti segreti, degli accordi di cui trapela appena qualche frase? In che Paese viviamo?
6. In che Paese viviamo? La risposta è obbligata: osservate il comportamento di Equitalia: “ ‘u riccu s’avi debiti è aspettatu; ‘u povaru o pignu o carceratu.”
7. Ancora sul Patto del Nazareno: a pensarci, è inquietante (anche) da un altro punto di vista. Proprio perché non c’è un documento scritto, divulgato, ed è basato sulla parola data… fa pensare ad accordi e segreti indicibili ai quali non ci si può sottrarre (si è detto di un progetto che ricalca quello della P2). E allora, perché sorprendersi del fatto che “il patto tiene” (siamo sicuri che B. possa sottrarsi? Ha delle alternative?): “l’omu chi non ha parola ferma si merita lu chiaccu e poi la canna.” Meglio essere Padre della Patria (e ai servizi sociali), che fuori da tutti i giochi e in carcere. Per Renzi il discorso è più lungo, ma l’impressione, molto forte, è che sia dentro un gioco più grande lui, di cui è il retore, l’abile affabulatore. La retorica al servizio della politica. Pardon, dell’economia (“I sordi fannu vidiri l’orbi e dominanu u mundu”). L’Italia è davvero libera dai diktat del potere economico che domina in Europa?

Questi accostamenti sono un gioco estivo, naturalmente. Sfoglio ancora un po’ le pagine del volume, poi lo ripongo nello scaffale della vecchia, amata, libreria e passo a Nietzsche, Camus, Sartre. Un gioco estivo? La sensazione, a dire il vero, è che “le norme giuridiche” della civiltà contadina racchiudano - in un certo senso - molte verità. Un giudizio, lucido e disperato, verso chi detiene il potere: in nome del popolo, certo, ma nell’interesse - come non vederlo? - delle solite, inaffondabili, élite.

Articolo apparso su Il Quotidiano della Calabria del 31-07-2014

Nella foto: Angelo Cannatà.


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(7.9.14) DOPO DUE SECOLI, NIENTE PROCESSIONE L'OTTO SETTEMBRE (Umberto Di Stilo) - Per la prima volta da quando, agli inizi del secolo XIX, tra i fedeli galatresi (e del rione Montebello, in particolare) la devozione mariana è stata estesa anche al culto di Maria SS. della Montagna, la settecentesca statua lignea che la ritrae seduta con il Bambino in braccio, resterà in chiesa anche l’8 settembre, giorno della sua ricorrenza festiva.
Infatti, in applicazione della nota disposizione adottata qualche mese addietro dal Vescovo della diocesi la compatrona del paese non sarà portata in processione per le vie del centro abitato e non passerà a far visita concretamente a quanti, costretti a letto perché ammalati o impossibilitati a lasciare le pareti domestiche perché impediti nel fisico, non hanno avuto la possibilità di recarsi a salutarla in chiesa per confidarLe da vicino le inquietudini e gli affanni del quotidiano.
La statua resterà in chiesa, nonostante il complesso bandistico che avrebbe dovuto seguirla in processione compirà ugualmente i giri per il paese facendo sentire i motivi di alcune orecchiabili marce sinfoniche; nonostante al mattino, com’è tradizione, i cittadini verranno svegliati dallo scoppio dei mortaretti che annunciano la giornata di festa e nonostante il viale Aldo Moro sarà illuminato a giorno dalle fantasmagoriche luminarie. Non mancheranno neppure i concerti serali, i due intrattenimenti musicali che concluderanno le serate di festa civile. C’è, insomma, tutto il consueto corollario mondano.
Ciò di cui i fedeli sentiranno la mancanza, però, è il momento liturgico della processione, che è il cuore pulsante, il momento più toccante della solenne ricorrenza festiva. Processione – quella dell’otto settembre – che a Galatro ha sempre fatto registrare un grande afflusso di fedeli. Chi non ricorda, infatti, i devoti che arrivavano dai paesi vicini e soprattutto quelli che, numerosi, chiudevano negli stazzi i loro armenti e lasciavano le loro modeste abitazioni delle contrade montane per scendere in paese ad ascoltare la messa solenne in profondo raccoglimento e, poi, seguire in preghiera, la statua portata in processione per tutte le vie del cento abitato? Scendevano i pastori e i carbonai che per partecipare alla processione della loro protettrice organizzavano per tempo il loro lavoro in modo tale da non rischiare di mandare in rovina le loro carbonaie in corso di cottura.
Se si pensa a ciò che la festa ha sempre rappresentato per la nostra collettività vien da concludere che, monca com’è della processione, la ricorrenza festiva ha perso il momento centrale della devozione popolare. Ha perso il suo significato più vero che è quello di “popolo di Dio in cammino” che marcia per le vie della città terrena verso la Gerusalemme celeste.
La processione della Madonna della Montagna per le vie di Galatro c’è sempre stata. I più anziani ricordano che, sia pure su un percorso molto più breve del consueto, è stata fatta anche quando infuriavano i venti di guerra e si rischiava concretamente che gli aerei nemici volando a bassa quota potessero mitragliare i fedeli in religioso corteo. C’è anche chi ricorda che l’otto settembre del '43, a seguito dell’annuncio radiofonico dell’avvenuto armistizio, numerosi fedeli, capeggiati dal colonnello Francesco Trungadi, da Angelo Cannatà, da Michelangelo Lorè e da Carmelo Marazzita, in segno di giubilo e di ringraziamento, hanno voluto riaprire la chiesa che avevano lasciato qualche ora prima a conclusione del rito serale, per ringraziare la Madonna e alzando inni e facendo squillare a distesa le campane, sotto la spinta di un irrefrenabile entusiasmo, hanno portato nuovamente in processione la statua lungo le stradine che circondano la chiesa. Un percorso breve, ma significativo, perchè voleva essere il concreto gesto di ringraziamento alla Mamma Celeste per la fine del conflitto mondiale e, nel contempo un altro momento di forte e sentita manifestazione di fede di una intera comunità. Perché da sempre, nella tradizione popolare, la processione è stata il segno tangibile della fede semplice ma genuina dei fedeli galatresi.
Quest’anno, invece, nessuna processione. Lo strano è che è rimasto in piedi l’impianto della festa civile. E c’è chi legittimamente si chiede: che senso ha una festa civile se essa non è il corollario di quella religiosa che da sempre ha il suo momento centrale nella processione devozionale? Senza il passaggio della Madonna per le vie del paese la ricorrenza dell’otto settembre, per la prima volta nella storia sociale galatrese, non è “sentita” come la festa della compatrona e della protettrice delle messi e dei pastori. Nella cultura popolare e nella tradizione della festa, la processione, lo stare insieme dei fedeli che alzano inni di lode alla Madonna o recitano preghiere, è il momento più vero della festa. Anzi, è l’essenza della festa. Il resto - il concerto in piazza, la musica, le luminarie, i fuochi… - è solo folklore.


Nelle foto, dall'alto: la Madonna della Montagna sul ponte dell'Annunziata ferma per la scarica dei fuochi; la Madonna in via Lamari; la Madonna in via Lungometramo.


