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26.7.11 - La festa di San Pantaleone a Limbadi
Michele Scozzarra

10.8.11 - Flores D'Arcais, Ratzinger e Gesù
Angelo Cannatà

17.8.11 - La crisi e la cura neoliberista
Domenico Distilo

24.8.11 - I partiti, la politica e la società civile
Angelo Cannatà

3.9.11 - Il berlusconismo al tramonto: inventario dei danni
Domenico Distilo

5.9.11 - Scalfari, D'Arcais et similia
Pasquale Cannatà

10.9.11 - Riapre la scuola: non servono burocrati ma adulti appassionati
Michele Scozzarra

11.9.11 - Strada chiusa per lavori ma... la sicurezza?
Francesco Distilo

29.9.11 - 30 cose che non si capiscono
Domenico Distilo





(26.7.11) LA FESTA DI SAN PANTALEONE A LIMBADI (Michele Scozzarra) - Si rinnova il 27 luglio di ogni anno, a Limbadi, il tradizionale appuntamento con la Festa in onore di San Pantaleone: meta di migliaia di pellegrini, che giungono da ogni parte del comprensorio, questa festa si presenta come uno dei più importanti momenti della tradizione cristiana di tutto il vibonese.
Esattamente venti anni addietro, nel luglio del 1991, grazie alla gentilezza e cortesia di una nostra cara, e compianta, compaesana sposata a Limbadi, la Signora Caterina Vinci-Trungadi, che mi ha permesso di poter riprodurre tante fotografie in suo possesso, ho realizzato un servizio sulla festa di San Pantaleone a Limbadi, che ho pubblicato sul giornale “Proposte”.
Oggi, mi piace riproporre lo stesso articolo per i lettori di Galatro Terme News, sia come un affettuoso ricordo della cara “Signora Catuzza”, che come omaggio a mia moglie che, limbadese trapiantata a Galatro, non ha mai perso il senso dell’appartenenza alla sua comunità, di cui la storia che circonda la figura di San Pantaleone rappresenta una delle pagine più significative della storia di Limbadi.

IMMAGINI DI UNA STORIA SEGNATA DALLA FEDE

Lungo tutta la Penisola, nei mesi estivi, si apre il tempo delle vacanze, della villeggiatura, del ritorno alle proprie radici. Per molti, il centro di queste feste è dominato dalla festa patronale. Non c’è paese, anche tra i più piccoli, che non ha i suoi momenti di festa, carichi di progetti, di manifestazioni: processione, panegirico, illuminazione, fuochi, banda, ecc.
La festa in onore del Patrono rivela cosa rappresenta un Santo per il popolo cristiano. In particolare, per quanto andiamo a scrivere, che cosa rappresenta San Pantaleone per il popolo limbadese. Provate a leggere la storia di Limbadi senza tenere conto della devozione di questo popolo per il “suo” Santo: verrà fuori qualcosa di monco, perché anche volendo ignorare la figura del Santo, c’è una memoria storica, nella gente di Limbadi, che lo rende presente, anche quando nessuno più racconta la sua storia e lo indica come esempio per le sue virtù.
Avere a cuore questa memoria, per molti, vuol dire avere la forza di andare più a fondo nella storia in cui si è inseriti, ricercare la propria origine, incominciare a vedere le cose che ci stanno intorno in maniera diversa, cercando di capire il valore delle cose ed i segni che essi rappresentano.
Oggi, a molti appare chiaro come ci troviamo inseriti in un contesto culturale “critico”, in cui si rischia di perdere, insieme ai segni, anche il contenuto che essi trasmettono: occorre ricomprendere, alla luce della fede, tali segni per conservarne il significato.
Anche le fotografie rappresentano un’espressione culturale importante: racchiudono il “cuore” dei momenti più significativi della festa, facendo sopravvivere nelle immagini, ciò che il tempo, inesorabilmente, va a distruggere.
E nelle foto che fanno da cornice a questo scritto, l’obiettivo del fotografo, quasi sempre dilettante, ha colto i significati, le emozioni ed i sentimenti più intensi della devozione dei limbadesi verso San Pantaleone: in queste foto è rappresentata tutta una umanità, da sempre presente nel popolo cristiano, che testimonia il significato di una vita segnata dalla fede.
La pubblicazione di queste immagini non vuole essere solo il ricordo nostalgico di un tempo ormai, inevitabilmente, andato, né il recupero sentimentale delle radici più autentiche di un popolo; vuole invece testimoniare il miracolo di un’umanità schietta e semplice, essenziale e vera, dove ogni particolare è ricondotto ad un tipo di fede che è anche capace di esprimere un giudizio sulla vita.
Promuovere, per conservare e trasmettere, la conoscenza dei riti cristiani, nella consapevolezza che le radici della nostra civiltà e della nostra umanità sono largamente segnate dalla fede, vuol dire promuovere una cultura compiutamente umana, diversa da quella che gran parte dei nostri mezzi d’informazione diffondono, capace di riportare e riconciliare ogni uomo con le sue radici più autentiche.
Una cultura comune ha sviluppato, infatti, paese per paese, strada per strada, delle vicende affascinanti legate alla devozione verso i Santi patroni. E’ questo fascino che oggi vogliamo riproporre con queste immagini e con la loro storia, con dei modi e dei volti che ormai appartengono ad un passato che non ritornerà.
Ogni immagine, pregevole o comune, ha una sua storia, legata alla fede, legata alla gente semplice che esprime la sua devozione verso il Patrono.
La festa e la devozione dei limbadesi verso San Pantaleone hanno radici lunghissime, e sono radici profondamente cristiane che fanno sì che chi partecipa alla processione, non faccia solo una lunga e massacrante passeggiata, ma sia aiutato a compiere questo gesto con una consapevolezza ricca di memoria, di storia e di fede, capace di vagliare, comprendere e valorizzare il grande patrimonio di cultura cristiana presente nella semplicità della fede del popolo limbadese.
E, speriamo che nulla della bellezza che contempliamo attraverso le foto, così come sono state vissute e scoperte da chi ha “fotografato” quei momenti vada perduto, ma venga ricondotto al suo vero significato.














Nelle foto: immagini storiche della festa di San Pantaleone a Limbadi.


