(18.11.13) GALATRO CITTA' MARIANA? NON NE SONO TANTO CONVINTA (Arianna Sigillò) - Vorrei aprire una piccola parentesi che vuole essere tutt'altro che polemica.
Mi riferisco al recente articolo pubblicato dal professor Umberto Di Stilo circa la decisione della giunta comunale (dietro suggerimento del parroco) di attribuire a Galatro l'appellativo di "città mariana" data la recente visita della Madonnina Pellegrina di Fatima.
Il professore asserisce che «la decisione di dare tale appellativo, non è figlia di vuota ambizione ma scaturisce da una inconfutabile realtà storica: il popolo di Galatro vanta una tradizione mariana che affonda le sue radici nella cultura greco-bizantina dei monaci basiliani che arrivarono nel territorio galatrese ove fondarono diversi monasteri dedicati a Maria Madre di Gesù.»
Beh, non mi ritrovo per nulla d'accordo poichè, a mio avviso, non basta la "toponomastica" nè la "presenza di numerose chiese e tempietti" in onore della Madonna a creare le "condizioni ottimali" (e concedetemi il termine) tali da poter attribuire al paese un appellativo di tale "spessore cristiano e morale".
Ciò che è alla base per meritare una così importante "onorificenza" non sono le "materialità", ossia andare a messa la domenica (per farsi vedere presenti), se poi di fatto mancano tutti i presupposti del vero Buon Cristiano, quali l'umiltà, l'umanità, l'altruismo, la convivenza pacifica, la generosità, l'umanità; mentre regnano incontrastati la cattiveria, la gelosia, il rancore, la superbia, tanta, forse troppa vanità e potrei continuare a lungo, ma non lo farò.
Neanche io posso definirmi una buona cristiana, nonostante sia molto credente, poiché sono "molto poco praticante".
Oggi durante uno dei notiziari della giornata ho visto la nuova "trovata" di quella meravigliosa persona che è Papa Francesco, ossia quella di distribuire fra i presenti in piazza una scatola contenente la più antica delle medicine, la "Misericordina" accompagnata da un foglietto illustrativo, un Rosario e la foto di Gesù. Beh, un appellativo così importante e oneroso quale quello di "città mariana" richiede un enorme cambiamento in primis negli animi di ognuno di noi, dei nostri principi e del nostro spesso "malsano convivere".
(7.12.13) LA FEDE DI GALATRO NON CRESCE MOLTIPLICANDO PROCESSIONI, VENUTE DI MADONNE, DI SANTI E DI RELIQUIE (Don Gildo Albanese) - Caro Michele,
dopo quell’esperienza di vita cristiana vissuta insieme per tanti anni e testimoniata da queste foto che io tenevo nel cassetto e che non mi aspettavo avessero una tale risonanza, credevo che la mia storia con Galatro fosse stato un momento del passato che io tenevo gelosamente custodita nel mio cuore ricordando le cose belle, gioiose straordinarie (che sono state tantissime) che ci hanno messo in relazione di vita e le poche difficili realtà che ho dovuto affondare per purificare la religiosità popolare della mia Parrocchia e aprirla alla novità del Concilio Vaticano II.
Oggi purtroppo vedo un ritorno al passato preconciliare in tutta la realtà ecclesiale del nostro tempo, a Galatro e altrove, che mi fa veramente soffrire perché annulla tutto quel lavoro, quei sacrifici, quello zelo che noi giovani preti di allora formatici alla Scuola del Concilio abbiamo cercato di portare nella vita pastorale, ed è forse questo che ha entusiasmato voi allora.
La fede di Galatro e di ogni paese del mondo non cresce moltiplicando le processioni o ripristinando vecchie tradizioni, o con la venuta di Madonne, di Santi e di Reliquie ma con una forte e incisiva testimonianza di vita e di amore che fa vedere in ogni cristiano il Volto di Cristo, come fa Papa Francesco che è un Vangelo vivente.
La pubblicazione di queste foto, invece, mi ha confermato che il rapporto che si stabilisce nella fede è una realtà che non finisce, per questo posso dire che in Cristo Galatro è nel mio cuore come io sono nel cuore di tutti i galatresi. Di questo vi voglio profondamente ringraziare e per questo voglio ogni giorno lodare il Signore e pregare per voi perché quel poco che ho potuto darvi l’ho dato per come ho saputo nel nome del Signore con un amore ricambiato da voi. Mi sono sforzato di trasmettervi quello che avevo dentro il cuore e di cui mi ero (e sono) tremendamente innamorato: Gesù Cristo.