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(19.9.14) VERSO LE PERIFERIE DEL MONDO E DELL'ESISTENZA. MEETING 2014 (Carmelo Di Matteo) - L’Edizione n. 35 del “Meeting per l’amicizia tra i popoli”, più brevemente conosciuto come “Meeting di Rimini”, ha chiuso i battenti. Quattromila volontari, centotrenta conferenze, 300 relatori provenienti da oltre 70 paesi nel mondo, dieci mostre, 35 spettacoli, 10 eventi sportivi, 170 mila mq. allestiti, 1000 operatori della comunicazione accreditati, 200 partner e sponsor e ottocentomila partecipanti. La mia è la 30a. Ho partecipato e ho desiderato di esserci così come, non dico la prima volta che per me è stato l’anno 1981 (la prima edizione del Meeting risale al 1980), ma come la seconda volta, anno 1982, indimenticabile, per la visita di Giovanni Paolo II e per la voglia di incontrare tutto ciò che vi è di bello e di incontrabile nel mondo.
Ho letto un giudizio dato oggi su don Luigi Giussani (Fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, definito il più grande educatore italiano della seconda metà del ‘900 e soggetto ispiratore del Meeting) da una docente, non ciellina, di istituzioni di Diritto pubblico dell’Università di Siena, Tania Groppi: ”Un uomo che ha vissuto un’esperienza che trasforma l’intera persona, l’incontro con Gesù Cristo. Che ha sentito la necessità, l’impellenza, di trasmetterlo. Che invita ciascuno di noi a fare altrettanto. Perché soltanto così si può cambiare il mondo: non agitandosi o facendo chissà cosa, ma attraverso una nuova maturità di ogni singola persona che possa portare uno sguardo e un atteggiamento nuovi. Ma il cambiamento non lo si può realizzare da soli, ci vuole tempo e occorre seguire qualcuno”.
Questo giudizio, secondo me, ricalca la motivazione che ha fatto nascere il meeting. Persone che hanno vissuto l’esperienza dell’incontro per come sopra descritto dalla Docente Groppi e con tanta voglia di creare un luogo dove è possibile costruire la pace, la convivenza e l’amicizia tra i popoli.
Ho ascoltato in questa edizione ed anche, in parte, incontrato Ortodossi, Musulmani, Buddisti, Ebrei, Cristiani di lingue diverse, professori, filosofi e politici di gran parte delle nazioni Europee ed Extraeuropee, cardinali, vescovi, personalità e uomini della Siria, dell’Egitto, dell’Etiopia, dell’America Latina, Arabi, Palestinesi, e ancora poeti, scrittori, scienziati, manager, campioni di calcio, basket, rugby, ecc.
I cancelli della fiera di Rimini che ha ospitato il meeting venivano aperti ogni mattina alle 10,45 e chiusi alle 24,00. Sono stato lì per tutta la settimana e per tutti i giorni, salvo la pausa pranzo con salutare pennichella. E ogni mattina, come tantissimi a far la fila in attesa di entrare nei saloni, chiacchierare, gioire nell’intravvedere l’amico conosciuto a Reggio Calabria come a Milano, a Galatro in vacanza o a S. Irene in anni passati, raccontarsi l’incontro fatto il giorno o la sera prima, raccomandare l’uno all’altro di vedere una mostra, uno stand o andare a mangiare da... (i ristoranti all’interno del meeting) o, oggi, “non perderti l’incontro con... sai l’ho conosciuto a...”, un passaparola, principalmente tra tutti quei giovani alla ricerca di esperienze che rimandano ad una religiosità vera capace di aprire dialogo con tutti.
Il meeting non è una fiera, dove ci passi una volta e hai visto tutto, compri e vai via, il meeting, per l’appunto, è “un incontro” e lo puoi fare allo stand promozionale, assistenziale, associativo o all’approfondimento delle mostre e ti accade senza che te lo domandi, man mano che tutto ti si scopre.
Il meeting è un partecipare ad assemblee dove la gente interpellata parla di sé, della sua esperienza, della sua storia, di ciò che ha costruito e vissuto e quasi tutti da prima linea, in guerra ed in pace e sempre o quasi alla periferia dell’esistenza. Il meeting sono io ed il mio modo di pormi in esso. Mi sono divertito, stancato e riposato. Ma una settimana così, se non ci fosse il meeting, dove la vivrei? C’è ancora un posto dove per ascoltare per esempio Giorgio Buccellati, professore emerito di storia e archeologia del vicino oriente o Maamoun Abdulkarim, Direttore generale delle Antichità di Siria o Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra santa o Laurent Lafforque, professore all’Istituto di Alti Studi Scientifici o Raffaele Bonanni, Brunello Cucinelli, Mauro Moretti, Sergio Marchionne, ecc. ecc., necessita far la fila almeno mezz’ora prima e con il rischio di non entrare in saloni di 3500 o 7500 posti a sedere? Il popolo del meeting è un popolo che ha tanta voglia di ascoltare, di imparare, di sorprendersi giorno dopo giorno, ha tanta voglia di crescere, in un mondo che va sempre più giù, sempre più al ribasso!
A Aleksandr Filonenko, Ortodosso, professore e filosofo Ucraino è stato dato il compito di raccontarci il tema del meeting nella sua periferia divenuta protagonista sulla scena mondiale: “Ci siamo trovati a essere senza Patria, separati da tutto quello che amavamo, estranei e indesiderati in un paese straniero, non ci rimaneva nulla tranne la miseria. E all’improvviso abbiamo scoperto che avevamo un Dio di cui non avevamo nulla di cui vergognarci e che non aveva vergogna di noi. E all’improvviso abbiamo scoperto che Lui poteva entrare con noi fin proprio nell’abisso del nostro dolore. Nella profondità ultima della nostra caduta noi abbiamo trovato Cristo, che ci salvava, invitava a vivere. IL VERO INIZIO PUO’ VENIRE SOLO DALLA PERSONA RINATA IN UN INCONTRO”. Ogni sera per i tre mesi di occupazione della piazza di Kiev, Maidan, i pastori di tutte le religioni presenti in Ucraina, si ritrovavano intorno al popolo, tra freddo e coperte condivise, a recitare la preghiera di ringraziamento. Quello che è successo in piazza Maidan aiuta a guardare il futuro di tutta l’Europa vecchia e nuova afflitta da crisi ideologiche e politiche con la speranza che una nuova Europa ricca di storia e di ideali comuni costituisca l’ossatura politica di un nuovo grande Stato.
“Perché un uomo possa vivere, egli deve, o non vedere l’infinito, oppure avere una spiegazione del senso della vita tale per cui il finito venga eguagliato all’infinito” (Lev Tolstoj). Campeggiava all’ingresso della mostra su Lev Tolstoj. Da sempre, mi ha attratto il suo itinerario umano e di ricerca, la sua storia di uomo combattuto tra una idea di ragione che ammette il Mistero o una ragione arbitra del reale, un cristianesimo come avvenimento oppure come regole da rispettare, un laicismo spesso arrogante che contraddice l’acuta esigenza di “laicità”. Peccato però che uno spirito così, non abbia trovato interlocutori nella Chiesa Ortodossa del tempo. Ha vinto, secondo me l’orgoglio, si proprio l’orgoglio, cioè il distruttore del cuore ed hanno vinto anche le tensioni del tempo. Perchè nel momento in cui Tolstoj si piantò per tre giorni sulla soglia di un convento desideroso di entrarvi perché aveva capito che lì era la risposta al suo cercare, la sua stessa pretesa che qualcuno lo chiamasse e la pretesa della chiesa a che fosse lui a chiedere di entrarvi, fece svanire la riconciliazione, almeno visivamente. Mi sono domandato, in questo meeting sulle periferie: e se ci fosse stato Papa Francesco, quanto l’avrebbe fatto attendere?
Meeting, questo, sulle periferie del mondo tanto care a Papa Francesco e, appunto per questo, mi ripropongo, appena mi è possibile di parlare delle mostre del Meeting. Io dico Il fulcro del Meeting, perché dalle mostre si capisce ancora di più il Meeting e di come IL DESTINO NON HA LASCIATO L’UOMO DA SOLO ALLE PERIFERIE DEL MONDO E DELL’ESISTENZA.

Nella foto: in alto l'apertura del Meeting, in basso il manifesto ufficiale.


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(26.9.14) FUORI DAL CORO: ELOGIO DELLA SPESA PUBBLICA (Domenico Distilo) - La crisi italiana ed europea si avvita su se stessa. Perfino la locomotiva Germania cammina all’indietro, con salari bassi che impediscono al surplus delle esportazioni di riflettersi in crescita del Pil.
Ce ne sarebbe abbastanza per mettere finalmente in discussione il paradigma – o “modello econometrico” nel gergo degli economisti - dell’austerità, imperniato sul dimagrimento dei bilanci pubblici.
Paradigma smaccatamente ideologico, insostenibile sul piano tanto logico-epistemologico quanto storico, come messo ben in evidenza da commentatori autorevoli – ancorché in minoranza nelle università, nei media e nei vari think-tank.
I bilanci pubblici in pareggio o in avanzo vengono considerati il presupposto di un’economia virtuosa, laddove il virtuosismo si riassume in una (solo ipotizzata) liberazione di risorse che si otterrebbe con il combinato disposto di abbassamento delle tasse e diminuzione della spesa pubblica. Non si tratta però di altro che di articoli di fede, di una duplice fallacia non in grado di resistere a un’analisi anche solo superficiale.
Perché mai, infatti, il reddito risparmiato dal fisco dovrebbe venire reinvestito in attività d’impresa? Non c’è nessuna necessità che questo avvenga soddisfacendo i voti di una maggiore offerta di lavoro e salari e non si può addurre un solo esempio concreto di crescita generata dall’abbassamento delle tasse. La ricaduta – questa sì abbondantemente sperimentata - è invece che, per effetto della mancata ridistribuzione, a sua volta effetto indiretto delle minori entrate fiscali, si restringe la quota di Pil disponibile per la parte maggioritaria della popolazione e aumenta il divario tra questa e la minoranza dei più ricchi. Si restringono cioè la platea dei consumatori e la quantità complessiva dei consumi. Quanto all’accresciuta disponibilità di denaro per la minoranza dei più ricchi, essa viene sì reinvestita, ma in attività finanziarie, tra cui il debito pubblico, così alimentando il meccanismo perverso che conosciamo: crisi (effetto del calo del reddito della maggioranza della popolazione), aumento del debito, restrizione della spesa pubblica, ulteriore aumento del debito in rapporto al Pil, sequenza che culmina nell’imposizione, o ricatto che dir si voglia, di misure lacrime e sangue per scongiurare il default. Il circolo “virtuoso”, a questo punto, ha smesso di essere virtuoso, divenendo tragico.
Quel che però è al centro dell’attenzione, essendo considerata la sentina di tutti i mali, è la spesa pubblica che, si sostiene, ha raggiunto ovunque livelli astronomici. Il refrain risuona ovunque ed è diventato luogo comune, al punto che propugnare politiche imperniate sulla spesa viene considerato disdicevole, unpolitically correct, più o meno come una volta parlar male di Garibaldi.
Ma che la spesa pubblica sia in rapporto di 50, 100, 150 o quanto che sia rispetto al Pil non significa assolutamente nulla. La verità, che l’ideologia dominante fa di tutto per occultare, è che senza la spinta del pubblico il sistema economico nel suo complesso – sia pubblico che privato - semplicemente non funziona. O per meglio dire: funziona (se male o bene è una questione di scelta di valori), a beneficio di pochissimi e a discapito di moltissimi. Non sono soltanto previdenza, sanità e scuola a rischiare di essere messe in liquidazione. E’ tutto il sistema che, senza un apporto adeguato dell’attore pubblico, è destinato a restare lontano dall’obiettivo della piena occupazione. Non a caso il mantra dei neoliberisti è la flessibilità del mercato del lavoro. Ma di grazia, cosa significa flessibilità del mercato del lavoro se non che la piena occupazione viene data per irraggiungibile?
E’ chiaro che un’ammissione esplicita al riguardo non potrà mai venire, perché se venisse farebbe emergere il vero problema: la compatibilità di un sistema economico basato sull’offerta – in cui consiste l’ortodossia liberista – con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione.
La privatizzazione quale garanzia di maggiore efficienza nella gestione dell’economia e la politica dell’offerta che ne rappresenta il logico corollario sono, allora, puramente e semplicemente, anacronistiche e l’averle seguite la causa della crisi. Esse, lungi dall’essere il volano della modernità, riportano indietro l’orologio della storia, all’Ottocento, all’epoca in cui il sistema andava incontro a crisi frequenti causate dall’insufficienza della domanda. L’evidenza è che per salvaguardare i livelli di benessere raggiunti nel secondo dopoguerra - in seguito all’attuazione di politiche keynesiane - e nel contempo diffondere i benefici dello sviluppo tecnologico bisognerebbe pompare la domanda con un’adeguata inflazione, che può nascere soltanto da salari elevati e sussidi a pioggia. Altro che elargizioni alle banche nella speranza che poi queste finanzino le imprese! Altro che riforme del mercato del lavoro mirate a facilitare i licenziamenti! Sul piano tecnico sono sciocchezze sesquipedali; sul piano politico ideologemi di destra, anzi, della destra
wasp che la sinistra, tanto più se mediterranea, con ben altra cultura alle spalle, dovrebbe combattere duramente e senza esitazioni.
Ma il fatto è che il discorso della destra wasp è stato imposto mediante il dominio sui media e sui centri del potere economico e accademico mondiale. Così viene sostanzialmente considerato senza alternative anche dalla socialdemocrazia europea. I cui leader, da Schroder, a Blair e ora a Renzi, si sono trasformati, non sappiamo quanto inconsapevolmente, in quinte colonne del nemico. Mentre i giornali pullulano di prediche di tanti Pigi Battista rivolte a una sinistra che, se vuole diventare “moderna”, deve smettere di essere sinistra. Come dire: modernità e destra sarebbero diventate la stessa cosa e la sinistra non può più coltivare l’aspirazione a cambiare, governare, indirizzare il sistema. In breve: deve lasciar fare ai mercati, limitandosi, come la politica nel suo insieme, a una funzione notarile. Con tanti saluti alla democrazia.