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(10.8.11) FLORES D'ARCAIS, RATZINGER E GESU'* (Angelo Cannatà) - Sono passati alcuni anni da quando Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, ha pubblicato sulla sua rivista Le tentazioni della fede (undici tesi contro Habermas), testo formidabile, ricco di riflessioni lucide e acute: nella quinta tesi spiega le implicazioni (sul piano pratico) del sentirsi portatore di una verità assoluta: “Habermas insiste sulla presunta persecuzione dei credenti: ‘Gli oneri della tolleranza - dice - non sono ripartiti simmetricamente fra credenti e non credenti, come dimostrano le norme più o meno liberali sull’aborto’.” E’ vero il contrario – commenta Flores. “Ogni legge occidentale sull’aborto non costringe nessuna donna. Mai. La lascia libera di scegliere. E’ invece Ratzinger che vuole imporre alla donna non credente un divieto penalmente sanzionato”.
Il senso del ragionamento è chiaro: “la presunta asimmetria laica (di cui parla Habermas) lascia liberi i cittadini credenti di utilizzare o meno un diritto. L’imposizione del punto di vista credente attraverso la legge costringe invece il non credente, cui è precluso di fare tutto ciò che il papa ritiene ‘peccato’, pena la galera”. E’ un ragionamento logico, stringente; ed è come esempio di uno stile di pensiero che qui viene citato. Paolo Flores d’Arcais è protagonista della scena culturale italiana ormai da molti anni, non solo per i puntuali interventi su MicroMega, ma anche per le pubblicazioni - di notevole valore: Etica senza fede, Einaudi; Il sovrano e il dissidente, Garzanti; Hanna Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Fazi; Albert Camus filosofo del futuro, Codice Edizioni.
Oggi è nelle librerie, e nella classifica dei libri più venduti, con Gesù. L’invenzione del Dio cristiano (add editore, p. 127, 5 euro). Di cosa parla quest’ultimo lavoro? Il sottotitolo è chiaro: l’invenzione del Dio cristiano. Bisogna aggiungere che il testo è un tentativo – a nostro avviso riuscito – di decostruire (e smascherare) le argomentazioni di Joseph Ratznger su Gesù. Si tratta di un libro divulgativo - è Flores stesso a dirlo - che sulla scorta della più aggiornata storiografia, “mostra come Gesù di Galilea non abbia nulla a che fare con il Cristo, Seconda Persona della Trinità, che la Chiesa ha dogmatizzato all’inizio del quarto secolo.” Gesù era solo un profeta ebreo che proclamava l’incombente fine del mondo e l’avvento del Regno di Dio: “mai si proclamò ‘messia’ - scrive Flores - e meno che mai pensò di fondare una nuova religione. A mostrarlo sono gli stessi testi del Nuovo Testamento, in una lettura critica ormai consueta tra gli storici ma ancora ‘stupefacente’ per molti credenti e non credenti.”
Lo stile del direttore di MicroMega è tagliente e incisivo: “Gesù non era cristiano.” Poi aggiunge: era un ebreo osservante, rimasto tale fino alla morte, che mai avrebbe immaginato di fondare una “Chiesa”. Nelle sue pagine fa parlare soprattutto le fonti canoniche. “Se qualcuno degli apostoli - leggiamo - ha ipotizzato che fosse ‘Cristo’ (traduzione greca dell’ebraico meshiah e dell’aramaico mashiha, ‘unto’), Gesù lo ha fulminato di anatema.” Flores utilizza come fonte anche biblisti cattolici, gli interessa la ricerca storica, al di là di ogni precostituita verità di fede: come ha scritto il maggior biblista cattolico italiano del dopoguerra - osserva - “la vicenda di Gesù, al di fuori di quanti a lui si richiamano, è stata, in realtà, di poca o nessuna rilevanza politica e religiosa: una delle non poche presenze scomode in una regione periferica dell’impero romano, messe prontamente a tacere in modo violento dall’autorità romana”. [Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Edizioni Dehoniane, Bologna 2002, p. 39.]
Questo riferimento ed altri simili servono al Nostro per smontare l’impalcatura (antistorica) e la struttura argomentativa di Benedetto XVI. “Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger - scrive - non c’entra nulla con il Joshua bar Joseph che guarisce e predica in Galilea ai tempi di Tiberio. Nel suo libro non c’è Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare.” Flores non nega – ovviamente – a un papa di Santa Romana Chiesa il diritto di fare opera di teologia. In fondo è il suo mestiere. Gli contesta la pretesa di fare anche opera di storico, e addirittura di “giungere alla certezza della figura veramente storica di Gesù”, miracoli inclusi; la pretesa che il “Credo” dogmatizzato a Nicea per volontà dell’imperatore Costantino “abbia a fondamento la verità storica di Gesù in carne e ossa, vita, morte, miracoli e risurrezione.” Non è così, osserva Flores d’Arcais. Il professor Joseph Ratzinger “per tener fede a questa spericolata pretesa”, commette una serie di errori talvolta incredibilmente evidenti.
Le tesi del direttore di MicroMega sono contestate, naturalmente, dall’intellighenzia cattolica. Luigi Amicone (“Comunione e Liberazione”), direttore di Tempi, difende Ratzinger: “dove sta - si chiede - l’errore fondamentale del metodo razionalista-storicista che va da Lessing ai recenti biblisti divulgati dal Gesù di D’Arcais? C’è un problema di ‘auto-limitazione della ragione’ direbbe il papa del discorso di Ratisbona. Ovvero, si pretende esaurire ‘il problema Gesù’ nel vaglio storiografico della plausibilità o meno di una cronaca e nell’analisi scientifica di una lista di proposizioni.” Amicone cita Ignacio Carbajosa: “è l’uso inadeguato della ragione che, evidentemente, impedisce un’adeguata comprensione della Scrittura.”
Flores d’Arcais non ci sta: la “autolimitazione della ragione” di Ratzinger-Carbajosa - osserva - non c’entra nulla con la ricerca critica: “è solo la pretesa, del tutto contraddittoria, che la Ragione convaliderebbe la Rivelazione. Contraddittoria, perchè la Rivelazione è tale proprio in quanto non attingibile dalla Ragione (per Paolo è “follia”, non a caso)”.
Più avanti: Ratzinger pretende di fare opera di storico, ma la disciplina storica ha i suoi criteri, che vanno rispettati. I risultati della ricerca “ci dicono che Gesù non pensò mai di fondare una nuova religione, e neppure la cerchia dei suoi primi discepoli; ci dicono che il capo della prima comunità di Gerusalemme era Giacomo, fratello carnale di Gesù, ci dicono che Pietro e Paolo si scagliarono anatemi vicendevoli; che fino a quando il cristianesimo non divenne religione di Stato vi furono innumerevoli e incompatibili ‘cristianesimi’ nessuno dei quali eretico perché nessuno dei quali ortodosso; ci dicono tante altre cose indigeribili per il dogma cattolico e ciò nonostante accertate sotto il profilo storico. Il resto è fede, che ciascuno può vivere come vuole, visto che si crede a una religione ‘quia absurdum’, come rivendicavano con orgoglio le prime generazioni cristiane.”
E’ un tema, quello qui discusso, che ha radici lontane. Già Spinoza, nel Trattato teologico-politico (1670), praticava una lettura razionalista della Bibbia. Flores d’Arcais riprende questa scuola di pensiero e ci porta dentro un argomento che non finirà mai di affascinare: una buona lettura per l’estate, per chi – oltre ad abbronzarsi al sole – vuole anche pensare.