Sono venuto in mezzo a voi con l’entusiasmo sacerdotale dei miei anni giovanili pieno del fuoco del Concilio e voi siete stati come la “cerva che anela ai corsi di acqua” perché eravate assetati di Cristo e mi avete visto come colui che poteva estinguere la vostra sete. Di tutto questo, di queste meraviglie protagonista è sempre Lui: il Signore a cui insieme dobbiamo rendere grazie.
Vorrei, caro Michele, che questo cammino di fede che insieme abbiamo costruito non finisca ma possa continuare ad infiammare i giovani galatresi di oggi che io non conosco ma che, a volte incontrandomi casualmente, è come se mi conoscessero manifestandomi affetto perché i loro genitori, che sono stati i miei ragazzi di allora, spesso ne parlano in famiglia. A presto con altre foto.
(11.12.13) CONCILIO E POSTCONCILIO (Domenico Distilo) - L’intervento di Monsignor Ermenegildo Albanese (che per noi, quand’anche diventasse papa, resterà sempre affettuosamente don Gildo), suscitato dall’articolo di Michele Scozzarra con le foto rievocative dell’esperienza galatrese del giovane (allora) sacerdote cittanovese, esperienza sviluppatasi negli anni Settanta e conclusasi nel 1983, allorché le due parrocchie vennero unificate, offre lo spunto per alcune riflessioni su Concilio, post Concilio e dintorni.
Non c’è dubbio che nella storia della Chiesa il "Vaticano II" ha segnato una frattura, o quantomeno una discontinuità forte, sul piano dei riti, dei simboli e del modo concreto di vivere la fede di milioni di credenti. Frattura o discontinuità che sia, essa ha indotto alcuni (i seguaci di Mons. Lefebvre) a risolvere la conseguente e inevitabile crisi d’identità affermando l’insuperabilità della tradizione e ancorandosi ad essa in modo palesemente contraddittorio (disubbidendo al Papa con lo scisma provocato dalle ordinazioni vescovili non autorizzate che hanno attirato sulla comunità San Pio X la scomunica latae sententiae, cioè automatica).
Per altri, invece, la rottura con la Santa Sede si è consumata in nome di interpretazioni radicali dei testi conciliari che hanno rappresentato vere e proprie fughe in avanti (dal catechismo olandese alla teologia della liberazione, alle posizioni molto critiche del teologo svizzero Hans Kung), speculari a quelle all’indietro dei tradizionalisti.
Dopo il pontificato dell’amletico e tormentato Paolo VI, in cui del Concilio è prevalsa un’interpretazione complessiva molto innovativa e fortemente condizionata dalla temperie culturale sessantottesca, con Giovanni Paolo II il recupero e la preservazione della sostanza teologica ed ecclesiale del cattolicesimo sono passati attraverso la forma carismatica, per sua natura antitetica al sessantottismo. La ricaduta è stata però un eccesso di verticismo nella curia e nelle altre strutture, talora con pesanti compromissioni. Lo tsunami sollevato da Papa Francesco dovrebbe ora spazzarlo via, ma quale sarà la forma Ecclesiae che ne emergerà non è al momento prevedibile.
Il pontificato di Giovanni Paolo II ha fortemente ridimensionato, questo è certo, il “razionalismo” del Concilio o di certe sue interpretazioni che avevano rischiato di darci una chiesa cattolica fortemente contaminata di teologia protestante. Credo che nelle riserve di don Gildo sulle “venute di madonne ecc.” si riflettano le impostazioni “razionaliste” che costituiscono lo stigma della sua generazione, formatasi negli anni che immediatamente seguirono quell’evento sicuramente epocale che fu il Concilio Vaticano II.
Voler ridurre tutto questo a una grottesca contrapposizione a don Giuseppe, al suo stile e alle sue iniziative è perciò, semplicemente, da sprovveduti che non hanno la minima idea della profondità e della pesantezza delle questioni messe sul tappeto. E non avendola non trovano di meglio che sparare bordate contro il nostro giornale, reo di ospitare gli interventi invece di censurarli, che sarebbe il miglior modo di uniformarci alle loro mentali angustie.