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(19.10.14) NELL'ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI CARMELO CORDIANI (Michele Scozzarra) - E’ già passato un anno da quel 19 ottobre del 2013, data in cui il direttore Carmelo Cordiani (familiarmente conosciuto dai galatresi come “professore Carmelino”) non è più nostro compagno di viaggio su questa terra; anche se attraverso la lettura dei tanti articoli che ci ha lasciato, possiamo continuare a dialogare con lui, e di lui, in una “presenza invisibile” che, nel suo viaggio terreno, ha lasciato tanti segni che non sono abbandonati all’oblio, ma che sono una grande testimonianza di sofferenza e di fede.
Ancora oggi, questo suo insegnamento continua a essere un grido sulla domanda principale che lo ha accompagnato per tutta la vita, cioè quello sull’esistenza di Dio e sul perché tante volte mette sul nostro cammino delle realtà che, umanamente, non è facile accettare a cuor leggero.
Esiste nella vita di Carmelo Cordiani, un filo conduttore che lega indissolubilmente la sua non facile avventura umana al cristianesimo. Seguire questo percorso, anche attraverso i suoi scritti, ci consente di tentare di capire il complesso rapporto che lui ha avuto con la sua spiritualità, con la sua ricerca del senso delle situazioni che il Signore gli ha fatto vivere.
In sostanza, tutta la sua storia, culturalmente e umanamente molto forte, che non può essere limitata e compresa soltanto nella sua carriera interamente dedicata alla scuola: sia nella sua attività di insegnante prima e dirigente scolastico dopo, che in quella che lo ha visto impegnato privatamente, nella preparazione e formazione di tanti ragazzi.
Ha partecipato attivamente, anche se discretamente, all’attività politica e sociale di Galatro, e la nostra realtà parrocchiale lo ha apprezzato per la sua presenza in Chiesa come animatore di tante attività con i ragazzi e come direttore del coro. Non posso tacere come don Gildo Albanese, in tante occasioni, mi ha sempre stimolato a scrivere proprio dell’impegno del professore Cordiani in parrocchia, dicendomi proprio che tanti momenti, che hanno visto i ragazzi della parrocchia protagonisti nella realizzazione di cori e recite, senza di lui non si sarebbero realizzati.
Il ritratto che ne viene fuori da questo “impegno” è soltanto l’immagine “esteriore” della vita di Carmelo Cordiani, che dice poco se non ci facciamo condurre nella sua, talvolta drammatica, immagine “interiore” che ne è la premessa, e il presupposto, di una terribile realtà che, nonostante ha cercato di imprigionarlo nei suoi tristi confini, non è mai riuscita a chiudergli quella finestra che lo ha immesso nella luce di Dio, che lo ha sempre sostenuto e accompagnato in ogni momento della sua vita.
La biografia umana, culturale e spirituale di Carmelo Cordiani deve essere vista e compresa sin dal “primo capitolo” del libro della sua vita: “L’uomo è un mistero. Occorre decifrarlo. E se ti ci vorrà tutta la vita per farlo, non dire che hai perso tempo. Io mi occupo di questo mistero perché voglio essere uomo”. In queste poche parole di Dostoevskij penso di poter “leggere” la vita di Carmelo Cordiani, proprio nel punto dove il “mistero” della sua “umanità ferita” si sono avvicinati a tal punto, tanto da diventare indissolubili.
Sicuramente, il primo capitolo della sua umana avventura non può essere individuato che in “Carletto”, un brevissimo racconto dove si intravede che, già nella tenerissima età, “Carletto/Carmelo” si è trovato di fronte alle domande ultime, quelle importanti e spaventose della vita (quali la vita e la morte), talvolta senza trovare una risposta, una di quelle risposte senza le quali non si può né vivere né morire: “Di quel giorno Carletto ricordava tutto: la gente accorsa a casa sua, le sorelle grandi che si strappavano i capelli, il padre che lo teneva stretto a sé dicendogli che la mamma era andata in Cielo. E si chiedeva come fosse il Cielo, se anche lì la sua mamma piangeva come gli ultimi giorni, se quel dolore che la faceva piangere le era passato, se lo sentiva quando non poteva fare a meno di chiamarla. Nessuno gli rispondeva chiaro. Anche Don Pietro gli faceva capire che è molto difficile spiegare le cose che non si vedono, dire come stava la sua mamma in Cielo, quando era stato proprio lui ad accompagnarla al cimitero, a benedire con l’acqua santa la cassa che era stata murata nella cappella. Era solo sicuro che in Cielo non si può soffrire e che le mamme, dal Cielo, continuano a voler bene ai figli piccoli. Quando le mamme si sentono morire soffrono tanto, ma, poi, tutto è diverso perché l’anima, senza il corpo è leggera ed è vicina ai suoi cari senza farsi vedere. Questo gli diceva Don Pietro. Se solo avesse potuto vederla un momento! Anche per un minuto, per convincersi che il dolore le era passato veramente, come diceva Don Pietro! Ricordava che il giorno prima di morire lo aveva fatto chiamare e se l’era tenuto un bel pezzo accanto al letto, Non gli aveva detto niente, non riusciva a dirgli niente, con gli occhi chiusi ed il respiro pesante. Durante quel tempo, però, aveva smesso di lamentarsi e Carletto pensò che tutto fosse finito e che sua mamma fosse guarita. Poi lo mandò a giocare e, dalla strada, Carletto sentì la mamma gridare dal dolore. Dopo appena tre mesi, il giorno dei morti, andò con le sorelle ed il padre ad accendere i lumini e mettere i fiori alla mamma. Quanta gente, quel giorno! I morti erano proprio tanti. La sua mamma non era sola, in Cielo. Se soffriva lei anche tanti altri soffrivano; e questo non poteva essere vero perché Gesù non può far soffrire tanta gente. Aveva sentito dire che Gesù è buono; chi è buono non può far star male la gente. Poi si accorse di una giovane donna che aggiustava i fiori su una tomba piccola e si avvicinò. La donna lo guardò senza parlare. Nessuno parlava, quel giorno, La gente stava muta e piangeva. “Anche i bambini possono morire” si disse. “Anche i bambini vanno in Cielo”. E pensava a come sarebbe bello se anche lui fosse morto insieme alla sua mamma, per starle vicino, per chiamarla e sentirla rispondere. Aveva dimenticato la sua voce e aveva tanta voglia di riascoltarla. Aveva anche un confuso ricordo dei suoi lineamenti. Ricordava il colore degli occhi, azzurro, e i capelli un po’ grigi. Il resto si perdeva anche quando chiudeva gli occhi. Guardò ancora la giovane donna che accendeva un lumino e muoveva le labbra come se stesse parlando con quel cumulo di terra. E pensava che lei aveva tanta voglia di sentire la voce di suo figlio quanta ne aveva lui di sentirsi chiamare “Carletto” da sua madre. Le rivolse due sole parole: “Cosa dice?”. “Sto parlando con mio figlio. Mi ascolta, sai. E mi risponde; io lo sento, perché i morti parlano. Non è vero che sono morti; parlano. Io parlo sempre con mio figlio e me lo sento vicino. Gli dico tutto quello che voglio. Quello che gli dicevo quando me lo tenevo accanto, quando mi faceva i dispetti, quando si sentì tanto male da chiudere gli occhi. E la sera devo dirgli che è tardi, che è ora di dormire, perché mi sento stanca e lui continua a parlarmi. Ma tu, cosa fai qui?” “C’è la mia mamma, lì, nella cappella. Ho portato anch’io fiori e lumini”. Gli occhi della giovane donna si illuminarono e Carletto si sentì una mano tra i capelli. Non fece caso alla giovane donna che aveva ripreso il suo discorso e nemmeno alla gente che gli stava attorno. La mano si fermò e Carletto capì. “Hai ragione, mamma. Come potevi dimenticare il tuo Carletto?”.
E, con il passare degli anni, “Carletto” è cresciuto… è diventato prima il Professore, poi il Dirigente Carmelo Cordiani, superando problemi enormi; ma il Signore, così come per Giobbe, anche per lui ha stabilito che il tempo della sofferenza non era finito con “Carletto”, e che fare la volontà di Dio significa anche accettare la sofferenza, in qualsiasi modo essa si manifesti. Anche attraverso la perdita di ciò che si ama di più, anche nella malattia e morte della figlia Maria.
Proprio quest’esperienza personale, drammatica, inaccettabile umanamente, dell’incurabile malattia della figlia, lo porta a interrogarsi sul senso della “sofferenza innocente” e a non sapere, e non volere, intenderla come un semplice dato naturale, o come una mera fatalità, e neanche come un segno della manifestazione o presenza di Dio.
La sua fede cristiana è messa alla prova, si interroga sui tanti “perché?” che la malattia e la morte di Maria fanno emergere nel suo animo, anche nella stanchezza che si trasforma in una tenerezza infinita che è inaccettabile alla sapienza di questo mondo e che consiste nel vedere il dolore, la sofferenza, la morte come un qualcosa che è difficile da capire e accettare. E questo emerge chiaramente nel suo articolo “In memoria di Domenico Pisano”, dove scrive: “Domenico ti chiedo un favore: cerca in Cielo una creatura tanto cara che come te ha preferito la Luce. Dille che noi siamo qui, in attesa. La nostra mente è tormentata dai tanti “perché?” che si affollano, alla ricerca inutile di una ragione. Non c’è ragione. Non c’è rassegnazione. Vogliamo uscire dal vuoto per ridare senso all’esistenza, per ritrovare la forza di concludere il resto del percorso con la speranza di entrare nella vostra Luce”.
Questo sguardo di tenerezza che esplode nel “favore” chiesto a Domenico, nonostante il proprio e l’altrui dolore, è possibile solo grazie alla fede che, nonostante i tanti “perché?” rimasti senza risposta, il professore Carmelino ha mantenuto fino alla fine.
Sono sicuro, almeno a ricordare gli ultimi dialoghi che abbiamo avuto, che la sua fede in Cristo è rimasta intatta, e penso che non siano stati pochi i momenti in cui ha tirato fuori tutta la fede che gli era rimasta, per dire alla moglie: “Marietta non piangere… Maria è con il Signore!”.
A distanza di un anno dal suo “dies natalis” ho voluto ricordare il “mistero” che ha accompagnato la vita di Carmelo Cordiani, senza minimamente cercare di interpretarlo, ma in punta di piedi, ricordare che nonostante i problemi, il dolore e la morte che gli hanno fatto tanto male, in lui non è mancata la promessa del bene, e oggi sono in tanti che lo ricordano e lo ringraziano per averli aiutati a gustare, attraverso l’arte, la musica e la cultura, le meraviglie della vita.