* Articolo apparso su "Il Quotidiano della Calabria" del 5.8.2011


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(17.8.11) LA CRISI E LA CURA NEOLIBERISTA (Domenico Distilo) - La crisi economica dentro cui l’Occidente si sta sempre più avvitando non è il frutto, come potrebbe sostenere il manzoniano don Ferrante, delle congiunzioni astrali o del fato o di chissà quali avversi numi, ma delle politiche economiche ispirate all’ideologia mercatista, della scelta di fare del mercato il dominus assoluto, il “termine fisso d’eterno consiglio”, penalizzando in ogni modo il lavoro, pesantemente subordinato alle esigenze del capitale.
Storicamente tutte le crisi economiche del capitalismo industriale nascono, e l’attuale non fa eccezione, dalla sproporzione tra produzione (offerta di beni e servizi) e consumo (domanda). La risposta keynesiana alla crisi esplosa alla fine degli anni Venti è consistita nell’incentivazione della domanda attraverso il deficit di bilancio e nella ridistribuzione col ricorso alla leva fiscale. A partire dagli anni Settanta il meccanismo si è però gradualmente inceppato per l’azione congiunta della decrescita demografica (donde la crisi dei sistemi pensionistici) e della contemporanea espansione del deficit, che i governi hanno alimentato col ricorso massiccio all’indebitamento.
E’ stato a questo punto che molti economisti hanno immaginato che la soluzione dei problemi fosse nel ritorno alle teorie classiche del liberismo economico. Per intenderci, la crisi del sistema keynesiano basato sul deficit si è pensato di affrontarla tentando di eliminare il deficit, con costi sociali altissimi e, peraltro, con scarso successo, invece di proporre soluzioni iuxta sua principia, che stessero cioè dentro quel sistema. Alla riforma razionale del Welfare si è preferita la sua distruzione, magnificando le presunte virtù del mercato e teorizzando il ritorno alle origini del capitalismo, addirittura ad Adamo Smith, che se è giustamente considerato un classico per aver demolito in nome della libertà economica le greppie dell’economia feudale e corporativa, non poteva dare le risposte giuste per uscire dalla crisi di un sistema che non aveva neppure lontanamente conosciuto.
La parola d’ordine è stata una soltanto: i governi, e in generale il pubblico, devono ritirarsi per lasciar fare al mercato, il solo a poterci dare, con l’efficienza, la sospirata ricchezza. Dunque, a seguire, privatizzazioni e liberalizzazioni, espansione della produzione e del commercio mondiali e dei corrispondenti apparati finanziari, nella convinzione che la ricchezza prodotta sarebbe aumentata e l’intendenza, cioè la sua ricaduta su tutte le classi sociali, inevitabilmente seguita. Le politiche di dimagrimento dei bilanci pubblici sarebbero state un complemento di tutto questo, giacché deficit e debito gravavano, si pensava, su società che avevano in sé gli spiriti vitali – animal spirits - per espandersi indefinitamente.
Tutti, anche le sinistre, fino al 2008 hanno creduto a questa favola, accreditata da alcuni fatti epocali extraeconomici o non essenzialmente economici, in primis la fine dell’Unione Sovietica e del cosiddetto socialismo realizzato.
Si è trattato di un’illusione ottica strabiliante, da cui solo pochi e inascoltati mettevano in guardia, mentre gli Stati e in generale la politica si ritiravano dal campo decidendo, nei vertici annuali del G7 o G8, sempre mediaticamente enfatizzati, di non decidere, abdicando in favore dei mercati, che ora dettano legge ai governi ricattandoli con la parametrazione della affidabilità dei titoli, operata, come si è visto nel caso della declassificazione del debito USA da parte di Standars & Poors, con criteri del tutto arbitrari.
A quel che servirebbe per uscire davvero, senza misure temporanee - nel contempo drastiche e palliative -, dall’impasse nessuno pensa, perché ciò che servirebbe è un cambiamento di paradigma, di visione dell’economia che porti ad una nuova governance, a un recupero della sovranità degli Stati sui mercati e a un rilancio della democrazia, mortificata e messa seriamente a rischio dalla coazione mercatista.
E’ sconcertante che una misura, peraltro insufficiente, per frenare l’attacco ai debiti sovrani quale la limitazione delle vendite allo scoperto sia stata adottata dalle autorità europee solo qualche settimana fa, vincendo incredibili remore di natura ideologica. Di un’ideologia, si badi bene, il cui centro d’irradiazione è ora nella destra americana dei tea party, dall’evidente ascendenza calvinista e puritana e determinati a giungere alla resa dei conti, a sferrare l’attacco finale a un modello di capitalismo che, nella loro visione fondamentalista-integralista, negli anni del keynesismo dominante si sarebbe allontanato dalla sua ispirazione originaria, individuabile nella dottrina calvinista della predestinazione, per assumere forme, ispirate al socialismo o al cattolicesimo sociale, che essi vedono come il fumo negli occhi.
La crisi offre anche ai loro seguaci europei l’alibi per l’attacco al modello renano – l’economia sociale di mercato - in nome di un darwinismo-calvinismo sociale completamente estraneo alla tradizione europea, il cui baricentro è nel solidarismo cattolico, nel cattolicesimo liberale di statisti della statura di De Gasperi e Adenauer, non a caso padri fondatori dell’Europa unita.
Le soluzioni neoliberiste dei problemi rischiano, di questo si dovranno prima o poi tutti rendere conto, di innescare un cambio di civiltà, il trionfo di un individualismo molto american style sulla cultura europea della solidarietà.

Nella foto: euro al tempo della crisi.


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(24.8.11) I PARTITI, LA POLITICA E LA SOCIETA' CIVILE (Angelo Cannatà) - Da molti anni Umberto Eco interpreta autorevolmente il ruolo – insieme ad altri – di coscienza critica della sinistra italiana. Contesta. Suggerisce. Propone. Critica. Recentemente (Alfabeta2, luglio-agosto 2011) ha contestato D’Alema: non risulta, come pensa il leader del PD, “che quando si è espressa la società civile si sia proposta di sostituire i partiti (non ne avrebbe né le capacità organizzative né l’omogeneità ideologica). Al massimo la società civile chiede che i partiti sappiano rinnovarsi e ne sollecita anzi l’adesione alle sue proposte, intende stimolarli, ricondurli a un contatto diretto con le aspirazioni di vari ceti sociali. Il che è avvenuto in queste elezioni amministrative.” Insomma: il legame tra società civile e partiti si sta riannodando, si auspica che la Politica comprenda, rinnovi se stessa e “non vadano sprecati i prossimi quindici anni.”
Discorso chiaro, come sempre, quello di Eco. Ma i partiti dimostrano di recepirlo? A guardare quello che accade in questi giorni - non solo nella nostra Calabria - la risposta è negativa. Le piccole caste (locali e di paese) difendono se stesse. La grande mobilitazione a favore delle Province è uno schiaffo - l’ennesimo - alla società civile che da anni vuole ridurre i costi della politica. Il tema ha assunto (anche) un valore simbolico, pari al significato che ha, su un altro versante, il silenzio sull’accorpamento delle “feste nazionali” alle domeniche. L’accostamento di argomenti così diversi è importante: la dice lunga su una concezione e un uso aberrante della politica. In breve: le piccole caste si mobilitano – in raduni trasversali che scavalcano le distinzioni ideologiche – quando debbono difendere una postazione, una poltrona, un’istituzione (vuota); tacciono quando si tratta di difendere la memoria, la storia, l’identità della nazione e di un popolo.
Quest’ultimo tema è messo in evidenza da Alberto Asor Rosa: “Un Paese senza memoria storica è destinato al deperimento e alla decadenza. L’Italia non ne ha mai avuta molta: preferisce al ricordo l’oblio e la dimenticanza. Non s’era mai visto però, neanche da noi, che la memoria storica fosse abolita per decreto: e invece è quanto accaduto negli ultimi giorni.” Il ragionamento è stringente e lucido: “La pausa domenicale, o il venerdì islamico, o il sabato ebraico, sono sanciti ab origine dai rispettivi libri sacri, e va bene. Ma l’essere in un certo modo di una determinata nazione viene fatto riemergere ogni anno dalle cosiddette ‘feste nazionali’, tutte di ponderata scelta umana.”
Asor Rosa pensa ovviamente al 25 aprile, festa di liberazione dal giogo nazifascista; al 2 giugno, festa dell’instaurazione del nostra Repubblica; al 1 maggio, festa del lavoro. Il decreto del 12 Agosto le abolisce (di fatto), “accorpandole alle domeniche più vicine.” C’è in questa scelta la manifestazione di un disprezzo profondo – scrive –, per la nostra storia nazionale. E’ amaro e critico il ragionamento del grande storico della letteratura: l’offesa verso “quel tanto di comune che le festività nazionali continuavano a rappresentare è tanto più forte, se si considera che, contestualmente, tutte le festività religiose, in quanto garantite dal Concordato, vengono preservate.” Con quale risultato? “Si verificherà questo paradosso: che quanto è cattolico, cioè patrimonio, sebbene rispettabilissimo, di una parte, verrà celebrato da tutti; mentre quel che è di tutti – perché ‘italiano’ è una categoria che comprende tutte le altre (cattolici, atei, protestanti) – non verrà neanche più ricordato.”
Ce n’è abbastanza per costruirci una grande battaglia ideale, scrive - ottimisticamente - Asor Rosa (L’espresso, n. 34, agosto 2011). Dico: “ottimisticamente”, perché non mi sembra che il ceto politico sia, in questi giorni, preoccupato (nei mille comuni d’Italia) della memoria storica e dell’identità nazionale. Ci sono altre urgenze: bisogna salvare le Province!, anche se le Province non salvano il territorio. Bisogna salvare le piccole caste locali, anche se il Paese, la società civile, i cittadini, non sopportano più – da tempo – i professionisti della politica.
Questo è il punto: tra i partiti, e la società civile rischia di crearsi una separazione sempre più netta, non arginabile con piccole “mobilitazioni organizzate” vendute - secondo vecchi riflessi condizionati - come spontanee mobilitazione di massa. L’obiezione di Umberto Eco agli schematismi del passato sia da insegnamento alla politica, ma anche ai cittadini. In Calabria si moltiplichino - oltre i notevoli sforzi in atto - i comitati, le associazioni, i circoli, le manifestazioni indette e propagandate via internet. Società civile, società civile, società civile. Questo sia lo slogan.
La rinascita della Calabria passa attraverso l’assunzione di responsabilità di tutti e di ciascuno. Le battaglie di retroguardia in difesa delle Province appartengono al passato. Il futuro è internet, le mobilitazioni organizzate dai cittadini per obiettivi concreti: il mare pulito, i depuratori, la difesa del territorio, la lotta alla mafia, i diritti civili. Su questa strada, “Il quotidiano della Calabria” è in prima linea. Offre una tribuna anche ai politici - come è giusto -, ma indica la rotta alla società civile. Senza sconti per nessuno.