(23.12.13) A PROPOSITO DEL LIBRO DI TRAVAGLIO RECENSITO DA ANGELO CANNATA' (Domenico Distilo) - Caro Angelo,
credo che quando stai dalla parte di Travaglio contro Napolitano tu non tenga conto di alcuni fatti inoppugnabili, il primo dei quali è che in Italia la traduzione del giornalismo in politica ha provocato immani disastri, dal dannunzianesimo al mussolinismo, per giungere, si parva licet…, a casi recenti o ancora attuali.
Travaglio è il tipico esemplare di giornalista italiota irresponsabile, irresponsabilità che se da un lato è strutturale, poggiante cioè sul fatto che il giornalista, a differenza del politico, tanto più se il politico è il Capo dello Stato, non è tenuto a preoccuparsi delle conseguenze, dall’altro è spesso alimentata da uno spirito di faziosità che è nel nostro dna e non trova riscontro altrove in Occidente.
Basta considerare quelle che sarebbero state le conseguenze di certe scelte che, secondo Travaglio, Napolitano avrebbe dovuto fare, per veder risaltare la distinzione weberiana tra responsabilità, appunto, e convinzione e per comprendere fino in fondo come il bene e il meglio quasi mai stanno dalla stessa parte.
Andando al sodo: cosa si rimprovera a Napolitano? Di aver favorito il governo delle cosiddette larghe intese? D’accordo, Berlusconi olet – e io sono uno che la puzza del Banana l’ha sempre sentita! - ma quali sarebbero state le alternative? Un governo con Grillo? Tornare alle urne col porcellum? Prospettive la prima delle quali manifestamente irrealistica, la seconda devastante: ci saremmo ritrovati con lo spread ad altezze astronomiche ed il rating del debito in caduta libera.
O gli si rimprovera, come par di capire, di essere stato rieletto? Ma a parte il fatto che Prodi o un altro candidato solo di sinistra non sarebbe stato eletto (neppure senza i famosi 101 franchi tiratori) semplicemente perché i numeri non c’erano, è solare che la rielezione di Napolitano è avvenuta a garanzia delle larghe intese, ne ha cioè costituito l’imprescindibile presupposto. In sintesi: senza rielezione, niente grandi intese; senza grandi intese, le conseguenze di cui sopra. Dunque, di che stiamo parlando?
Quanto alla questione nata dalle intercettazioni della procura di Palermo, basterebbe chiedersi in quale paese del mondo, o anche solo in quale democrazia occidentale, il capo dello Stato è così esposto a qualsiasi estemporanea iniziativa della magistratura così come lo sarebbe in Italia se Napolitano non avesse chiamato in causa la Corte Costituzionale. Dove finirebbe la divisione dei poteri, fondamento di ogni regime liberale? E’ una domanda che non si può non porre, a meno di non confondere giustizia con giustizialismo, infilandoci nel cono d’ombra del giacobinismo.
Ma Travaglio non si accontenta di censurare pesantemente il Napolitano presidente. Va indietro per fare le pulci al Napolitano esponente di spicco dell’ala cosiddetta migliorista del PCI cresciuto alla scuola di Giorgio Amendola. La cosa ha dell’incredibile. Infatti delle due l’una: o si scade nell’anticomunismo becero e propagandistico à la Berlusconi deprecando il fatto stesso che il PCI sia esistito; o si pensa che sarebbe stato preferibile per Napolitano stare nella corrente stalinista di Pietro Secchia, quella che teneva le armi dei partigiani nascoste per la “seconda ondata”.
No, caro Angelo, questo attacco a Napolitano non mi convince per nulla. Anzi, ti dirò: vedo ripetersi la vecchia storia dell’estremismo di sinistra che collude oggettivamente con la destra. I contrapposti radicalismi sono oggettivamente alleati contro il riformismo e il centrosinistra per affossare, come ai tempi degli attacchi forsennati e concentrici di Salvemini e D’Annunzio a Giolitti, ogni seria prospettiva di modernizzazione e cambiamento. Infatti il dibattito politico in Italia si è ormai ridotto a parlare da mane a sera degli stipendi dei parlamentari. Come se fosse quello il problema dei problemi.