Nella foto, dall'alto: primo piano di Carmelo Cordiani; con una sua classe alle elementari; la figlia Maria; Cordiani all'organo della chiesa della Montagna; una sua raccolta di scritti.


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(22.10.14) RE GIORGIO, L'IDEOLOGIA E L'ARTICOLO 18 (Angelo Cannatà) - Ideologia è ogni rappresentazione che ricopra, con giustificazioni illusorie, la realtà vera dei fatti (K. Marx). Non è più di moda citare il filosofo di Treviri, ma andare controcorrente ogni tanto può essere utile.
E’ diventato un mantra insopportabile (da destra, Confindustria e maggioranza Pd): “Basta con i conflitti ideologici”. Naturalmente lo slogan nasconde un inganno: non si vogliono abolire davvero le ideologie, “le rappresentazioni illusorie”, ma lasciarne in vita una sola - il liberismo selvaggio - con facoltà assoluta (di pochi) di decidere, de-localizzare, licenziare, uccidere: non solo a Rovigo per esalazioni di acido solforico.
La classe operaia è sotto scacco, la globalizzazione e il sequestro dei poteri nazionali da parte dell’Europa, la stritola. Gli operai non hanno più diritti: non rientrano nella volontà politica di Bruxelles e negli interessi dell’alta finanza, delle grandi imprese, delle banche. Fine delle ideologie? Il contrario, vittoria assoluta del neo-liberismo e della dittatura dei mercati. L’intellighenzia si accoda, con argomenti non proprio irresistibili. Michele Ainis sull’articolo 18: “Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro” (Corriere). Che ragionamento è questo? Siccome non tutti hanno un lavoro si procede togliendo diritti a quelli che ce l’hanno. Assurdo. La lucidità di Ainis perde colpi, dopo la giusta tesi dell’anagrafe che divide.
La verità è che gli operai da tempo subiscono. Bastonati sempre. Ovunque. Non gli si dà tregua. Democrazia, stato sociale, principio d’eguaglianza: non esiste più nulla. Sono schiacciati, derisi, umiliati, nel diritto al lavoro e nel diritto alla vita: l’Ilva di Taranto è un paradigma. La fabbrica perfetta: libertà di licenziare (lo esige il mercato); e di uccidere, lo vuole l’etica (?) del profitto che non prevede impianti ecocompatibili. Costano troppo. Tempi difficili.
E tuttavia: viene nella vita di un uomo il momento di decidere da che parte stare. Intellettuali progressisti, artisti, politici di sinistra, sindacalisti, società civile, tutti sono chiamati a schierarsi. Cosa vogliono fare - il governo, Bruxelles, la troika - delle nostre vite (e delle nostre Comunità)? Siamo ancora una democrazia? Basta il diritto di voto per esserlo? E’ una foglia di fico – questa democrazia – se non si possono scegliere gli eletti, se il Parlamento non conta nulla, se decide tutto la Ue, se la cessione di sovranità ci ha spogliati di diritti fondamentali, se manca il lavoro e quando c’è viene calpestata la dignità dell’uomo: l’operaio è ridotto a schiavo. Libertà di licenziare senza giusta causa, addio Statuto dei lavoratori. L’articolo 18 è ideologia, dice l’ideologia vincente. A questo siamo.
Giorgio Napolitano - “figura istituzionale, dalla consolidata militanza progressista”, scrive Tito (Repubblica) - ha preso posizione schierandosi, come sempre, contro l’ideologia e la conservazione: il nostro Presidente, si sa, è stato per i democratici carri armati russi contro Budapest nel ’56; per la liberale Unione Sovietica contro Solzenicyn nel ‘64; per la libertà d’opinione, contro i dissidenti del “manifesto” nel ‘69; per l’incorruttibile Bettino Craxi, contro la “questione morale” denunciata da Berlinguer. Adesso - naturalmente - sta con la neutrale Confindustria, contro la Cgil e i diritti dei lavoratori. Libero di scegliere, il Presidente, per carità, ma per favore non si vendano queste posizioni come progressiste e di sinistra. Questo non è sopportabile.
Gli operai muoiono da Taranto a Rovigo nei luoghi di lavoro; chi sopravvive viene deprivato dei diritti più elementari; vige la legge del più forte e la vita di un uomo, il destino di una famiglia, non contano più nulla. Questa è la realtà – nuda e cruda – al di fuori, davvero, dal velo ideologico (Marx direbbe: dal “vestito di idee”) col quale la si copre. Fine delle ideologie? Magari. In realtà domina l’ideologia del Dio denaro: mercato, profitto, soldi. Per pochi, naturalmente. Gli altri si arrangino come possono. Abbiano il coraggio almeno - Napolitano, Renzi, Squinzi… - di non chiamare tutto questo: “progresso”. E’ offensivo. Ingiusto. Immorale.
Di Berlusconi è inutile dire. Sta accadendo esattamente quello che voleva. L’articolo 18 - già azzoppato due anni fa - viene definitivamente tolto di mezzo per mano di Renzi. Poteva andare meglio di così al Caimano? Se esiste ancora in Italia una società civile capace d’indignarsi è il momento di dimostrarlo. Lo sciopero generale oggi non è solo un diritto, è ciò che ogni cittadino libero dovrebbe avvertire – con tutta la sua anima – come un dovere. Angelo Cannatà

Articolo apparso su
micromega.net il 24-09-2014

Nella foto: Giorgio Napolitano.

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(1.11.14) LA NOTIZIA DELLA MANCATA FIBRA OTTICA A GALATRO FA ARRABBIARE IL SINDACO - Qualche giorno fa abbiamo pubblicato la notizia che Galatro non è fra i 244 comuni calabresi in cui è previsto il passaggio della fibra ottica entro il 2015. Ma forse la notizia "non andava data" perchè la cosa ha fatto arrabbiare il Sindaco che ci ha mandato, a nome dell'Amministrazione Comunale, una piccata nota da pubblicare. La pubblichiamo con la nostra risposta.

* * *

A proposito di banda larga

Con profondo rammarico – ma senza alcuna sorpresa – registriamo l’ennesima accusa non firmata che la testata Galatro Terme News porta all’Amministrazione Comunale sulla base di dati assolutamente falsi e tendenziosi.
Questa volta il pretesto è rappresentato dal Bando indetto dalla Regione Calabria per la realizzazione della rete di nuova generazione in fibra ottica ed aggiudicato a Telecom Italia.
Secondo l’anonimo redattore dell’articolo, il fatto che Galatro non sia stato inserito nell’elenco dei primi 223 Comuni calabresi in cui sarà data attuazione al progetto, sarebbe addebitabile all’Amministrazione Comunale, colpevole di non aver presentato la propria candidatura o di averla presentata senza poi sostenerla adeguatamente.
Già questo passaggio dimostra la reale finalità dell’articolo: qualunque sia la ragione dell’assenza di Galatro dal primo lotto di Comuni, la colpa è dell’Amministrazione Comunale.
Questo però non può considerarsi giornalismo ma, semmai, speculazione politica.
Un giornalista serio, infatti, prima di pubblicare una notizia, soprattutto se contenente accuse contro un soggetto o una istituzione, compie tutte le necessarie verifiche sulla sua fondatezza.
Quando ciò non avviene, e si diffondono notizie non vere, o si è dilettanti allo sbaraglio o si è in malafede.
Nel caso in questione, prima di lasciarsi andare a subdole insinuazioni, l’anonimo articolista avrebbe fatto bene a controllare, da un lato, che Galatro è regolarmente inserito nell’elenco dei 494 Comuni in cui sarà realizzata la rete in fibra ottica e, dall’altro, che la scelta dei primi 223 è stata effettuata dal Ministero per le Infrastrutture e dalla Infratel non sulla base di candidature o segnalazioni, ma secondo precisi criteri tecnici e demografici.
Detto questo, non comprendiamo a chi si riferisca l’anonimo redattore quando parla di mancanza di “sensibilità digitale”, ossia della consapevolezza che la banda larga è il futuro.
Certamente non può alludere a questa Amministrazione, visto che Galatro è – tra i comuni limitrofi – uno dei pochi che dispone già dell’ADSL a 7 Mega e che è ormai in fase di avvio il sistema Wi-Fi Comunale che coprirà l’intero centro abitato consentendo a tutti la connessione ad internet a titolo assolutamente gratuito.
Inoltre, ci è già stato garantito dall’Assessore Regionale all’Urbanistica, On. Alfonso Dattolo, che entro pochi mesi il progetto sarà esteso a tutti i Comuni della Calabria, fermo restando che Galatro, in quanto centro Termale, non potrebbe mai essere escluso.
Questi sono i fatti. Tutto il resto sono chiacchere senza senso.