* Articolo apparso su "Il Quotidiano della Calabria" del 23 Agosto 2011.

Nella foto in alto: Umberto Eco.


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(3.9.11) IL BERLUSCONISMO AL TRAMONTO: INVENTARIO DEI DANNI (Domenico Distilo) - Il berlusconismo volge al tramonto, su questo concordano ormai anche i berlusconiani meno tiepidi.
Il bilancio è, sotto ogni punto di vista, disastroso. Quando uscirà finalmente di scena il nano di Arcore avrà fatto all’Italia più danni della Seconda guerra mondiale, non essendoci nulla su cui la sua devastatrice irresponsabilità non si sia abbattuta, senza lasciare altro che macerie: politiche, morali, materiali, intellettuali.
Abbozziamo, per quanto possibile, un inventario.
In primo luogo ha distrutto le prospettive di creare in Italia una destra democratica e davvero europea. Il populismo di Berlusconi ha infatti bloccato il percorso della destra italiana verso gli approdi europei insiti nella svolta di Fiuggi, nel moderatismo di Segni e in tanti altri fiori a cui la sua “discesa in campo” ha impedito di sbocciare. Ne ha invece riportato in auge le tare storiche, in primis la vocazione antidemocratica e antiliberale.
Distruggendo la destra ha contemporaneamente distrutto, ucciso in culla, il bipolarismo italiano partorito dai referendum elettorali dei primi anni Novanta, bipolarismo che non può funzionare senza una destra democraticamente affidabile e a vocazione nazionale. Ha così reso impossibile un’evoluzione positiva e una stabilizzazione del sistema politico.
E’ per questo che la seconda repubblica non è, di fatto, mai nata.
Alleandosi con la Lega, partito dichiaratamente secessionista, ha distrutto il senso della Nazione. La Lega al governo vuol dire il trionfo dell’antinazione, dello spirito anti italiano più smaccato e più becero. Meno male che a limitare i danni ci sono stati due presidenti della Repubblica quali Ciampi e Napolitano, a cui dobbiamo la preservazione dell’unità nazionale, il rischio scongiurato del ritorno alla condizione di “volgo disperso che nome non ha” di manzoniana memoria.
Con la riforma della legge elettorale, il famigerato porcellum, ha distrutto qualsiasi legame tra eletti ed elettori, allontanando il paese reale da quello legale e rendendo oltremodo evanescente, oltreché puramente autoreferenziale, la rappresentanza politica.
Puntando tutto sulla propaganda ha distrutto ogni senso della verità, riducendo la politica alla sola dimensione della pubblicità e del marketing, le cose che gli sono più congeniali, le sole con le quali ci sa fare.
Ha poi usato i sondaggi – uno strumento della pubblicità - quale sola ispirazione dell’(in)azione politica, come se per un politico, tanto più se pretende di essere uno statista, la qualità di vedere prima e meglio degli altri ciò di cui il Paese ha bisogno non fosse essenziale, unita al coraggio di fare anche cose impopolari, elettoralmente controindicate.
Ha distrutto, con le innumerevoli leggi ad personam, ogni fiducia nella giustizia, affermando l’idea che le leggi si fanno in funzione degli interessi privati, che in più di un’occasione non ha mancato di invocare come suprema lex.
Col populismo antitasse ha distrutto ogni senso civico, facendo passare l’idea che le tasse sono in sé, a prescindere da tutto, brutte e cattive. L’abolizione dell’Ici sulla prima casa, che ha messo in croce i comuni, è stata l’apoteosi di questa filosofia.
Con la politica dei tagli indiscriminati ha distrutto la scuola pubblica. Con classi di trenta alunni va a farsi friggere qualsiasi qualità dell’azione didattica. Coerentemente, del resto, con la filosofia iperliberista secondo cui istruzione e cultura non sono settori strategici – in quanto diritti fondamentali del cittadino - ma da lasciare all’iniziativa privata. In un’epoca di disoccupazione intellettuale di massa tutto questo finisce per condizionare negativamente la formazione della coscienza pubblica, compromettendo il valore costituzionalmente garantito della libertà d’insegnamento.
Ha reso lo Stato e le sue istituzioni terreno di caccia di affaristi e faccendieri. P3, P4, P5 sono state, in tempi diversi e ravvicinati, la prova del condizionamento dei pubblici poteri da parte di interessi privati mediante l’uso sistematico della corruzione politica e giudiziaria. Non si è trattato e non si tratta di episodi isolati ma di un metodo diffuso, pervasivo ed organico che deriva da una concezione della cosa pubblica di cui il conflitto d’interessi rappresenta la sintesi e la rappresentazione plastica.
Nell’economia, che avrebbe dovuto essere il suo forte visti i tanto decantati “successi” da imprenditore, non ha risolto un solo problema. La situazione, anzi, è decisamente peggiorata. Negli anni di Berlusconi l’Italia ha avuto la più bassa crescita d’Europa, è aumentata la disoccupazione – alla faccia dei milioni di posti di lavoro promessi -, è peggiorato il rapporto deficit-pil e quello debito-pil, l’avanzo primario accumulato da Prodi si è trasformato in disavanzo, non è stata avviata una sola riforma efficace e infine, alla faccia dei “conti pubblici messi in sicurezza”, in pieno agosto il premier e il suo governo si sono dovuti cimentare con due manovre “lacrime e sangue” che rischiano, a causa di scelte palesemente inique, di infliggere la mazzata finale alla coesione sociale del Paese. Senza contare la dissennatezza di varare misure recessive in tempi di recessione. Tra queste rientra senz’altro l’annunciata costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, una vera e propria evirazione o auto evirazione degli organi democratici, che rinunceranno così, in nome dell’ossessione mercatista, a uno strumento fondamentale per governare ed arginare le crisi. Un progetto che non si deve temere di definire nel modo più congruo: un’autentica bestialità che, essendo pure condiviso da molti, rende l’idea di quale sia la pochezza delle attuali leadership.
Spostiamoci sul fronte della politica estera. Qui davvero il Banana si è superato, ovviamente in senso negativo. Di lui saranno ricordati il cucù alla cancelliera Merkel, le corna nella foto ufficiale di un vertice, le barzellette sconce, le incredibili e sconcertanti guasconate. Mentre il prestigio dell’Italia non è mai stato così basso e veniamo sistematicamente esclusi dagli incontri e dalle riunioni che contano, in cui si prendono le decisioni importanti.
Del resto Berlusconi non poteva occuparsi seriamente di politica estera, intento com’era a coordinare la macchina del fango contro i suoi avversari interni. Il caso Marrazzo, il caso Boffo, il killeraggio del giudice Mesiano e prima di tutte le altre la vicenda Telekom-Serbia illustrano il tentativo, attraverso la distruzione di qualsiasi deontologia della professione giornalistica, di attuare il disegno della P2 di asservire l’informazione a un progetto di sostanziale svuotamento delle istituzioni democratiche.
Dimenticavamo la ciliegina sulla torta: l’asservimento della principale testata giornalistica della Rai, il TG1, alla propaganda governativa in una misura e con modalità mai prima viste. Insomma, la perdita di un patrimonio di autorevolezza e di prestigio che il TG1 aveva sempre conservato, nonostante la sua nota e scontata “sensibilità” alle esigenze della maggioranza di turno. Da quando c’è Minzolini, invece, lo possono guardare solo gli aficionados del premier, che per fortuna sono sempre di meno.
L’inventario dovrebbe essere completato, le cose da aggiungere sono un’infinità, non ultima la distruzione anche formale, puramente esteriore del decoro della quarta carica dello Stato, dal caso Noemi al caso Ruby alle olgettine protagoniste del bunga-bunga.
Insomma, il berlusconismo si rivela sempre più, ad un esame obiettivo, una sciagura nazionale di proporzioni gigantesche, qualcosa che deve indurci ad interrogarci sulle nostre qualità antropologiche, di come sia stato possibile, a cavallo del XX e del XXI secolo che la maggioranza degli italiani si sia fatta così facilmente abbindolare da un personaggio che ad uno sguardo appena smaliziato può apparire, al massimo, un pagliaccio o una macchietta.