(23.12.13) A PROPOSITO DELLA RECENTE POLEMICA SUSCITATA DAL MIO INTERVENTO (Don Gildo Albanese) - A proposito della recente polemica suscitata dal mio intervento sulla visione conciliare e preconciliare della pastorale oggi e che è stato inteso come attacco ad personam, vorrei suggerire, a quanti amano identificare la fede con le tradizioni religiose, la recentessima Lettera Pastorale di Mons. Luigi Renzo, Vescovo di Mileto, Nicotera, Tropea: "Pietà popolare. Da problema a risorsa pastorale."
Di questa Lettera cito un brano apparso su "Avvenire" del 20 u. s. a pag. 27: «La pietà popolare è religione del cuore, non dell'esteriorità. Il grande pericolo che possiamo correre è di restare emozionati, incantati, sviati dalle grandi folle di pellegrini nelle feste religiose, senza considerare che spesso il cuore di quella gente è lontano da Dio, dal prossimo, dalla giustizia, dai poveri.»
Penso che su una questione così delicata non si possono emettere sentenze partendo dall'emozione, dal sentimento o dal sentito dire, ma la stessa va affrontata con una carica culturale di base senza la quale non si può essere obiettivi.
Nel ringraziare del servizio che svolge questo giornale, auguro a tutta la Redazione un Santo Natale.
Caro Domenico,
ti ringrazio per le riflessioni e il tempo che dedichi alle mie parole. C’è garbo e intelligenza nel tuo testo, passione e volontà di comprendere. Stile. Naturalmente non condivido nulla di quello che dici. Ribadisco le mie tesi. Ma questo è un altro discorso: il pluralismo delle idee è una ricchezza, l’essenza della democrazia.
Il giornalismo deve – questo penso – controllare le distorsioni del potere. E’ stato così negli Stati Uniti, con l’inchiesta “Watergate” che costrinse Nixon a dimettersi; così in Italia, con le denunce di Camilla Cederna, che portarono alle dimissioni di Leone. Eccetera.
Se il principio guida non è la denuncia, caro Domenico, non si fa giornalismo, ma un’altra cosa. D’Annunzio non sbagliò a criticare Giolitti (esprimeva un punto di vista, errato ma legittimo). Smise di essere giornalista quando si uniformò al regime fascista. E’ molto più di una sottigliezza, se ci pensi.
Infine: da tempo “il Fatto Quotidiano” attacca Napolitano, lo faccio anch’io su quelle pagine, prendendo le distanze (sul tema) da Scalfari.
Il testo che segue in basso è di pochi giorni fa: 21 dicembre 2013. Non “dice” cosa intendo per giornalismo, “mostra” come lo pratico. Spero sia utile. Questo è tutto.
Un caro saluto e buone vacanze a te e ai lettori di "Galatro Terme News". Angelo Cannatà
Caro Angelo,
non puoi farti sfuggire che l’Italia non è l’America e la tradizione anglosassone dei “fatti separati dalle opinioni” purtroppo ci appartiene ben poco. Del resto, se così non fosse non avremmo la storia che abbiamo. Bob Woodward e Carl Bernstein non erano pregiudizialmente contro Nixon e non usarono contro di lui espressioni del tipo “boia labbrone”. Il guaio del giornalismo alla Travaglio è che muove da convinzioni, non dalla spassionata ricerca dei fatti.
Quanto al pamphlet della Cederna, a parte che il tempo ha dimostrato come la sua ricostruzione della “carriera di un presidente” fosse molto caricaturale e poco fattuale, Leone non fu travolto dallo scandalo giornalistico, ma dalla decisione del PCI di Berlinguer – che faceva parte della maggioranza di governo - di chiederne le dimissioni, prontamente concesse da una DC ancora sotto lo shock del caso Moro (era trascorso poco più di un mese dal ritrovamento del cadavere).
Beh, carissimo Angelo, non è certo una disgrazia avere idee molto diverse. Io mi ritengo però molto più al sicuro di te dai pentimenti che potrei avere un giorno per avere, sia pure con tutte le buone intenzioni, assecondato derive populiste potenzialmente generatrici di tragedie storiche. Probabilmente dipenderà dal fatto che in gioventù tu hai letto con trasporto la Critica della ragione dialettica, mentre io mi sono limitato a leggerla.