Galatro 31 ottobre 2014

Per l’Amministrazione Comunale
Carmelo Panetta - Sindaco



Risposta all'Amministrazione Comunale

L’articolo de quo, tanto per cominciare, non contiene insinuazioni ma affermazioni. Che Galatro non sia nell’elenco dei comuni che fruiranno prima degli altri della banda larga è un fatto, non certo un’opinione, tanto meno un’insinuazione. Ragion per cui questa, per adesso, è la notizia, peraltro riportata dagli altri organi d’informazione con le stesse modalità, in ordine ai contenuti precipuamente informativi, di Galatro Terme News.
Quanto all’assicurazione che in futuro anche Galatro rientrerà nella banda larga, si tratta di un “non fatto” dal momento che dovrebbe accadere in un futuro indeterminato, non si sa se prossimo o remoto, futuro di cui, essendo noi un organo d’informazione e non di divinazione, preferiamo non occuparci. Del resto che occupandocene parleremmo di qualcosa di soltanto ipotizzabile e futuribile, dunque irreale, lo prova inequivocabilmente la circostanza che per la seconda fascia di comuni non esistono, allo stato, finanziamenti. Se ci fossero L’Amministrazione comunale li citerebbe. Eccome se li citerebbe!
Del tentativo di speculare sull’asserito anonimato dell’articolo non sarebbe il caso di dir nulla, tanto esso è risibile. Abbiamo chiarito in un’altra seppur simile evenienza, con un “avviso ai naviganti”, che gli articoli non firmati appartengono al giornale nella sua interezza: proprietario-editore, direttore, e redazione (regolarmente consultabili sul sito). Lo prendiamo quindi per quello che è: un’esercitazione retorica che riesce goffa e dozzinale, sottovalutando incredibilmente l’intelligenza di chi legge.
Come non sarebbe il caso di dir nulla sull’auto intestazione dell’ADSL a sette mega. Non ci risulta che si tratti di un progetto concepito, attuato e fatto finanziare dall’amministrazione in carica (come neppure, per essere chiari, da quelle che l’hanno preceduta). Quanto al WI-FI libero e gratuito per tutti, restiamo in attesa, sperando che sia breve. Dunque: di che stiamo parlando?
Penultima notazione sui “precisi criteri tecnici e demografici”: non sapevamo che il sindaco, in particolare, fosse diventato un campione d’ingenuità, ignaro di come vanno le cose del mondo. Lo conoscevamo per un tipo piuttosto smaliziato. Sono infatti rientrati nel piano comuni con un numero molto minore di abitanti rispetto a Galatro, quali Sant'Ilario dello Ionio (1307 abitanti) e Santo Stefano in Aspromonte (1262), ma anche lo stesso Giffone (1935) che ne ha solo qualche centinaio in più rispetto a Galatro (1746), per citare solo i comuni della provincia di Reggio. In provincia di Vibo la fibra ottica passerà anche per Parghelia (1304 abitanti), Polia (1046), San Nicola da Crissa (1374).
Per concludere: i nostri amministratori non fanno certo una bella figura a prendere ogni critica per “speculazione politica” rispondendo con contumelie. Ma sono ormai così abituati ad amministrare senza opposizione che hanno scambiato l’eccezione per la norma, adontandosi perché l’informazione fa il suo mestiere. Ci dispiace per loro, ma il compito che ci siamo dati non è di dire che a Galatro si vive nel migliore dei mondi possibili. Il “tutto va bene madama la marchesa” non è nel nostro stile.

LA REDAZIONE

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(13.11.14) GALATRO ESEMPIO DI MANCATA PREVENZIONE DEL RISCHIO IDROGEOLOGICO (Maria Francesca Cordiani) - La devastante ondata di maltempo che, finora, si era abbattuta nella parte centro- settentrionale del nostro Paese si è spostata anche nella nostra regione.
Ogni anno si ripresentano puntualmente le medesime scene apocalittiche: strade che si trasformano in veri e propri corsi d’acqua, automobili ammassate l’una sull’altra, abitazioni ed attività commerciali completamente distrutte ed invase dal fango. Ma sono soprattutto le numerose morti provocate dalle bombe d’acqua che colpiscono profondamente e lasciano senza parole.
Tali sciagure sono, nella stragrande maggioranza dei casi, provocate dall’esondazione di fiumi e torrenti. E' ormai evidente che la loro pulizia e messa in sicurezza dovrebbe costituire una priorità. In realtà, però, si registra ovunque la totale assenza della prevenzione del rischio idrogeologico. Galatro ne costituisce un esempio.
Infatti, nonostante le petizioni redatte dalla scrivente e sottoscritte da un gran numero di cittadini galatresi, nonché le ulteriori richieste d’intervento inviate ad organi centrali e periferici a ciò preposti, tra cui la Direzione Generale per la Tutela del Territorio e delle Risorse Idriche del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, l’Autorità di Bacino, l’Assessorato della Protezione civile, il Dipartimento Gestione delle risorse idriche della nostra Regione e la Provincia, con cui veniva sottoposta all’attenzione dei suddetti organi la necessità dell’effettuazione di lavori per la pulizia del Metramo e di messa in sicurezza dell’intera asta fluviale, a tutt’oggi il suddetto corso d’acqua continua ad essere in gran parte invaso da alberi di alto fusto di varie specie, che costituiscono un grave ostacolo al normale deflusso delle acque ed i suoi argini sono ancora in alcuni punti danneggiati.
Ciò in caso di forti piogge potrebbe causare l’esondazione del corpo idrico e conseguentemente enormi danni non solo al borgo galatrese, ma anche a molti centri della Piana di Gioia Tauro. Il fiume, infatti, secondo il Piano di Tutela delle Acque redatto dalla nostra Regione rientra tra i corpi idrici più significativi ed il suo bacino si estende su un’area complessiva di circa 234 Kmq, interessando venti comuni.
Ogni qualvolta piove il livello del Metramo si innalza notevolmente. Tale situazione rende pertanto necessaria ed urgente l’effettuazione di lavori di manutenzione e di ripulitura dell’alveo fin dalla sua sorgente. Ciò anche per la presenza della Diga che, com’è noto, sorge sul suddetto fiume e costituisce un’ulteriore fonte di potenziale pericolo per tali popolazioni, atteso che è priva delle necessarie opere di canalizzazione.
Ci si augura, quindi, che gli interventi e le opere atte a prevenire il dissesto idrogeologico vengano al più presto effettuati dagli enti preposti al fine di scongiurare qualsiasi pericolo per la collettività. Nel frattempo si continuerà a lottare per la loro realizzazione.

Nella foto: maltempo.


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(26.11.14) SE QUESTO E' UN LEADER DI SINISTRA (Angelo Cannatà) - “Renzi politico o della demagogia”. Potrebbe titolarsi così un libro sul Premier. Demagogia è parola forte, porta con sé – tra l’altro – i concetti di opportunismo e tradimento: il demagogo è, per definizione, anche colui che inganna. Renzi demagogo, opportunista, ingannatore: un attento lettore del Principe. Ma il leader del Pd – è questo il punto – può avere come modello il Segretario fiorentino? Posta la questione preliminare, andiamo al dunque.
1. Renzi ingannatore. Traditore. Il suo “Enrico stai sereno”, poco prima di pugnalare Letta, non è da meno per efferatezza (psicologica, certo, non è più tempo di omicidi politici), dell’azione di Oliverotto da Fermo che uccise lo zio Fogliani, e tutti i notabili che “li andorono drieto”. Inoltre: cos’è se non un inganno, un tradimento quel rifiutarsi ostinato (sorridente, ma brutale) di guardare nel dolore, nell’abisso di sofferenza della gente comune, mentre duetta amorevolmente con Confindustria? Insomma: da che parte deve stare, sui temi del lavoro, dell’economia, della politica, nelle questioni sociali, culturali, civili, un leader di sinistra?
2. Renzi opportunista. Trasformista. Prende i voti da Berlusconi e Verdini, ma anche da Grillo. Nella tradizione dei due forni. Vero. Ma con un’avvertenza - altrimenti siamo alle note “asettiche” e inutili di Stefano Folli -: i patti col Caimano (quelli veri) sono oscuri, segreti, indicibili; stipulati con un pregiudicato che sconta una pena e non ha una visione affidabile, democratica della cosa pubblica. Renzi vuole trattare col Condannato (ricattandolo, tra l’altro: “stai ai patti altrimenti mi alleo con Grillo”) la legge elettorale, la riforma della Costituzione e l’elezione del Presidente della Repubblica. Vogliamo continuare a chiamarla “politica dei due forni” o prendiamo atto che il cinismo assoluto ne cambia i connotati rendendola perversa, ai limiti, davvero, della sopportabilità? L’eccesso di opportunismo e segretezza e decisionismo autoritario e spavalderia, eccetera, non muta la qualità di una democrazia?
3. Renzi demagogo. E’ l’aspetto paradossalmente più inquietante, nonostante il già detto, perché ai cittadini meno avvertiti sfugge la demagogia di Renzi: gli riesce, per carattere, di camuffarla bene - nei salotti televisivi - la merce contraffatta. Eppure è visibile. Basta uno sforzo. Piccolissimo. Insomma: è possibile davvero guidare un partito di sinistra e governare in nome della sinistra deridendo la forza-lavoro e il sindacato che la rappresenta, cancellando dal proprio orizzonte concettuale la giustizia sociale? Dove sta la coerenza tra il nome e la cosa? Tra i principi e la realtà? Tra i valori e l’azione politica? Norberto Bobbio: ciò che distingue la destra dalla sinistra è “il diverso atteggiamento di fronte all’idea di eguaglianza.” (Destra e sinistra, Donzelli, p. 71). Che c’entra Renzi col principio-cardine individuato da Bobbio?
E’ sotto gli occhi di tutti: il segretario del Pd compie la più rigorosa operazione di destra che si ricordi negli ultimi 70 anni: abolisce il concetto di eguaglianza dal programma – e dalla visione – della più importante forza riformista del Paese. Uno scandalo. Insopportabile. Per chi non l’avesse capito: l’abile demagogo taglia i diritti e ne sbandiera l’estensione; promuove la precarietà e ne proclama la fine; parla di lavoro e pensa al Capitale; usa il manganello e “sta” (dice) con gli operai. Questo è l’uomo. Contesta l’accusa di thatcherismo e di fatto l’incarna, distruggendo le conquiste politiche e sociali dei decenni più maturi della nostra democrazia.
Come non vederlo: colloca il partito nell’area del socialismo europeo, ma difende in ogni circostanza - “ce lo impone la crisi” - le posizioni delle destre europee. Questo è l’uomo. Da posizioni ultraliberiste distrugge lo Stato Sociale. Siamo in presenza del capolavoro politico della borghesia imprenditrice orientata a destra: si fa rappresentare dal leader della sinistra. E’ l’odierna anomalia italiana. Più acuta e lancinante – se è possibile – di quella del Condannato che lavora alla riforma della Costituzione.
D’altronde, mentre gli operai (in carne e ossa) erano a piazza San Giovanni, il demagogo, da Firenze, consentiva al finanziere Davide Serra di cimentarsi sulla necessità di limitare il diritto di sciopero. Non significa niente che, alla fine, abbia preso le distanze. Doveva smarcarsi. Si può volere la marcia su Roma e fingere d’ostacolarla. Conta che da quella fucina di idee - si fa per dire - sia emersa la proposta oscena; che sia proprio Renzi a disperdere e cancellare, nel Partito della Nazione, valori e principi che col nazionalismo non hanno nulla a che fare.
Renzi rappresenta il nuovo? Forse:
a) se nuovo significa scavalcare il Novecento e tornare a rapporti sociali denunciati da Marx, a un lavoro da schiavi senza diritti e dignità (Grundrisse);
b) se nuovo significa svilire il dialogo (discutiamo pure, ma la mia posizione non muta e decido io). Che dialogo è se manca “il mettersi in discussione”? (Socrate);
c) se nuovo significa rifiuto della mediazione: “il governo non tratta col sindacato”;
d) se nuovo significa licenziare senza giusta causa: negare Rawls: la giustizia “è il primo requisito delle istituzioni sociali, come la verità lo è dei sistemi di pensiero”.
E’ inutile farsi illusioni: Renzi sta col Caimano ed è più pericoloso del suo socio. Questo concentrato di cinismo, opportunismo, demagogia, populismo; questa capacità, sorprendente, di tradire uomini e tradire idee non è un bene per il Paese. Col Condannato sceglierà il nuovo Presidente. Urge per la sinistra, quella vera, smettere di litigare e unirsi intorno a un leader credibile (per storia, carattere, tradizione, impegno politico). Piazza San Giovanni ha dimostrato che esiste lo spazio per una nuova azione politica. Mondo del lavoro e precari. Occupati, disoccupati, nuove povertà. Tutti insieme. E’ un’impresa degna d’essere tentata.
Post scriptum. Suscita meraviglia che Papa Francesco sia più a sinistra del segretario del Pd (“l’attenzione ai deboli e ai poveri è nel Vangelo”). In realtà – se escludiamo la trascendenza – “Il Manifesto e il Vangelo” hanno molto in comune: “sono forze ispiratrici ancora operanti secondo il ‘pragmatismo solidale’ di Richard Rorty” (MicroMega, 4/98). Il punto è che Renzi non si ispira né a Marx né a Cristo. Ha come modello Giuda: “Gesù stai sereno”.