I. Continua...


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(5.9.11) SCALFARI, D'ARCAIS ET SIMILIA (Pasquale Cannatà) - “Scrivere un libro è facile: basta avere una penna ed un foglio di carta, la quale con pazienza subisce qualsiasi sopruso”.
Questa frase mi è tornata alla mente in questi ultimi mesi, nei quali si parla molto delle opere di due importanti autori italiani: Paolo Flores d’Arcais: Gesù. L’invenzione del Dio cristiano. Eugenio Scalfari:
Scuote l’anima mia Eros.
Per non auto citarmi (cosa che non è mai molto elegante) riprendendo cose che ho già scritto su questo sito, riporto quanto scrive sul Foglio Paolo Rodari:
GESÙ È DIO - Il Cristianesimo non si spiega solo con la storia.
«...Gli evangelisti hanno raccontato fatti a cui hanno partecipato. Scrive Carsten Peter Thiede che "a nessuno studioso dell'antichità potrebbe mai passare per la mente di degradare a inventore di leggende lo storiografo Tacito perché nella pagine da lui stese sui romani in Britannia si rifà ai resoconti di un testimone oculare, il legato Agricola, che era suo suocero". Ebbene, nel caso dei Vangeli "siamo di fronte a eventi che sono testimoniati da tanti, concordemente, ma i cui testimoni sono stati disposti a dare tutto (i loro beni, i loro affetti e la loro stessa vita, tolta con grandi strazi) in pegno delle loro testimonianze. Non solo. Hanno fatto tutto questo per rendere testimonianza a una storia dove loro, in prima persona, facevano figure ben meschine, talora vergognose e miserabili. Non c'è un solo evento storico, tra quelli ritenuti certi dalla manualistica e dagli storici, che sia stato testimoniato così. Da nessuno, mai".
...Certo, Flores ha ragione quando dice che il Vangelo è pieno d’incongruenze. E ha ragione quanto mostra che il testo in più punti si contraddice. I Vangeli si contraddicono. I quattro Vangeli, se letti in parallelo, in più punti dicono cose diverse: cosa sono i Vangeli? Biografie? Testi religiosi? Libri di insegnamento? Saggi di teologia? Niente di tutto ciò. I Vangeli sono appunti, racconti di testimoni oculari, pagine sparse di memorie. Chi ha scritto i Vangeli insomma – ed è utile ricordare che la maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che i Vangeli sono stati scritti nei primi anni di vita della chiesa e sul fatto che la prima stesura del Vangelo di Marco e della fonte comune di Luca e di Matteo non è posteriore all’anno 40 – non ha voluto dimostrare nulla. Non ha voluto dire: “Adesso vi spiego perché Cristo è Dio”. Non ha voluto offrire un testo cronologicamente perfetto, con tutti i particolari che collimano. Chi ha scritto i Vangeli ha piuttosto voluto raccontare le proprie impressioni dal vivo, particolari della vita di Gesù che più di altri l’hanno colpito, dando spesso per sottinteso ciò che per loro era del tutto evidente e cioè che Gesù era Dio. … Un approccio meramente storico che annulla a priori la possibilità, ad esempio, che Cristo sia risorto perché una cosa del genere è impossibile all’uomo, non è esente da superficialità. È la cultura del sospetto, il sospetto che gli evangelisti hanno camuffato la vera identità di Cristo, che fa dire che solo una lettura storica, uno scandagliamento infinitesimale del testo alla ricerca di ciò che può essere e di ciò che non può essere, è lecita. E chi paga il prezzo più alto è il divino, e cioè il fatto che sia stato Dio ad aver ispirato il testo. I primi che iniziarono a non fidarsi dell’attendibilità dei quattro evangelisti furono i teologi protestanti di area tedesca. Scrissero vite di Gesù non basandosi sui Vangeli ma giudicandoli preventivamente. Altri si accodarono a loro studi, la maggior parte muovendo critiche dal di fuori della vita della chiesa, non da dentro. Non so se per Flores si possa dire la medesima cosa. Ma è un fatto che per comprendere l’assoluta divinità, e insieme umanità che i Vangeli comunicano di Cristo, occorre di Cristo fare esperienza.»
Sullo stesso quotidiano è riportato l’intervento di Mauro Pesce:
GESÙ È UOMO - Non si è mai proclamato Messia.
«...Flores vuole farsi portavoce dell’esegesi scientifica del Novecento nelle sue acquisizioni e nei suoi problemi. Il risultato complessivo è ben riassunto alla fine del libro: “Gesù non è mai stato cristiano. Non si è mai proclamato messia e meno che mai pensò di fondare una nuova religione. A mostrarlo sono gli stessi testi del Nuovo Testamento, in una lettura critica ormai consueta tra gli storici ma ancora ‘stupefacente’ per molti credenti e non credenti. Nelle sue pagine fa parlare soprattutto le fonti canoniche. Se qualcuno degli apostoli - leggiamo - ha ipotizzato che fosse ‘Cristo’, Gesù lo ha fulminato di anatema.”
Era un profeta ebraico apocalittico itinerante, che annunciava nei villaggi della Galilea la prossima fine del mondo e l’incombente trionfo del regno dove gli ultimi saranno i primi. I romani lo giustiziano sulla croce insieme a due sovversivi. I suoi discepoli finiscono per convincersi che è ancora ‘in mezzo a loro’.»
Scrivere un libro è facile, dicevo ironicamente all’inizio, e questo vale soprattutto per un romanzo nel quale si possono descrivere cose vissute o inventate, un po meno per un testo filosofico per il quale occorre una maggiore riflessione: ma se si scrive un saggio dicendo che le fonti sono gli stessi Vangeli, mi domando se i volumi del Nuovo Testamento che si trovano in qualsiasi libreria sono gli stessi consultati da d’Arcais.
A me risulta, per fare un solo esempio, che nel Vangelo di Matteo è scritto:

Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo? ”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia? ”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Non mi pare che sia stato lanciato alcun anatema, ma che sia stata fondata una Chiesa e che Gesù si sia proclamato il Messia atteso. Quanto all’affermazione che Gesù non era cristiano, mi sembra che essa possa corrispondere al dire che Garibaldi non era garibaldino, che Marx non era marxista, ecc. : marxista è chi condivide le idee di Marx tedesco di nascita e di origine ebraica, non lui stesso che le ha elaborate; garibaldino è chi ha seguito Garibaldi, non lui stesso che era italiano e che li ha guidati; cristiano è chi crede in Gesù Cristo e lo testimonia nonostante i propri difetti, non il figlio di Dio fatto uomo e che nella sua carne era ebreo in quanto nato in terra si Israele.
L’immagine storica di Gesù, afferma l’autore, non è forse riflessa più fedelmente nel Corano che nelle formulazioni dogmatiche della chiesa antica? Quest’ultima questione è oggi di centrale rilevanza, ma a me sembra inevitabile che il fondatore dell’Islam scriva solo della figura storica di Gesù e non della sua divinità.
Leggiamo ancora che “fino a quando il cristianesimo non divenne religione di Stato vi furono innumerevoli e incompatibili ‘cristianesimi’ nessuno dei quali eretico perché nessuno dei quali ortodosso; ci dicono tante altre cose indigeribili per il dogma cattolico e ciò nonostante accertate sotto il profilo storico.”
Anche in questo caso vorrei far notare che era altrettanto inevitabile che all’inizio le varie Chiese sparse lungo tutto il mediterraneo dessero interpretazioni diverse sulle varie questioni riguardanti la Trinità, la divinità di Gesù, ecc., finchè i vari concili non hanno messo ordine sulla materia: ed ancora oggi siamo lontani dalla convergenza di tutti su molte questioni di forma e di sostanza.
Per quel che riguarda Scalfari, egli insiste sulla linea che vorrebbe il Cristo come un semplice uomo, e osserva: «Ci sono due momenti della vita di Gesù che fanno pensare a un uomo che ha sublimato gli istinti egoistici, “immaginandosi” figlio di Dio; nell’orto di Getsemani, la notte dell’arresto (“Padre, allontana da me questo calice”); sulla croce dopo ore di supplizio, prima di morire (“Padre mio, perché mi hai abbandonato?”). Nel momento culminante del sacrificio - osserva Scalfari - “l’io lancia il suo ultimo grido per sottrarsi al destino da lui stesso voluto. Con quel grido la natura umana riprende il sopravvento e l’io riecheggia l’amore di sé che aveva cancellato per adempiere alla sua missione. Nessuno riesce a soffocare un istinto, sia un dio che si è incarnato sia un uomo che ha creduto di essere un dio” (pp. 90-93).
Anche Gesù (figlio di Dio, o uomo), ha dovuto fare i conti con l’istinto di conservazione presente in ogni essere vivente: quel grido, ‘Padre mio perché mi hai abbandonato’, è il grido di un uomo che teme la morte”.»
Secondo lui è il grido di un uomo, anzi di un pazzo che si era autoconvinto di essere il figlio di Dio e Dio lui stesso, ma che nel momento della morte aveva ceduto all’istinto di conservazione, rientrando nella sua umanità: perché allora invoca Dio chiamandolo PADRE? Se avesse ripreso coscienza, come sostiene Scalfari, della sua creaturalità, avrebbe invocato semplicemente il suo Dio, IHVH come lo indicavano gli ebrei, senza osare quella confidenza che solo un figlio può avere.
Inoltre, se la Chiesa sostenesse che Gesù è semplicemente e solamente Dio fatto uomo, il suddetto ragionamento di Scalfari andrebbe a favore delle tesi ateiste, ma siccome la Chiesa afferma che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, le affermazioni di Scalfari rafforzano la nostra fede, perché da vero uomo, come ognuno di noi, Gesù ha affrontato il dolore e la sofferenza, pregando perché quest’ultima gli fosse evitata e lamentandosi perché era stato costretto ad affrontarla.
La carta subisce pazientemente qualsiasi sopruso, ed oggi siamo sommersi da tonnellate di carta che è stata sporcata da fiumi di inchiostro sprecati nel corso dei secoli da persone che hanno voluto insinuare nei credenti il dubbio che la loro fede sia frutto di vane credenze: gli scrittori di oggi si citano a vicenda per rafforzare le loro idee, e citano i pensatori dei secoli scorsi per averne maggiore autorità, dando così alle persone semplici l’impressione che abbiano ragione per il solo fatto di essere in tanti a pensarla a quel modo.
Non prevalebunt.

Nella foto: Pasquale Cannatà.

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(10.9.11) RIAPRE LA SCUOLA: NON SERVONO BUROCRATI MA ADULTI APPASSIONATI (Michele Scozzarra) - Anche quest’anno, lunedì 12 settembre, si ripresenta il rito della riapertura della scuola, con molti ragazzi e famiglie che si ripetono sempre la stessa domanda: “Ma questi anni passati dietro i banchi di scuola a cosa serviranno?”.
Sempre con più insistenza, da più parti, si auspica che la scuola possa compiere il passo della comprensione del nesso che c’è fra i libri e la realtà, anche perché a chiedere, e pretendere!, questo è una generazione nuova, che non si è nutrita di ideologia alla greppia del ’68, né ha coltivato furiose pulsioni violente alla palestra del ’77 e, anche se si presenta più aperta libera e disponibile, non si può negare che, in buona misura, viene indicata come “una generazione abbandonata dagli adulti, sia educatori che genitori, per lo più incapaci di proporre percorsi educativi alla globalità della vita”.
Detto questo, chiarisco che non è mia intenzione addentarmi in un lamento o in uno sfogo, elencando una serie di fatti che umiliano il lavoro degli insegnanti e delle famiglie, perché concordo pienamente con chi sostiene che “le famiglie non sono poi così assenti e gli insegnanti non sono tutti lavativi. Ci sono dirigenti che hanno a cuore la propria scuola e, nonostante le diverse difficoltà e il sistema perverso di reclutamento, riescono comunque ad offrire un servizio di qualità ai ragazzi. Chi rovina la scuola sono quelli che la intendono come un meccanismo burocratico. Perché quando in una scuola il Dirigente guarda in faccia i propri insegnanti, e li tratta da professionisti e da persone e non come numeri di una graduatoria, le cose funzionano. Che cosa importa di più in una scuola se non che i ragazzi possano incontrare degli adulti appassionati, con una visione positiva della vita? Nessuna burocrazia potrà mai garantire questo”.
Ritengo che è ormai un dato assodato che uno studente "non amato” dal suo professore andrà male, indipendentemente dalle sue capacità. Insegnare è mettersi al servizio di ciò che di più vitale ha un essere umano, conservare e proteggere il nocciolo più intimo di una persona.
Leggevo tempo addietro, e condivido pienamente, che: “Un insegnamento scadente, una pedagogia improvvisata, uno stile di istruzione cinico nei suoi obiettivi puramente utilitari, sono rovinosi, distruggono la speranza alle radici, sono un assassinio. I genitori sono, con il loro amore unito, la grande risorsa pedagogica del mondo. I professori partecipano a questa pedagogia per privilegio e alleanza. Il loro sguardo può contribuire a trasformare una statua in un uomo, a rendere un ragazzo libero di essere se stesso”.
Io, che insegnante non sono, per concludere questi miei pensieri sull’apertura della scuola, non riesco a trovare di meglio che una lettera Cari colleghi professori che Alessandro D’Avenia (un giovane professore che ha scalato le classifiche con il romanzo Bianca come il latte, rossa come il sangue) ha pubblicato l’anno scorso, il giorno prima dell’apertura delle scuole, su diversi giornali a tiratura nazionale, con la speranza che chi la legge possa provare quelle “emozioni forti” capaci di far comprendere che il vero “diritto allo studio” è il diritto di imparare, in termini di vita, di cultura, di entusiasmo e creatività positiva… perché è innegabile che proprio di questo la scuola di oggi ha maggiormente bisogno!
Altro che di maggiore burocrazia e qualche aula in più…


Cari colleghi professori,

mancano 24 ore alla prima campana. I vostri alunni sono trepidanti, perché il primo giorno di scuola attraversa il cuore di un ragazzo come uno stormo di promesse. Sperano che quel primo giorno sia un giorno nuovo, sintomo di un anno nuovo, una vita nuova, direbbe Dante. Rendete quel giorno la loro Beatrice.
Non li deludete. Date loro un giorno indimenticabile. Non chiedete delle loro vacanze, non raccontate le vostre. Fate lezione: con un amore con cui non l’avete mai fatta. Preparate oggi quella lezione. È domenica e avete ancora qualche ora. Stupiteli con un argomento che desti la loro meraviglia. Uccideteli di meraviglia! È dallo stupore che inizia la conoscenza, diceva Aristotele e nulla è cambiato. Annichilite i grandifratelli, gli uominiedonne. Superateli in share con le vostre lezioni. Rinnovate in voi lo stupore. Spiegate loro l’infinito di Leopardi anche se non è nel programma, fateglielo toccare questo infinito di là dalla siepe dei banchi. Raccontate loro la vita e la morte di una stella. Descrivete loro la sezione aurea dei petali di una rosa e il segreto per cui la si regala al proprio amore. Stupitevi. Stupiteli. Fatevi brillare gli occhi, fate vedere loro che sapete perché insegnate quella materia, che siete fieri di aver speso una vita intera a imparare quelle cose, perché quelle cose contengono il mondo intero.
Stupiteli con la vita, quella che c’è dentro secoli di scoperte, conoscenze, fatti, libri. Fategliela toccare questa vita. Non torneranno più indietro. Sapranno di avere davanti un professore. Parola meravigliosa che vuol dire “professare”, quasi come una fede, la vostra materia. Se professate questa fede toccheranno attraverso di voi le cose di cui hanno fame: verità, bene, bellezza. Le uniche cose per cui viviamo, che lo vogliamo o no. Tutti vogliamo un piatto buono, un amico sincero, una bella vacanza. È scritto nel dna che vogliamo quelle tre cose, anche se costano fatica. Diamogliele.
Immaginate domani di entrare in classe. Durante la vostra lezione il mondo viene devastato da un’apocalisse. Per una serie di fortunate (!) congiunture siete rimasti vivi solo voi, con la vostra classe. Adesso dipende tutto da voi. Rimboccatevi le maniche, prendetevi cura di quei 20-30 come fosse il mondo intero. Che mondo sarà quello di domani? Dipende da te caro collega. Non ti lamentare dei politici, delle strutture, del riscaldamento, dell’orario, adesso ci sei solo tu e loro. Non ci sono ministri, riforme, strutture. C’è la scuola nella sua essenza. Tu e loro e quel che ci sta in mezzo: le parole. Gli animali si addestrano, gli uomini si educano: con le parole. Non c’è lo stipendio, perché non c’è lo Stato e non c’è il privato: sono loro il tuo stipendio. Ti è rimasto solo un libro: quello della tua materia. Da lì devi partire per costruire il mondo intero. Quello è il punto di appoggio con cui sollevarlo, il mondo intero.
Se loro vedranno in te il fuoco ti ripagheranno con uno stipendio che nessun altro mestiere dà: saranno degli innamorati del bene, della verità, della bellezza (cioè della vita). Non saranno dei furbi, ma degli innamorati. Forse ti manderanno ugualmente all’inferno come Dante ha fatto – anche se per altri motivi – col suo maestro Brunetto, ma sapranno riconoscerti (come Dante) di avere insegnato loro “come l’uom s’etterna”: come l’uomo si è reso immortale nella storia e come l’uomo si rende immortale al presente.
Caro collega hai 24 ore. A te la scelta: un nuovo giorno, il primo, di una vita nuova.
Stupisciti. Stupiscili.
Alessandro D’Avenia