Ricambiandoti gli auguri, ti aspetto per continuare la discussione faccia a faccia. Domenico Distilo
* * *
DI MATTEO, NEMICO DELLA MAFIA E INVISO ALLO STATO
Angelo Cannatà
Ci sono delle cose che si sanno ma delle quali non si ha piena consapevolezza. Un esempio: sappiamo che Totò Riina “vuole la morte” del magistrato Nino Di Matteo; sappiamo che lo stesso magistrato è sotto procedimento disciplinare al Csm; abbiamo capito (anche) l’indecenza della coesistenza di questi fatti?
L’intervista di Travaglio a Di Matteo evidenzia la dimensione umana del magistrato: “Se mi guardo intorno e rifletto, mi dico che non vale la pena sacrificare tanti momenti di libertà miei e delle persone che mi stanno accanto. Poi però prevale la passione per la bellezza del lavoro di magistrato.” La bellezza. E’ la parola che mi ha colpito di più. Siamo di fronte a un uomo minacciato di morte. Eppure parla della bellezza del suo lavoro. Si può sorvolare su una frase così? Soprattutto: si può non capire (ancora) che un uomo così è sotto procedimento disciplinare al Csm? Il Presidente della Repubblica è contestato da tempo – anche da chi scrive – per molte prese di posizione. Improvvisamente mi è apparso chiaro, tuttavia, che la sua colpa maggiore è diametralmente opposta: il silenzio. Non mi riferisco alla Trattativa Stato-mafia. Penso proprio al silenzio, assordante, sulla tragica situazione vissuta da Di Matteo.
Insomma, non c’è dubbio che Di Matteo debba sottostare alla legge scritta (e al procedimento disciplinare del Csm); è altrettanto vero, però, che questo procedimento è vissuto come ingiusto dall’affetto e dal cuore (dal diritto naturale) di milioni di italiani. Che cosa ha fatto di così grave Di Matteo? E’ questo il punto: di grave non ha fatto nulla. Mi si “accusa di aver leso le prerogative del capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la distruzione delle telefonate… fra lui e Mancino. (…) E’ la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro un magistrato per un’intervista.” Ecco. La prima volta. E la si esercita, pensate un po’, contro chi da vent’anni lotta la mafia, rischia la vita, è al primo posto nelle premurose attenzioni di Toto Riina. Situazione tragica e assurda. Perché il magistrato espone se stesso al pericolo per difendere la legge; e la legge – un certo modo da azzeccagarbugli – lo persegue, delegittimandolo.
Presidente Napolitano – lo dico col massimo rispetto – è sicuro che non possa far nulla per sanare una situazione così anomala?
Pensa davvero che tenere “sotto procedimento disciplinare” (per un’intervista), un magistrato che Riina vuole uccidere, dia lustro allo Stato?
Ritiene che i fatti qui evidenziati aumentino la fiducia nelle Istituzioni?
E’ sicuro, Signor Presidente, che Lei non debba adesso, subito, senza indugio, far ritirare quell’ “atto di incolpazione”?
Si può servire lo Stato in mille modi, anche favorendo le non condivisibili larghe intese. Ciò che non è possibile è chiudere gli occhi di fronte all’evidenza: e l’evidenza qui è la “non colpevolezza” di Di Matteo. Quali “colpe” si vogliono trovare, da parte di quali giudici, di quale corte, se - in realtà - l’imputato è innamorato della “bellezza del suo lavoro” nonostante la condanna a morte decretata da Riina. Ci pensi, Presidente. Eviti che il magistrato Di Matteo venga percepito da tutti – con plastica evidenza – come perseguito, contemporaneamente, dalla mafia e dallo Stato.
Articolo apparso su Il Fatto Quotidiano del 21 Dicembre 2013
Nelle foto, dall'alto in basso: Angelo Cannatà e Domenico Distilo.
(31.12.13) A PROPOSITO DI NAPOLITANO E DEL GIUDICE DI MATTEO (Pasquale Simari) - Lo stimolante confronto dialettico ospitato sulla pagine di Galatro Terme News, che vede contrapporsi i differenti giudizi di Domenico Distilo e Angelo Cannatà (che colgo l’occasione per salutare, congratulandomi per la sempre più brillante produzione letteraria e giornalistica) sull’operato del Presidente della Repubblica Napolitano e, di riflesso, sulla natura della campagna di stampa condotta contro di lui dal “Fatto Quotidiano”, mi ha indotto alcune riflessioni che vorrei condividere con i lettori di questo giornale.
