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1.10.13 - Sì, golpe democratico!
Domenico Distilo

6.10.13 - Mons. Rino Fisichella al Convegno pastorale diocesano
Michele Scozzarra

5.11.13 - E se Berlusconi avesse ragione?
Angelo Cannatà

7.11.13 - Il gioco della profezia che si autoavvera
Domenico Distilo

18.11.13 - Galatro "città mariana"? Non ne sono tanto convinta
Arianna Sigillò

20.11.13 - Il neocolbertismo e l'ideologia della crisi
Domenico Distilo

6.12.13 - Galatro... nel cuore di Don Gildo
Michele Scozzarra

7.12.13 - La fede di Galatro non cresce moltiplicando processioni, venute di Madonne, di Santi e di Reliquie
Don Gildo Albanese

8.12.13 - L'intervento di Andrea Maniglia è stato rimosso su richiesta dell'autore

11.12.13 - Concilio e postconcilio
Domenico Distilo

18.12.13 - "Viva il Re!", la controstoria di Re Giorgio
Angelo Cannatà

19.12.13 - Natale ieri e oggi
Umberto Di Stilo

23.12.13 - A proposito del libro di Travaglio recensito da Angelo Cannatà
Domenico Distilo

23.12.13 - A proposito della recente polemica suscitata dal mio intervento
Don Gildo Albanese

24.12.13 - Buon Natale a tutti quanti... nessuno escluso!
Michele Scozzarra

27.12.13 - Sul giornalismo / Di Matteo, nemico della mafia e inviso allo Stato
Angelo Cannatà

31.12.13 - Nell'ultimo giorno dell'anno 1948 partivo per Buenos Aires
Bruno Zito

31.12.13 - A proposito di Napolitano e del giudice Di Matteo
Pasquale Simari





(1.10.13) SI, GOLPE DEMOCRATICO! (Domenico Distilo) - In nessuna democrazia occidentale, eccetto l’Italia, esiste un partito “talebano”, fedele al capo perinde ac cadaver e capace perciò stesso di affermare e/o negare qualsiasi cosa, contro ogni manifesta evidenza, pur di difenderlo e/o compiacerlo.
In nessuna democrazia occidentale, eccetto l’Italia, tra gli esponenti di un partito politico e il loro leader (invero non leader, più propriamente capo) i rapporti sono intessuti in chiave prima di tutto di fedeltà personale e solo in modo secondario e derivato politica. In non pochi casi –quello dell’onorevole Bondi è il più emblematico- tali rapporti si estrinsecano nella forma della devozione mistica o comunque in una modalità empatica che collide con la razionalità che dovrebbe appartenere a chiunque sia chiamato ad esercitare un mandato dentro le regole e le prassi di una democrazia liberale.
In nessuna democrazia occidentale esiste un partito il cui leader (capo) è proprietario di tre dei sei più importanti canali della tv generalista e controlla gran parte di quelli pubblici, possiede giornali e, per averla acquisita con la corruzione di un giudice, la più importante casa editrice del Paese. Insomma, di tutto ciò che gli serve per alterare sistematicamente a proprio vantaggio la formazione dell’opinione pubblica e delle intenzioni di voto degli elettori. In nessuna democrazia occidentale uno dei maggiori partiti politici accetta che a guidarlo ci sia un leader pregiudicato e implicato in processi per reati gravissimi quali l’induzione alla prostituzione minorile.
In nessuna democrazia occidentale il livello del dibattito politico è scaduto come in Italia a un livello in cui può venire propalata ogni manifesta assurdità, con un elevatissimo numero di sprovveduti semianalfabeti o analfabeti di ritorno che reiteratamente abboccano allo scemenzaio populista del pregiudicato di Arcore.
In nessuna democrazia occidentale conta quanto ancora in Italia il voto ideologico o di appartenenza. E’ un fatto che la percezione della vera natura del berlusconismo sia, in gran parte del campo dei cosiddetti moderati, soprattutto quelli di estrazione solo accidentalmente ex democristiana e sostanzialmente clerico-fascista, fortemente limitata o del tutto impedita dalla considerazione che esso rappresenta comunque un’ alternativa alla sinistra. Costoro voterebbero Mussolini o Hitler pur di non avere la sinistra al potere, di qualsiasi sinistra si tratti.
In nessuna democrazia occidentale si sono mai tenute o si terrebbero elezioni con un gap mediatico qual è quello che in Italia penalizza la sinistra. Che senza le televisioni Banana non sarebbe esistito e non esisterebbe non è un’opinione, è un fatto.
Rebus sic stantibus, non c’è altra possibilità per ripristinare in Italia le regole delle democrazie liberali che un golpe – che poi è un contro golpe per annullare gli effetti di quello attuato in modo strisciante dal Banana in questi vent’anni - che si concretizzi nella immediata messa fuori legge del PDL o Forza Italia che sia, partito ontologicamente incompatibile con qualsiasi forma di una democrazia occidentale. A meno di non voler aspettare che col combinato disposto della corruzione e delle televisioni il Banana rivinca le elezioni.