Nella foto in alto: studenti al lavoro in classe.


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(11.9.11) STRADA CHIUSA PER LAVORI MA... LA SICUREZZA? (Francesco Distilo) - Come è già noto a tutti, da qualche giorno è stata data applicazione all’Ordinanza nr. 11 del 09/08/2011 emessa dal Settore Viabilità della Provincia di Reggio Calabria con la quale è stata disposta la chiusura al transito della SP 43 nel tratto compreso tra Mastrologo e San Fili.
Da quanto si legge nella citata Ordinanza, detta chiusura si è resa necessaria per il rifacimento degli impalcati dei ponti Sciarrapotamo ed Elia. Orbene, qualche sera fa mi trovavo, unitamente ad altri concittadini, in compagnia del nostro Sindaco, Carmelo Panetta e, nell’occasione, sollecitavo un suo intervento, in qualità di Autorità di Pubblica Sicurezza, affinché si trovasse una soluzione alla chiusura del citato tratto stradale non tanto per il disagio che, inevitabilmente, crea a noi tutti ma, semplicemente per motivi di Sicurezza Pubblica. Ho fatto presente, infatti, che eventuali mezzi di pubblico soccorso (Ambulanze, Vigili del Fuoco, ecc.) che dovrebbero intervenite sul territorio di Galatro ritarderebbero fatalmente, in virtù di detta chiusura, il loro intervento, dovendo raggiungere il territorio comunale da percorsi alternativi tutt’altro che agevoli. Il nostro Sindaco per tutta risposta ha irriso il mio suggerimento, consigliando, addirittura, agli eventuali operatori di Pubblica Sicurezza di volare per raggiungere Galatro.
Fatta questa obbligatoria premessa, colgo l’occasione per ricordare al nostro Sindaco che secondo il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, l'autorità di pubblica sicurezza veglia al mantenimento dell'ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità ecc. Voglio sottolineare che per veglia il T.U. di P.S. non intende che l’Autorità non deve dormire la notte, bensì che deve proteggere i cittadini e prevenire quelle situazioni che potrebbero mettere in pericoli gli stessi cittadini.
A dire il vero, la risposta del nostro Sindaco mi ha lasciato un tantino basito, vista la sua attenzione alla sicurezza. La sua manicale preoccupazione per la sicurezza ha portato, infatti, l’Amministrazione da lui capeggiata a spendere la somma di 16.000,00 (sedicimila) Euro di soldi pubblici per sostituire il palco utilizzato per le feste in quanto il vecchio palco non era più a norma per tutelare la sicurezza e l’incolumità degli utenti.
Evidentemente il nostro Sindaco ed il Dirigente firmatario dell’Ordinanza, fanno poco uso di internet perché altrimenti, ne sono sicuro, non gli sarebbero sfuggiti i vari ponti provvisori (che non sono quelli che impianta il dentista) che vengono installati in varie parti d’Italia in attesa delle riparazioni o delle ricostruzioni dei ponti definiti. Per facilitare il lettore cito solo alcuni dei ponti provvisori installati qua e là per l’Italia. Voglio citare solo quelli minori perché un ponte provvisorio sul Po o sul Piave si darebbe per scontato. Il primo ad essere ricordato è quello di Murialdo (SV) in località "Isolagrande", dove è stato varato il ponte militare Bailey costruito dal Genio Pontieri di Piacenza.
Senza disturbare il Genio Pontieri per 20 mt di ponti, voglio ricordare il ponte provvisorio e leggero, realizzato con tubi di un metro di diametro e ricoperto da una soletta di cemento, che permette di attraversare con le auto il fiume Salinello ai confini tra i comuni di Campli e Sant'Omero in provincia di Teramo.
Appare scontato, ma è bene ribadirlo, che i ponti provvisori, qualora non fosse tecnicamente possibile sistemarli nello stesso luogo, andrebbero posizionati nelle immediate vicinanze.
Detto questo mi chiedo perché noi calabresi dobbiamo convivere perennemente con il disagio strutturale e per disagio strutturale intendo anche il disagio che stiamo sopportando, ormai da anni, con l’Autostrada A3. A titolo di esempio porto l’Autostrada A4 dove è stata costruita, nel tratto tra Bergamo e Milano, la quarta corsia, ma non se n’è accorto nessuno.
Allora alziamo la testa e rivendichiamo i nostri diritti, senza dimenticare i nostri doveri di cittadini, nel rispetto della legalità.

Nella foto: Francesco Distilo.

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(29.9.11) 30 COSE CHE NON SI CAPISCONO (Domenico Distilo)
1. Non si capisce perché riducendo il debito pubblico e azzerando il deficit l’economia dovrebbe ripartire. A meno che non si dimostri che riducendo il denaro in circolazione la gente ne avrà di più da spendere.

2. Non si capisce perché si parla dei mercati come di un totem (o di un tabù, a scelta) intoccabile, escludendo a priori ogni intervento per regolarli e disinnescare la potenziale minaccia che essi rappresentano per la democrazia.

3. Non si capisce perché le privatizzazioni debbano essere sempre buone e il privato sempre preferibile al pubblico. Visti i risultati di certe privatizzazioni bisognerebbe andare, quantomeno, un poco più cauti.

4. Non si capisce perché le riforme debbano essere sempre buone. Nessuno può garantire che non siano cattive; nessuno potrà mai assicurarci contro “le dure repliche della storia”.

5. Non si capiscono (non si capivano) quelli che dicono (dicevano) che l’antiberlusconismo fa (faceva) il gioco di Berlusconi. Per non fare il gioco di Berlusconi dobbiamo (dovevamo) forse diventare berlusconiani?

6. Non si capisce perché il cosiddetto popolo debba essere sempre lisciato per il verso del pelo. In Italia ha perpetrato la c… più colossale della storia delle democrazie occidentali, facendo vincere le elezioni per ben tre volte a un “Dulcamara da strapazzo”. Diciamolo: un popolo così è immaturo e inaffidabile, quali che siano le ragioni storiche, sociologiche, antropologiche ecc.

7. Non si capisce perché per salvare il sistema pensionistico in crisi non si pensi ad altro che all’aumento dell’età pensionabile. Ma non c’è la fiscalità generale? Non c’è il lavoro nero da far emergere? Non ci sono altri espedienti in un’epoca d’imperante ingegneria finanziaria? Non c’è la regolarizzazione del lavoro degli immigrati?