Per onestà intellettuale, premetto di non condividere nella maniera più assoluta la linea editoriale del giornale diretto da Padellaro che, a mio modo di vedere, fin troppo spesso ha assunto quali verità rivelate (ed in quanto tali non bisognevoli di riscontri probatori) gli atti accusatori di alcuni settori della magistratura requirente, finendo addirittura con lo sposare e sostenere le velleità politiche del “Taumaturgo” di turno, candidatosi (ahimè, con scarsa fortuna) alla guida del Paese sulla spinta della lobby radical chic e giustizialista che ancora influenza una parte della sinistra italiana.
Detto questo, non credo di essere offuscato da pregiudizio se ritengo che l’ossessivo battage denigratorio contro il Presidente della Repubblica che da quasi due anni imperversa sul Fatto Quotidiano (e che oggi vede accomunati sul carro carnevalesco dell’impeachment l’incredibile trio Travaglio-Grillo-Berlusconi) non rappresenti una forma di giornalismo d’inchiesta ma una vera e propria azione politica, condotta per finalità (per me) non limpidissime sulla base di argomenti che nella maggior parte dei casi prescindono dai fatti.
E proprio l’ultimo articolo di Angelo Cannatà, pubblicato sul Fatto Quotidiano il 21 dicembre scorso, me ne ha fornito la conferma.
In sintesi, la tesi dell’Autore è che il PM Nino Di Matteo, recentemente minacciato di morte da Totò Riina, sia vittima di un intollerabile abuso poiché, a causa di una legge da “azzeccagarbugli”, è stato sottoposto ad azione disciplinare innanzi al CSM con l’accusa “di aver leso le prerogative del capo dello Stato” attraverso un’intervista in cui spiegava le procedure per la distruzione delle famigerate telefonate fra Napolitano e Mancino. Con l’aggravante che per la prima volta un magistrato viene chiamato a rispondere in sede disciplinare di una violazione consistente nel solo fatto di aver rilasciato un’intervista.
Sulla base di tale premessa, nel medesimo articolo il Presidente della Repubblica viene accusato di aver serbato sulla vicenda un colpevole silenzio e, avendone la possibilità, di non essersi adoperato per far ritirare “adesso, subito, senza indugio” l’atto di incolpazione mosso contro Di Matteo, che è stato “vissuto come ingiusto dall’affetto e dal cuore (dal diritto naturale) di milioni di italiani”.
Pertanto, secondo Angelo Cannatà, il Capo dello Stato è responsabile – quantomeno per omissione – della paradossale situazione in cui è venuta a trovarsi la nuova icona dell’antimafia che, in quanto minacciata da Riina, dovrebbe essere esonerata, anche per il passato, dal fastidioso obbligo di rispettare le leggi (da azzeccagarbugli) valide per tutti i suoi consimili, essendo coperta dall’immunità promanante, per diritto naturale, dall’affetto e dal cuore dei suoi milioni di sostenitori.
Se queste sono le ragioni dell’attacco mosso contro il Presidente Napolitano, attraverso la semplice analisi dei “fatti” è possibile dimostrarne la natura strumentale e, quindi, politica.
Per far ciò mi sono limitato a ricercare su Google i riscontri alle affermazioni contenute nell’articolo di Angelo.
Così ho, innanzi tutto, verificato che l’azione disciplinare contro il magistrato siciliano è stata avviata dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (cioè il massimo esponente della stesso ramo della magistratura a cui appartiene Di Matteo) non per aver rilasciato un’intervista, come sostiene il diretto interessato, ma - cosa ben più grave - per aver rivelato ad un giornalista notizie ancora coperte dal segreto investigativo, ammettendo, in particolare, che le conversazioni telefoniche intercettate dalla Procura di Palermo in cui si faceva cenno all’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, la cui esistenza era stata paventata sulla stampa, erano effettivamente agli atti delle indagini e riguardavano Napolitano e Mancino.
In tal modo, secondo il Procuratore Generale, Di Matteo avrebbe indebitamente leso il diritto di riservatezza del Capo dello Stato riconosciuto dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha accolto il ricorso del Quirinale sul conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo.
Subito dopo, ho riletto la norma che qualifica come illeciti disciplinari dei magistrati, tra l’altro, “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui” nonchè “le pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo, riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui…” (art. 2 decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106).