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(6.10.13) MONS. RINO FISICHELLA AL CONVEGNO PASTORALE DIOCESANO (Michele Scozzarra) - Il Convegno Pastorale Diocesano della Diocesi di Oppido-Palmi, convocato da Mons. Francesco Milito a Rizziconi nei giorni 4 e 5 ottobre, già nel titolo “Il fuoco della carità”, ha voluto volgere lo sguardo alla “Nuova Evangelizzazione”. Dopo l’introduzione dei lavori da parte di Mons. Milito, che ha tracciato una linea di lavoro della nostra Chiesa locale per il prossimo anno, con una importante indicazione pastorale “Dall’Anno Cantiere agli orizzonti della nuova evangelizzazione”, è seguita la relazione di Mons. Rino Fisichella (già vescovo ausiliare di Roma e rettore della Pontificia università lateranense, nonché Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione) che soffermandosi sul tema “Trasmettere la fede nel mondo di oggi”, ha voluto puntualizzare perché la fede cristiana perché la fede cristiana ha bisogno di una nuova evangelizzazione, cioè di un nuovo annuncio? Che cosa è mutato o sta mutando nel mondo perché si renda necessaria una simile impresa? E quali sarebbero potuti essere i suoi contenuti e i suoi metodi? Nel suo applauditissimo intervento Monsignor Fisichella ci ha spiegato in che cosa consiste il grande compito a cui la Chiesa è chiamata: proporre la centralità della famiglia, riappropriarsi la tradizione cristiana nella vita dei nostri paesi e soprattutto invitare le persone a non perdersi nella solitudine e nell'indifferenza anche all’interno della propria famiglia.
Mons. Fisichella ha, quindi, parlato dell’anno della fede, del Concilio e di una essenzialità della fede che permette di parlare all’uomo di oggi: “L’anno della fede è stata un’esperienza di nuova evangelizzazione, cioè il tentativo di mettere Cristo al centro: Cristo deve ritorna al centro della nostra vita e della nostra azione pastorale, questo ci dice che la nuova evangelizzazione non è “nuova” ma è sempre la stessa… ed è la centralità di Gesù Cristo che ci permette di uscire da questa indifferenza che ci ha coinvolto tutti. A 50 anni dal Concilio qual’è stato il cammino della Chiesa nell’annunciare Cristo all’uomo contemporaneo? C’è stato bisogno di abbattere le muraglie cinesi che si erano costruite intorno alla Chiesa che non comunicava più: riappropriarsi della capacità di comunicare, di poter dire al mondo l’importanza che la fede riveste nella nostra vita. Questo è il punto fondamentale, d’altronde già chiaramente formulato nell’Evangelii Nuntiandi: chi vuole riflettere sulla nuova evangelizzazione non può prescindere dall’attualità che questo testo riveste. La fede va annunciata, celebrata, vissuta… se ci fosse solo la fede enunciata e celebrata (magari con belle liturgie) non sarebbe la fede, la fede non è tale se non vissuta. Paolo, nella lettera ai Tessolonicesi parla di una dimensione circolare della fede, una circolarità continua; ma se guardiamo bene la realtà com’è oggi, con tristezza dobbiamo constatare che nella nostra vita cristiana domina la stanchezza, diciamo sempre le stesse cose, siamo demotivati. Se non comprendiamo che il nostro tempo è tempo di semina, e se la nostra fede non si coniuga con questa speranza, il nostro impegno non è essenziale. E questo accade perché ci siamo troppo burocratizzati: dobbiamo, invece, puntare all’essenziale e l’essenziale ci chiede di guardare il volto di Cristo, perché non sarà il nostro impegno a salvarci, ma la certezza di avere incontrato Gesù Cristo. Questa essenzialità ci porta a cogliere la dimensione profonda a cui noi siamo chiamati, che si può riassumere in un duplice movimento: memoria viva del passato e profezia per il futuro, è questo l’impegno che deve toccare la nostra pastorale. Domandiamoci cosa trasmettiamo alle generazioni che verranno dopo di noi. Il nostro compito è quello di essere un archivio vivo di Gesù Cristo. La trasmissione è sempre qualcosa di vivo. “Tradere” significa consegnare: abbiamo ricevuto il Figlio non per tenerlo nascosto, ma per consegnarlo agli altri. Eppure noi che dobbiamo essere la memoria viva del passato non abbiamo più memoria”.