Articolo apparso su "micromega.net" il 10 Novembre 2014

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Nella foto: Matteo Renzi.

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(29.11.14) IL VESCOVO MILITO: LA NOSTRA DIOCESI VIVE UN TEMPO "STRANO" (Michele Scozzarra) - Il Convegno Pastorale Diocesano sul tema “Il fulgore della Verità”, tenuto a Rizziconi nei giorni 7 e 8 novembre, ha chiuso per la nostra Diocesi “l’Anno della carità” ed ha aperto “l’Anno della verità”, con una solenne celebrazione presieduta dal nostro Vescovo Mons. Francesco Milito nella cattedrale di Oppido sabato 15 novembre.
Non si può nascondere che è un tempo “strano” quello che sta vivendo la nostra Diocesi negli ultimi mesi: l’ha detto apertamente Mons. Milito all’apertura dei lavori a Rizziconi, facendo ben capire che non si riferiva certamente alle ”condizioni metereologiche”.
In tutte queste “stranezze”, in cui il Diavolo ci sta mettendo molto del suo, la nostra realtà diocesana è messa a una dura prova: una prova nella quale non bisogna essere “tiepidi o paurosi”, ma bisogna tirare fuori tutto il coraggio che abbiamo dentro.
Il Cardinale Ratzinger, poco prima che venisse eletto Papa, più volte in diverse occasioni ha detto che abbiamo “nuovamente” bisogno di metterci alla ricerca della verità, abbiamo “nuovamente” bisogno del coraggio della verità.
Visto il grande silenzio che abbiamo intorno (non mi pare che del Convegno ci sia stata chissà quale grande eco, così come per quelli degli anni passati!), visto il grande deserto che sta avanzando davanti a noi, rimbombano con grande forza le parole di Ratzinger, quando dice “che ci manca il coraggio della verità”.
Per certi versi può anche essere triste, stucchevole e deprimente che per affermare la verità, per affermare come stanno le cose, ci voglia coraggio; però è ancora più evidente che senza questo coraggio non si viene a capo della crisi nella quale la Chiesa, non solo nella nostra Diocesi, si dibatte da anni.
La retorica dei giochi linguistici e tutti ugualmente possibili, il pensiero debole incapace di qualsiasi giudizio a difesa della vita della Chiesa, hanno distrutto sia la verità che la realtà e si apprestano anche a distruggere la libertà… e, quindi, la verità! La realtà che ci circonda ha perduto ogni sua stabilità, così almeno sembra… visto che nessuno parla dell’incidenza nel reale di ciò che la Chiesa deve avere più a cuore, la persona stessa di Gesù Cristo.
Il coraggio della verità non può passare attraverso insipidi e sdolcinati link su facebook, che non fanno storia e non aiutano certamente ad indicare quella Via, Verità e Vita che solo in Gesù Cristo può trovare risposta. Ci affanniamo per “costruire” una realtà della Chiesa che sta in un modo, ma potrebbe stare indifferentemente anche in un altro.
Lo stesso possiamo dire anche dei nostri discorsi: sembra insomma che non ci sia alcun criterio che ci consenta di distinguere quelli veri da quelli falsi. Discorsi puramente prospettici, mobili, indifferenti e purtroppo è di questi discorsi, di questi pregiudizi che si nutre anche l’odierno dibattito sulla vita della Chiesa nelle nostre realtà.
Perché negare che affiorano sensazioni strane, in certe zone del mondo cattolico. Lo si è visto bene, per esempio, in occasione del Sinodo sulla famiglia. Non tanto per quanto è successo in aula, nel dibattito tra i padri sinodali sulle “nuove sfide” la vita familiare, ma in molti commenti circolati tra stampa, blog e siti vari. Sono commenti che segnalano uno smarrimento, un ritrovarsi spiazzati… come se, per il fatto stesso di discutere di certi temi in modo aperto, la Chiesa corresse il rischio di smarrire la rotta. Come se accompagnare l’umanità ferita e dispersa di oggi fosse sinonimo di perdersi, a propria volta nel caos.
Perché se è vero che la realtà ci mette davanti a sfide impensabili, fino a pochi anni addietro: e “impensabili” vuol dire proprio “non immaginabili”, non previste prima, non assumibili immediatamente nelle categorie che abbiamo già in testa.
Da questa prospettiva, l’ultimo Sinodo sulla famiglia ci ha dimostrato, in tutte le sue umane contraddizioni, che il problema dell’adesione alla “Verità di Cristo” che la Chiesa ci indica, sta nel riuscire a restare fedeli in una “continuità evangelica” che non permette né ritorni all’indietro, né fughe in avanti, né nostalgie anacronistiche, né impazienze ingiustificate. Difendere oggi la Tradizione vera della Chiesa significa difendere il Concilio, senza riserve che lo amputino. E senza arbitri che lo sfigurino.
Così come per i saggi dell’Aeropago di Atene, ogni epoca, compresa la nostra, conosce il sorriso di scherno degli intellettuali di Ares, e guarda con sufficienza gli “ingenui” che sognano la libertà di una vita più bella e più vera: “Di questo ci parlerai un’altra volta…”, risposero ironici gli intellettuali di Atene, sulla collina di Ares, a San Paolo che raccontava del Cristo risorto. Eppure quella era gente che dedicava tutto il suo tempo a parlare di qualcosa, oppure ad ascoltare qualche novità, credevano a tutte le divinità e, per non recare offesa a qualche divinità ignota, avevano innalzato anche un altare sul quale campeggiava l’iscrizione: “Al Dio sconosciuto”.
Il 7 novembre sono intervenuto, brevemente, al Convegno Pastorale Diocesano di Rizziconi: il breve tempo a disposizione mi ha impedito di entrare nello specifico, cioè come anche nelle nostre piccole realtà, non è necessario andare lontano per cercare il nuovo Aeropago di oggi, ce ne sono tanti, grandi e piccoli, a cominciare dall’Ares “politico”. Nell’ordine di valori stabilito dal potere, purtroppo, il metro “politico” continua a rappresentare il criterio in base al quale è misurata la vita. In ultima analisi, si cerca di far passare la convinzione, anche all’interno della Chiesa, che solo ciò che è politico rappresenta “la verità”: dunque è reale solo chi ha il potere e reali sono i “sudditi”, non in quanto uomini, ma perché visti come strumenti e, spesso, come vittime dello stesso potere che li dovrebbe tutelare… il più delle volte questa menzogna viene perpetrata in nome di una “verità”, che massacra i più deboli… i “poveri cristi”!
Questa situazione è apparsa in tutta la sua chiarezza, nello scontro che si creò fra Cristo e Ponzio Pilato: al “politico” cui interessava solamente verificare se l’accusato che gli stava davanti fosse o no da considerarsi suo “avversario” (“Dunque tu sei re?…”, chiede Pilato), Cristo risponde rivelandogli tutta la realtà del suo essere “venuto al mondo per rendere testimonianza alle verità”. Al che Pilato, sicuramente disorientato, ribatte con una frase che rimbalzerà nei secoli: “Cos’è la verità?”.
Nella domanda di Pilato, come del “politico”, vi è un senso ambivalente, quasi a significare: “cosa c’entra qui, adesso, la verità? Mi interessa altro, questa faccenda non mi riguarda”. E può anche voler dire: “la questione è teorica, astratta, non è reale”. Nell’una e nell’altra versione Pilato pronuncia sulla verità una sentenza che resterà, per tutta la durata della storia, il paradigma, definitivo ed irrevocabile, dell’atteggiamento politico di fronte al manifestarsi di una Verità che trascende la dimensione politica.
Ma nell’uno e nell’altro caso, Pilato commette un errore “politico” di eccezionale gravità: Pilato è stato così astratto, da non riuscire ad avere, di fronte a Cristo, altro criterio che quello politico, né altra determinazione che quella del potere e questa astrazione lo portò a commettere l’orrendo delitto. Qualcuno potrebbe giustificare Pilato attribuendogli la qualità di “pessimo politico”… anche se oggi, a distanza di 2000 anni, si ripete ancora, secondo lo stesso archetipo il conflitto tra la verità e la menzogna: ovunque nel mondo gli uomini del potere si scontrano in un conflitto sempre più violento con gli uomini della Verità. La lotta per il diritto alla vita nella verità, e per la conquista di spazi per fatti di vita vera, è diventata oggi la lotta decisiva per la sopravvivenza e, spesso, per la resurrezione dell’uomo. La menzogna non ha altro mezzo per imporsi che il sopruso, la violenza, la delazione, la vendetta; cioè per imporsi, la menzogna deve operare una manipolazione della realtà… e quindi della verità!
Da noi, oggi, in tutti quegli ambiti dove “il potere” copre la sua pretesa totalitaria con sempre più scaltre apparenze di rispetto, può sembrare che l’alternativa verità-menzogna non imponga scelte radicali: occorre che la voce dei “senza potere” si faccia così potente da ricondurre il potere dentro i confini che la verità gli assegna.
Solo questa può essere la strada per uscire dalla gravissima crisi che attanaglia la nostra realtà, anche all’interno della stessa Chiesa, e rischia di sgretolarne i fondamenti morali e culturali… perché il suo centro non è più Gesù Cristo.