Per non trascurare nulla, sono andato anche a spulciare la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “le autorità giudiziarie devono osservare la discrezione massima per quanto riguarda i casi di cui si occupano per conservare la loro immagine come giudici imparziali. Quella discrezione dovrebbe dissuaderli dall’usare la stampa anche una volta provocati. Sono le richieste più alte di giustizia e la natura elevata dell’ufficio giudiziario che impongono quel dovere” (sentenza 16.11.1999 – Buscemi c/ Italia).
Attraverso questa semplice ricerca ho, quindi, accertato che tutti i magistrati (compresi i valorosi PM impegnati in indagini contro la mafia) sono obbligati a non rivelare fatti relativi a indagini in corso se tale rivelazione può ledere indebitamente diritti altrui o comunque compromettere l’immagine di imparzialità della magistratura.
Un’altra veloce interrogazione a Google mi ha fatto scoprire che – diversamente da quanto si legge nell’articolo di Angelo Cannatà – già prima di Di Matteo altri giudici e pubblici ministeri erano stati sottoposti a procedimenti disciplinari per la violazione del dovere di riservatezza e che, proprio recentemente, Annamaria Fiorillo, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minori di Milano (proprio quella che ha sconfessato Berlusconi sul caso Ruby), è stata condannata dalla sezione disciplinare del CSM per il solo fatto di aver reso alla stampa dichiarazioni inopportune (ancorché veritiere) sulla vicenda della “nipote di Mubarak”.
A questo punto, per evitare di essere tradito dalla memoria, visto il lungo tempo trascorso dell’esame di Diritto Costituzionale, ho verificato sul sito del CSM che nulla fosse cambiato a proposito della titolarità dell’azione disciplinare, che è sempre riservata al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e al Ministro della Giustizia, e della composizione della sezione disciplinare dell’organo di autogoverno dei magistrati, di cui continua a non far parte il Presidente della Repubblica.
In questo modo ho avuto la conferma di quanto già avevo intuito di primo acchito, ovvero che se Giorgio Napolitano avesse solo tentato di fare quanto richiestogli da Angelo Cannatà, adoperandosi per far ritirare “adesso, subito, senza indugio” l’atto di incolpazione mosso dal Procuratore Generale contro Di Matteo, avrebbe posto in essere proprio uno di quegli atti abusivi ed esorbitanti dai suoi poteri di cui lo accusa Travaglio nel suo pamphlet, trattandosi di comportamento del tutto estraneo alle prerogative del Capo dello Stato, anche nel suo ruolo di Presidente del CSM.
Infine, consultando il sito on-line di Repubblica, ho appreso che il 19 dicembre scorso (e, dunque, prima della pubblicazione del pezzo di Angelo Cannatà sul Fatto Quotidiano) era stata diffusa la notizia che il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, unico soggetto abilitato a farlo, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento disciplinare contro il PM Nino Di Matteo avendo accertato, nel corso dell’istruttoria, che Panorama e altri siti di news avevano già rivelato l’esistenza delle intercettazioni delle conversazioni tra Napolitano e Mancino nel momento in cui veniva rilasciata l’intervista incriminata e che, di conseguenza, l’informazione non poteva più tecnicamente considerarsi coperta da segreto.
Sulla base di questi dati oggettivi, mi pare ovvio concludere che le accuse rivolte al Capo dello Stato per la vicenda Di Matteo sono prive di qualunque fondamento fattuale.
Come volevasi dimostrare.
Concludendo, credo che la costante opera di demolizione della massima istituzione repubblicana sia un sintomo del pessimo stato di salute della nostra democrazia al pari dei tentativi di delegittimazione che di volta in volta colpiscono alcuni magistrati “scomodi”, fermo restando che, da cittadino, preferisco valutare l’operato di un pubblico ministero sulla base delle sentenze di condanna che scaturiscono dalle sue indagini piuttosto che dal numero di interviste che rilascia o di seguaci che raccoglie sui social network.
Anche perché, visti i precedenti (leggasi: Di Pietro, De Magistris, Ingroia), l’eccesso di consenso popolare finisce col trasformare un ottimo magistrato in un pessimo politico.
Nel ringraziarvi, approfitto dello spazio concessomi per augurare alla Redazione di Galatro Terme News ed a tutti i lettori un ottimo 2014.