Riferendosi al ruolo della Chiesa nella società di oggi, Mons. Fisichella ha voluto sottolineare una interruzione della tradizione della fede che non tocca solo la Chiesa, ma parte dalle famiglie e tocca tutte le componenti della società: “Non credevo potesse essere vero quello che mi hanno detto alcune catechiste, cioè che vengono dei bambini per la prima comunione e non sanno neanche fare il segno della croce. Che significa tutto questo? Significa che in quella famiglia si è interrotta la tradizione della fede, dell’appartenenza alla Chiesa, non si vive più nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Per trasmettere la fede dobbiamo recuperare la “semplicità della fede”, abbiamo messo troppe strutture, che ostacolano un vero cammino spirituale, che distolgono i nostri occhi da Gesù. Dobbiamo riportare i nostri occhi fissi su di Lui (che poi questa è la vita della Chiesa che annuncia, celebra e vive) perché solo questo, oggi, permette alla nostra azione pastorale ordinaria di diventare straordinaria. Chi sono io, perché credo in Gesù Cristo? Di fronte a queste domande dobbiamo pur chiederci: se noi non ci educhiamo all’essenzialità della nostra fede come possiamo dare Cristo? Nemo dat quod non habet, nessuno può dare ciò che non ha! Come possiamo spiegare questo spaventoso analfabetismo in fatto di fede: stiamo vivendo delle situazioni paradossali, abbiamo intorno a noi delle persone che sanno di tutto (ingegneri, avvocati, professori, esperti in computer ecc.) ma non sanno niente di fede. E bisogna anche dire che la “generazione digitale” non è un nuovo strumento oggi in uso, ma una nuova cultura che si sta imponendo. E’ cambiato tutto il comportamento, nelle persone si stanno creando nuove patologie. Per la nostra generazione, le novità di comunicazione con i cellulari, sembra solo l’introduzione di nuovi “strumenti”, ma per i ragazzi non è così, siamo di fronte ad una nuova “cultura” che si sta imponendo con questi nuovi strumenti”.
Concludendo il suo intervento, Mons. Fisichella ha ricordato Benedetto XVI, Papa Francesco e, augurandosi che la Chiesa oggi sia in grado di dare quella parola di speranza che il mondo attende, ha ricordato le parole di Zaccaria, come augurio per la costruzione di una Chiesa più affidabile: “La liturgia è lo spazio di una nuova evangelizzazione (basti pensare alle persone presenti in chiesa durante l’omelia per battesimi, cresime, matrimoni… sono persone alla quali con la parola di Dio si può veramente toccare il cuore). Benedetto XVI ha detto che bisogna tendere alla “formazione di una coscienza che riguarda le domande che l’uomo pone”, nella consapevolezza che senza la Chiesa non possiamo andare da nessuna parte, perché non si cresce da soli. Ritrovare il senso di appartenenza alla Chiesa è importante quanto recuperare la nostra identità: sono questi i due poli su cui dobbiamo maggiormente lavorare. Perché se uno pensa di fare la catechesi solo perché deva fare la prima comunione, o la cresima… una volta finito non ha più niente da raggiungere! C’è bisogno di un cammino progressivo, altrimenti se chiedo “perché credi?”, che risposta mi dai? Dobbiamo portare a fare della fede una scelta di vita non un contenuto vuoto. Fede che, in primo luogo, è l’incontro con una persona: Gesù Cristo. E’ questa la nostra fede, non una serie di precetti. Dove c’è una comunità, lì c’è una comunione, se non c’è questo tutte le strutture sono maschere, sia che si chiamino consigli Pastorali, Economici, Coro, ecc. ecc. Oggi intorno vediamo troppa solitudine, che porta tanta gente ad avere bisogno di appartenere a qualcosa, c’è bisogno di essere operai in quella vigna, mediante una serie di impegni che ci coinvolgono tutti, servizi vari, attività varie, ma attenzione a diventare clericali, perché la stessa paura che ho della laicizzazione del clero, è identica per la clericizzazione dei laici. Noi non siamo stati cercati da Gesù per passare un attimo spensierato, ma per dare senso alla nostra vita: noi dobbiamo dare il sapore, il mondo ci disprezzerà quando non siamo in grado di dare la parola di speranza che attende da noi. L’effimero lasciamolo agli altri, la differenza tra la comunità cristiana e gli altri sta tutta qui. Noi in 2000 anni abbiamo considerato prezioso ciò che per il mondo non ha importanza (i malati, i bambini, i vecchi, i diseredati, gli abbandonati...), dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare, ognuno di noi, perché la comunità cristiana non concede delega a nessuno, come dice Papa Francesco, tutti siamo chiamati a costruire una Chiesa affidabile. E vi lascio con un augurio, preso dalle parole di Zaccaria: “… e allora i popoli diranno: vogliamo venire con voi, perché abbiamo visto che Dio è con Voi”.