Nelle foto, dall'alto in basso: mons. Francesco Milito, logo del convegno, Michele Scozzarra durante l'intervento, il tavolo dei relatori, il pubblico in sala.


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(4.12.14) LE TERME NON INTERESSANO PIU' A NESSUNO, O SBAGLIO? (Rino Dell'Ammassari) - Le terme sono ormai un argomento che a quanto pare non interessa più a nessuno, o sbaglio? Ho questa impressione. Eppure ci sono fermenti tra l'attuale gestore sig. Trimarchi e l'Amministrazione comunale, o sbaglio? Come mai non c'è argomentazione politica tra la gente, non se ne parla, considerando l'importanza di questa nostra risorsa?
Questo sig. Trimarchi pare che non paghi quanto dovuto al Comune, licenzia e assume come il padrone delle ferriere, inoltre che fine ha fatto il sig. Smedile? Società al 50% della gestione termale?
Cosa sta succedendo? Tra poco più di un anno scade il contratto dei 15 anni di gestione, ed il gestore come da prassi chiederà (un anno prima) ulteriori 15 anni, cosa farà il Comune?
Acconsentirà al rinnovo? Risponderà di no, e si riprenderà le terme decidendo poi in un secondo momento il da farsi? Sono domande che ognuno di noi dovrebbe porsi, cioè avere maggiore interesse su quanto accade, o accadrà. Ritengo che le terme siano l'unica risorsa per Galatro, o almeno quella più importante.
A distanza di 15 anni non posso sicuramente fare un bilancio positivo di questa gestione, la quale non ha prodotto un minimo di interesse al paese, né come indotto, né come occupazione.
Ne deduco che l'attuale gestione non è in grado di fare il proprio mestiere, e quindi vada licenziata da subito, senza perdere ulteriore tempo! Mi pare che ci siano le condizioni per farlo.
Non so cosa succederà, ma certamente solo il Comune a mio parere può farsi carico della gestione, poichè è attore diretto interessato al paese, un forestiero ama solo fare profitto fregandosene dei galatresi che invece hanno bisogno di incrementare le loro risorse.
Parliamone, discutiamo sul da farsi, tutti noi siamo i diretti interessati.

Nella foto: bagno in piscina alle terme di Galatro.