8. Non si capisce perché negli ultimi decenni la Sinistra abbia abbracciato le idee della Destra e giudicato il Welfare sostanzialmente finito. I risultati si sono visti: la gente ha pensato che una destra autentica fosse meglio di una sinistra che si sforzava di imitarla. E’ sempre meglio l’originale delle imitazioni e dei surrogati.

9. Non si capisce perché si debba continuare con le cosiddette “missioni di pace” all’ estero, quasi tutte impantanatesi per manifesta mancanza di guida politica e di prospettive plausibili di stabilizzazione.

10. Non si capisce perché si debba insistere nel ritenere urgenti, improcrastinabili, le modifiche costituzionali. Se qualcuno pensa davvero che la crisi in cui siamo sprofondati è da imputare alla Costituzione, allora non resta che chiamare l’ambulanza.

11. Non si capisce come possa esserci stato, in questi anni, qualcuno che ha preso sul serio gli sproloqui di gente come Brunetta e Sacconi, capaci solo di spruzzare risentimento e odio. Lo si capiva lontano dieci miglia, ma molti facevano finta di non accorgersene.

12. Non si capisce come Cisl e Uil, sindacati di grandi tradizioni, si siano potuti trasformare in sindacati gialli, disponibili a firmare qualsiasi accordo il governo o la Fiat gli presentassero.

13. Non si capisce come ci si astenga, incontrandoli, dal prendere a calci i senatori che hanno votato un ordine del giorno in cui si sosteneva che il Banana, quando telefonava alla questura di Milano, “credeva davvero che Ruby fosse la nipote di Mubarak”.

14. Non si capisce come si possa sostenere la tesi dell’accanimento giudiziario contro il Banana. Per quanto rosse possano essere le toghe, non gli è proprio mancata la materia prima…

15. Non si capisce come gli italiani abbiano sopportato per anni, nei telegiornali, le maschere bronzee di Cicchitto e Gasparri a cui teneva dietro, immancabilmente, la saccente sicumera di Capezzone. Come sia stato possibile averli ospiti a pranzo e a cena (all’ora dei telegiornali) senza farsi passare l’appetito.

16. Non si capisce come la gente sopporti ancora la retorica dei sacrifici e non si rivolti quando il manovratore di turno li evoca per imporli agli altri. Sacrifici per chi? Per cosa?

17. Non si capisce come ci sia ancora chi invoca la società civile contro la politica e i partiti, la cosiddetta “casta”. L’esaltazione delle virtù della società civile era il refrain che scandiva l’indignazione generale all’epoca di Tangentopoli. Poi è arrivato, col suo corteo di predoni e faccendieri, colui che di queste virtù avrebbe dovuto rappresentare la summa, l’imprenditore di successo che si sacrificava per il bene del Paese. Un buon motivo per parafrasare Goebbels: “Quando sento parlare di società civile tiro fuori la rivoltella”.

18. Non si capisce come la Confindustria si sia accorta solo ora, dopo quasi due decenni, di avere a che fare con un tragico clown. Non c’è da dar torto a chi sostiene che la borghesia italiana è invertebrata. Se avessimo avuto una borghesia degna del nome Berlusconi non sarebbe esistito.

19. Non si capisce come si continui a parlare di “poteri forti” schierati contro il Banana. Se davvero questi poteri forti fossero stati forti lo avrebbero annichilito a stretto giro di posta. Dunque, o non poterono o non vollero(o magari tutt’e due le cose insieme). In ogni caso non si tratta di “poteri forti”, ché se avessero potuto ma non voluto l’unica deduzione possibile è che avrebbero scelto di distruggere la loro stessa nazione. Bella forza da imbecilli!

20. Non si capisce come non si dubiti del futuro del capitalismo. Sarà perché si dà per scontato che mancano le alternative. Ma le alternative non le ha sempre create la storia? E come si fa a escludere che questa sia la crisi finale?

21. Non si capisce come cattolici ritenuti doc quali Formigoni e Lupi difendano Berlusconi insultando palesemente l’evidenza. Non si possono neppure scomodare i gesuiti: nessun gesuita confezionerebbe così dozzinali controdeduzioni. Ma c’è di più: si sono scordati di doverne rispondere al Padreterno?

22. Non si capisce come possa esserci (ancora!) gente che sostiene che non ci siano alternative al Banana, ma con chi si è manifestamente bevuto il cervello è meglio non discutere.

23. Non si capisce come si trovi normale che la selezione per l’accesso alle varie facoltà universitarie avvenga con batterie di test somministrati ai candidati. In pratica stiamo affidando il nostro futuro a delle lotterie (peraltro molte volte inquinate), ribadendo però con questo che siamo il Paese che crede nello stellone.

24. Non si capisce come il sistema nazionale di valutazione delle istituzioni educative, basato sulle cosiddette “prove Invalsi”, che gli studenti dei vari ordini di scuola devono sostenere nel corso dell’anno e durante gli esami finali, non possa non diventare un cane che si morde la coda. Come succede con tante altre cose, le prove da mezzo sono già diventate fine: lo studio non è più, infatti, orientato all’ apprendimento e alla formazione, ma alla buona riuscita delle prove Invalsi, peraltro molte volte taroccate. Non si tratta però di un caso da manuale di quella che due filosofi del Novecento chiamavano Dialettica dell’Illuminismo; piuttosto dell’apoteosi del peggiore spirito imitativo (di certe culture e prassi che ormai pure l’America, dove sono nate, sta rimettendo in discussione).

25. Non si capisce come alla fine possano non diventare stanchi rituali le celebrazioni, ogni anno, del “Giorno della memoria” (della Shoah), del ricordo delle foibe ecc. Una lottizzazione della memoria destinata inevitabilmente a relativizzare tutto.

26. Non si capisce come i fautori del bipolarismo non demordano. Il loro argomento è che il bipolarismo non abbia funzionato per colpa di Berlusconi. Nossignori, è vero il contrario: Berlusconi è il prodotto del bipolarismo, a cui l’Italia, manifestamente, non è adatta.

27. Non si capisce come si sia potuto (addirittura) accendere una discussione intorno alla proposta, fatta alcuni mesi fa dall’ineffabile onorevole Gasparri, di sottoporre i libri di testo per le scuole a una censura preventiva per ammettere solo quelli “non ideologizzati”. In questi casi discutere significa dare piena cittadinanza, prendendole perfino in considerazione, ad autentiche bestialità, che meriterebbero un'interlocuzione fatta con l’unico strumento che sia al loro (indicibilmente basso) livello: la pernacchia.

28. Non si capisce come nessuno dei cosiddetti “promotori della libertà”, che quasi ogni domenica mattina, in atteggiamento assorto e compunto, per dare solennità all’evento, ascoltano i melensi sproloqui telefonici del Banana ripresi da telecamere e microfoni della Rai e di Mediaset, manco si trattasse dell’appello di Churchill agli inglesi nel 1940, abbia mai provato, dopo siffatte “performance”, una vergogna sufficiente ad indurlo a tentare, almeno tentare, il suicidio. Davvero si può non finire mai di sprofondare.

29. Non si capisce come i vescovi italiani abbiano aspettato tanto prima di emettere, usando però le solite frasi “curiali” e/o bizantine che servono per dire senza dire, una condanna che è parsa senz’appello nei confronti del Banana e del suo mondo. Davvero per capire l’essenza hanno dovuto aspettare che diventasse “esistenza” (l’attuale disastro)? Non potevano mettere in guardia i cattolici prima che la piaga diventasse cancrena?

30. Non si capisce come il Presidente della Repubblica non prenda un’iniziativa sopra le righe per chiudere definitivamente la partita col berlusconismo, il cui bilancio per il Paese si fa ogni giorno più pesante. Napolitano potrebbe agire come “dominus in statu exceptionis”, indotto allo strappo da circostanze, appunto, eccezionali, in cui una maggioranza sempre più avulsa dal Paese reale parla di leggi per vietare le intercettazioni mentre la gente muore di fame. La democrazia può morire per il rispetto eccessivo delle forme: summum ius, summa iniuria.

Nell'immagine in alto: interrogativo.


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