Nelle foto, dall'alto in basso: l'autore dell'articolo Michele Scozzarra, Mons. Fisichella, due momenti del convegno e la locandina.


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(5.11.13) E SE BERLUSCONI AVESSE RAGIONE? (Angelo Cannatà) - E’ un abisso senza fondo il degrado della politica italiana. La questione della decadenza di Berlusconi è l’esempio più evidente. Non tanto per il fatto in sé - è assurdo discutere se un parlamentare condannato debba decadere o no -, quanto per la controversa questione del voto palese: dà un’arma formidabile al condannato per recitare (ancora) la parte della vittima.
La partita, tuttavia, non è chiusa; l’ultima parola spetta all’aula o al suo presidente. Intanto ci si chiede se la decisione della Giunta sia stata “giusta e saggia”. Non è una domanda priva di significato. Le procedure parlamentari prevedono il voto segreto in determinate circostanze. Perché cambiarle? Contro le leggi “ad personam” la sinistra ha polemizzato per anni; è giusto, adesso, approvare regole “contra personam” come fosse la cosa più ovvia?
Sono domande semplici, che resistono al pragmatico (e opportunistico) argomento contro il voto segreto: insomma, da quando Romano Prodi è stato impallinato dal voto dei franchi tiratori, il Pd teme – percependo la catastrofe – esiti diversi dalle indicazioni del partito. Questo è il punto. Per una questione interna, di tenuta e immagine del Pd, i progressisti “dimenticano” regole, procedure, norme vigenti in tutti i parlamenti europei. Non va bene.
Proprio perché si tratta di Berlusconi - l’avversario di sempre, vent’anni sono un’eternità - il centrosinistra dovrebbe offrirgli tutte le garanzie possibili. Si fa ancora in tempo. E’ una questione di principio: la legge è uguale per tutti, o non è. Il Cavaliere vede “confermato” oggi (così interpreta) l’argomento della persecuzione politica. Adesso è più facile fare la vittima: “L’atteggiamento della sinistra è sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale. Ma hanno commesso un autogol, visto che è ormai chiaro che vogliono eliminarmi per sempre dalla vita politica.” Insiste sulle regole e la legge. Ha ragione. Voglio dire: ha ragione nel suo modo di aver torto (perché nel merito voterei mille vote contro di lui). E’ una questione formale, ma conta moltissimo. Un noto aforisma: “L’ingiustizia è facile da sopportare. E’ più difficile sopportare la giustizia.”
Grillo rivendica la vittoria della “trasparenza”. Parola delicatissima. Si rivolta contro se i propri parlamentari vengono legati a un vincolo rigido che soffoca l’autonomia e la libertà di voto. Il tema non può essere eluso. Nonostante l’articolo 67 della Costituzione (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”), permangono nei partiti antiche pulsioni autoritarie. Mussolini al Congresso di Reggio Emilia, rivolto ai parlamentari: “La vostra autonomia politica deve essere soppressa. I deputati devono ubbidire alla Direzione (…) l’autonomia del gruppo è altamente pericolosa”.
C’è qualcosa di oscuro nel voler controllare dall’alto l’azione dei parlamentari. Vale per Grillo, che predica trasparenza senza praticarla; e per il Pd che, attraverso il voto palese su Berlusconi, controlla di fatto il comportamento degli eletti. La libertà di voto (e di coscienza), non può essere messa in discussione per contingenti fini politici. E’ tema che prescinde dagli opportunismi del momento. Insomma, il diritto e le regole non valgono solo se sono contro Berlusconi; devono valere anche quando gli sono favorevoli. Lo ha capito Rosy Bindi: “sarebbe stato meglio non forzare”. Si chiama garantismo. Molti intellettuali progressisti – anche quelli che del garantismo hanno fatto una bandiera – talvolta lo dimenticano.