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(24.12.14) SE MEDITARE L'INCARNAZIONE E' UNA QUESTIONE BIZANTINA (Pasquale Cannatà) - Ricordo una scena del film “Il nome della rosa” tratto dall’omonimo romanzo di Umberto Eco in cui alcuni frati francescani si domandavano se Gesù era proprietario della tunica che indossava: secondo loro, essendo Egli povero tra i poveri, non avrebbe dovuto possedere neppure quella!
Mi sembra che questo sia un classico esempio di bizantinismo, cioè di una discussione futile fatta mentre ci si dovrebbe occupare di problemi più importanti, allo stesso modo in cui alcuni teologi, mentre Costantinopoli era sotto assedio da parte degli arabi nel 674, si chiedevano se Gesù, alla destra di Dio, fosse seduto o in piedi, oppure si interrogavano su quale fosse il sesso degli Angeli.
Non sono propriamente questioni bizantine, ma non centrano il cuore del problema, le argomentazioni di quegli atei che negano l’esistenza di Dio perché nel mondo esiste il Male e per il fatto che molti sacerdoti e vescovi non testimoniano la fede con la loro vita: sarebbe invece importante, si centrerebbe cioè il cuore del problema, domandarsi se è più ragionevole credere all’esistenza di un Dio creatore dell’universo o che questo sia nato dal nulla per puro caso, prima di condannare il cristianesimo facendo le pulci ai vari dogmi della fede.
Blaise Pascal dava il 50% di possibilità alla fede, ma il suo cuore era per il si alla creazione;
Joseph de Maistre chiedeva ai suoi ospiti: «Si può concepire il pensiero come accidente di una sostanza che non pensa?», e dando una risposta negativa spostava la bilancia dalla parte di Dio;
io, nel mio piccolo, vedendo le animazioni di alcuni dinosauri dalle forme più strane che si muovono goffamente con movenze improbabili e ridicole, sarei tentato di credere alle teorie ateiste perché mi rifiuto di pensare che Qualcuno abbia potuto creare esseri simili, ma lo splendore della Verità annunciata nei Vangeli e la ragione scientifica mi spingono a credere in Dio.
Infatti, per quel che riguarda la teoria su come è cominciata la vita sulla terra, autorevoli scienziati hanno calcolato che anche se si è riusciti a riprodurre in laboratorio alcuni aminoacidi (che sono i mattoni con cui si costruiscono le proteine, le prime e più piccole forme di vita in grado di auto replicarsi) partendo da materia non organica, è estremamente improbabile, e cioè praticamente impossibile, che questi si siano concatenati per caso nel numero minimo (32) e nel giusto ordine necessario a dare origine ad una proteina. Tale probabilità è valutata in 10 elevato alla 41a potenza, una probabilità ancora più difficile da verificarsi di quella che avrebbe una scimmia che messa davanti ad una macchina da scrivere componesse la divina commedia senza alcun errore battendo a caso sui tasti.
Mettiamo queste probabilità in prospettiva: se prendessimo tutte le proteine presenti in tutte le foreste pluviali del mondo e le dissolvessimo tutte in un brodo di aminoacidi, sarebbe comunque ampiamente improbabile che si formasse una catena di trentadue aminoacidi. In effetti, ci vorrebbe una quantità cinquemila volte superiore per formare una di quelle catene. Cinquemila foreste pluviali. Quindi, come passiamo da una poltiglia di aminoacidi a quel primo moltiplicatore, il primo pezzo di vita?
Un’équipe di professori di Yale ha appurato che il tempo necessario perché delle reazioni chimiche casuali dessero vita a un semplice batterio unicellulare non solo supera l’età della Terra, che ha 4,5 miliardi di anni, ma perfino quella dell’universo (15 miliardi di anni). E stiamo parlando di un semplice batterio unicellulare: se tutto questo vale per un semplice organismo unicellulare, cosa si deve dire di un moscerino che al confronto è un essere immensamente più complesso e strutturato? E per un uomo?
Il teologo Vito Mancuso concorda con gli atei sul fatto che l’universo era caos all’inizio dell’espansione, ma sostiene che se da questo caos si è poi arrivati all’ordine ciò è dovuto al fatto che forse “prima” del caos, forse “sopra” il caos, di sicuro “dentro” il caos, come principio ordinatore c’era e c’è il logos. Questa convinzione si è rafforzata in Mancuso anche dalla lettura di un libro dell’astrofisico britannico Martin Rees che parla dei sei numeri fondamentali della fisica (i quanti di energia, di luce, di materia, ecc.): ognuno di questi sei numeri potrebbe essere leggermente diverso da com’è, e in questo caso la vita non sarebbe sorta. Si tratta di un caso, si chiede il teologo, che essi siano esattamente come sono, oppure sono stati posti esattamente così da un ente necessario, causa prima del tutto e che gli uomini chiamano Dio? L’energia non è rimasta allo stato caotico dell’inizio, conclude Mancuso, perché le forze fondamentali che la muovono sono governate in ogni istante da una logica primordiale che tutte le grandi civiltà hanno riconosciuto, i greci chiamandola logos, i cinesi tao, i giapponesi shinto, ecc.
Altra considerazione: tutto ciò che esiste non può prodursi da se (nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma diceva lo scienziato/filosofo Lavoisier), altrimenti dovrebbe agire prima di esistere, il che è assurdo! Quindi ci deve essere una causa esterna creatrice di tutto l’universo, attraverso il big bang o in qualsiasi modo Egli abbia voluto fare: questo “ente necessario” noi lo chiamiamo Dio.
Si potrebbe concludere che la vita non si sviluppa in modo semplice, automatico e casuale, ma risponde ad un progetto chiaro e preciso!
L’ultima teoria (detta delle stringhe) accreditata in ambiente scientifico mondiale, dice che fu un suono o una “vibrazione” che ha innescato il “Big Bang”, il fenomeno da cui ha avuto inizio la creazione di tutto l’universo. Ecco un punto in comune tra creazionismo ed evoluzionismo: credo fermamente che a dare origine a tutto sia stato il suono della Parola di Dio, come è scritto all’inizio della Genesi: «Dio disse: sia la luce! E la luce fu».
In sostanza, la favoletta del "caso" è una spiegazione dell’origine dell’universo meno probabile della creazione da parte di una Intelligenza superiore.
Dopo questa riflessione sul nocciolo del problema, possiamo addentrarci in qualche punto particolare che magari qualcuno potrebbe giudicare un bizantinismo.
- Per prima cosa riporto un articolo di Vittorio Messori su quando nacque Gesù. Anche grazie ai documenti di Qumran, potremmo essere in grado di stabilire con precisione che Gesù è nato proprio un 25 dicembre e che la nostra festa non sostituisce semplicemente quella pagana della rinascita del Sol invictus. Una scoperta veramente straordinaria e che non può essere sospettata di fini apologetici cristiani, visto che la dobbiamo a un docente, ebreo, della Università di Gerusalemme. Vediamo di capire il meccanismo, che è complesso ma affascinante. Il Vangelo di Luca si apre con la storia dell’anziana coppia, Zaccaria ed Elisabetta, ormai rassegnata alla sterilità, una delle peggiori disgrazie in Israele. Zaccaria apparteneva alla casta sacerdotale e, un giorno che era di servizio nel tempio di Gerusalemme, ebbe la visione di Gabriele (lo stesso angelo che sei mesi dopo si presenterà a Maria, a Nazareth) che gli annunciava che, malgrado l’età avanzata, lui e la moglie avrebbero avuto un figlio. Dovevano chiamarlo Giovanni e sarebbe stato “grande davanti al Signore”. Luca ha cura di precisare che Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abia e che quando ebbe l’apparizione “officiava nel turno della sua classe”. In effetti, coloro che nell’antico Israele appartenevano alla casta sacerdotale erano divisi in 24 classi che, avvicendandosi in ordine immutabile, dovevano prestare servizio liturgico al tempio per una settimana, due volte l’anno. Sapevamo che la classe di Zaccaria, quella di Abia, era l’ottava, nell’elenco ufficiale. Ma quando cadevano i suoi turni di servizio? Nessuno lo sapeva. Ebbene, utilizzando anche ricerche svolte da altri specialisti e lavorando, soprattutto, su testi rinvenuti nella biblioteca essena di Qumran, ecco che l’enigma è stato violato dal professor Shemarjahu Talmon che, come si diceva, insegna alla Università ebraica di Gerusalemme. Lo studioso, cioè, è riuscito a precisare in che ordine cronologico si susseguivano le 24 classi sacerdotali. Quella di Abia prestava servizio liturgico al tempio due volte l’anno, come le altre, e una di quelle volte era nell’ultima settimana di settembre.
Dunque, era verosimile la tradizione dei cristiani orientali che pone tra il 23 e il 25 settembre l’annuncio a Zaccaria. Ma questa verosimiglianza si è avvicinata alla certezza perché, stimolati dalla scoperta del professor Talmon, gli studiosi hanno ricostruito la “filiera” di quella tradizione, giungendo alla conclusione che essa proveniva direttamente dalla Chiesa primitiva, giudeo-cristiana, di Gerusalemme. Una memoria antichissima quanto tenacissima, quella delle Chiese d’Oriente, come confermato in molti altri casi. Ecco, dunque, che ciò che sembrava mitico assume, improvvisamente, nuova verosimiglianza. Una catena di eventi che si estende su 15 mesi: in settembre l’annuncio a Zaccaria e il giorno dopo il concepimento di Giovanni; in marzo, sei mesi dopo, l’annuncio a Maria; in giugno, tre mesi dopo, la nascita di Giovanni; sei mesi dopo, la nascita di Gesù. Con quest’ultimo evento arriviamo giusto al 25 dicembre. Giorno che, dunque, non fu fissato a caso: dopo tanti secoli di ricerca accanita i Vangeli non cessano di riservare sorprese. Dettagli apparentemente inutili (che c’importava che Zaccaria appartenesse alla classe sacerdotale di Abia? Nessun esegeta vi prestava attenzione) mostrano all’improvviso la loro ragion d’essere, il loro carattere di segni di una verità nascosta ma precisa. Malgrado tutto, l’avventura cristiana continua.
- Mentre i cristiani credono che il Dio onnipotente si sia incarnato in Gesù Cristo, gli atei, pur sapendo che noi piccole creature abbiamo inventato la “realtà virtuale” per mezzo della quale possiamo “entrare” in un gioco e muoverci in un mondo diverso da quello in cui viviamo, non credono possibile che esista un Dio che può entrare nel nostro mondo da Lui creato. A chi volesse obiettare che quando l’uomo opera nella realtà virtuale è in effetti ben piantato su questa terra (il corpo del giocatore che respira e la sua mente che agisce al di fuori di esso sono una cosa sola), ricordo che, quando Gesù Cristo afferma che “alcune cose le conosce solo il Padre”, ci ha già resi partecipi del fatto che anche e prima di tutto in Dio esiste questa dualità di quelli che potremmo definire “livelli operativi” , ribadendo però che “Lui e il Padre sono una cosa sola”: Gesù è vero Dio e vero uomo, così come il giocatore della realtà virtuale è vero uomo e vero personaggio.
- Alcuni si rifiutano di credere perché ritengono impossibile che Dio possa ascoltare 24 ore su 24 le preghiere di tutte le persone vive sulla Terra e conoscerle una per una. Vorrei far presente a questi non credenti che ormai la tecnica consente di costruire computer portatili con processori da 4,2 Ghz, capaci quindi di fare più di 4 miliardi di operazioni algebriche al secondo! Non parliamo poi dei supercalcolatori, che sono un insieme di processori organizzati in modo da gestire un totale di carichi di lavoro eccezionale e sono in grado di superare i 1.000 Ghz, cioè di fare più di mille miliardi di operazioni al secondo! E allora, mentre i cristiani credono che esista Dio e che Lui ci conosce uno per uno e ci ascolta tutti, gli atei, pur sapendo che noi esseri umani siamo in grado di creare oggetti che operano centinaia di miliardi di volte al secondo e sono capaci di tenere in memoria altrettanti miliardi di informazioni, non concepiscono un Dio che ogni istante può conoscere tutto di pochi miliardi di creature che vivono in questo mondo da Lui creato ed interagire con loro: può un oggetto creato dall’uomo, fatto di plastica, metallo e silicio, essere più potente di Dio che ha fatto l’uomo, il silicio, il metallo e tutto quello che l’uomo usa per le sue creazioni?


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(24.12.14) NATALE 2014: ALLA RICERCA DI UN CRISTO "VIVO" (Michele Scozzarra) - Sono davvero un cattivo cristiano: questo Gesù di Nazareth, proprio non lo capisco... forse perché avrei preferito vederlo profeta armato, vittorioso in Gerusalemme come nella domenica delle Palme, anziché solo, nato in una mangiatoia, con accanto un asino e un bue; ma fin dalla nascita sono stato legato a Lui e, militarmente, sarò fedele alla mia consegna, aspettando che vinca e torni nella gloria. E sforzandomi di credere che possa davvero vincere, in un mondo che oggi, ben più profondamente di quanto abbia fatto quando è spirato in croce, lo ha abbandonato. E' appunto per questo che io, che regolarmente riesco ad abbracciare delle cause perse, in questo Natale dell'Anno del Signore 2014 voglio rivolgere il mio pensiero ai grandi perdenti dei nostri giorni: penso ai malati abbandonati in casa e nelle corsie di ospedale... penso alla solitudine di tanti nostri anziani ed anche di tantissimi giovani, alle ansie e mortificazioni di tanti genitori per i loro figli... penso allo scoramento e alla disperazione dei disoccupati, alle frustrazioni di tanti giovani che non riescono ad inserirsi nella società... penso ai tanti cristiani perseguitati e uccisi ingiustamente in tutto il mondo. E penso anche ai tanti poveri, che in contrappeso a un mondo si sperperi e di inutili sprechi, muoiono a migliaia per la fame, così come muoiono ingiustamente i poveri cittadini di tanti paesi ancora in guerra, che non riescono a trovare il modo di porre fine a tremendi e inutili spargimenti di sangue.
Di fronte a queste considerazioni, come non ricordare le prime nozioni del catechismo, quando ci veniva detto che Gesù è venuto sulla terra, si è immerso nella condizione umana per condividere la fatica, il dolore... ed anche la gioia dell'uomo!
Per questo è sempre più evidente, ogni giorno che passa sempre di più, che la Chiesa (sia in piccole realtà come quelle dei nostri paesi, che nelle grosse metropoli) o si pone come una realtà viva e “incarnata” dentro la società, o viene ridotta ad essere strumento di consenso e di appoggio ai vari “potenti” che si alternano nei diversi ambiti “dell’unico” diabolico potere. Oggi questa “incarnazione” di Cristo, che nel Natale si fa memoria e compagnia di Dio all’uomo, spesso viene dimenticata degli stessi cristiani. Anzi, diabolicamente, questa riduzione di Cristo ad uno spirito, ad un fantasma lontano dalla vita reale degli uomini, è sempre più considerata funzionale all’efficacia sociale del “messaggio cristiano”.
Si è rinunciato alla “carne e ossa” di Cristo (quella per cui è possibile oggi vivere il Natale!) pur di conservare il diritto di cittadinanza nel mondo secolarizzato ad un cristianesimo solo della parola e dell’etica. In realtà, nulla di decisivo porta agli uomini un “cristianesimo senza Cristo”, senza un Cristo vivo che sia possibile incontrare e seguire oggi.
Ricordo che ci veniva detto anche che a Natale si fa "festa" per rendere gloria a Colui che, venuto duemila anni fa, continua a entrare dentro la Storia degli uomini con una domanda di cambiamento, con un annuncio di pace e di giustizia. Per questo, nonostante tutte le crudeltà del mondo, nonostante tutti gli scandali... nonostante la nostra "poca fede", si può fare festa lo stesso, soprattutto in modo semplice, come quei poveri pastori della Palestina, che in una notte di duemila anni fa, si sentirono chiamare da un Angelo... si fidarono e seguitolo si imbatterono in una presenza straordinaria che ha cambiato le loro vite.
A noi, come a quei poveri pastori, l’Angelo ci chiama ancora, dopo più di duemila anni il lieto annuncio si diffonde ancora nel nostro mondo, e noi siamo chiamati ad andare e vedere.
Buon Natale a tutti…


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