Articolo apparso su Il Quotidiano della Calabria del 2 Novembre 2013

Nell'immagine: DecaDance Berlusconi.


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(7.11.13) IL GIOCO DELLA PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA (Domenico Distilo) - La sconfitta del Banana nella battaglia per la fiducia al governo Letta e quella, che si preannuncia, per la decadenza da senatore hanno fatto rinascere in molti la speranza che anche in Italia possa vivere una destra normale, europea, in una parola debananizzata. B. non è però in nessun modo fuori gioco e non deve trarre in inganno il fatto che, come altre volte è successo, i suoi avversari nello stesso campo del centrodestra abbiano la meglio. Le basi della sua forza non sono infatti nella politica ma nel sistema mediatico, soprattutto nella televisione. Se non si ha chiaro questo punto non si è capito nulla della storia italiana degli ultimi vent’anni. Il fenomeno Banana non nasce e non prospera sul terreno della politica; la partita che egli vi gioca, fin dalla “discesa in campo”, è una partita da alieno, giocata cioè con i mezzi e le risorse che nessun politico normale ha mai avuto a disposizione. E’ l’unico modo per spiegare perché, dopo ogni sconfitta politica (non elettorale: politica), egli rinasca immediatamente in televisione, ragion per cui non gli importa nulla di perdere ora questo ora quel compagno d’avventura, da Casini a Fini e ora, forse, Alfano e Cicchitto. La partita decisiva, infatti, la gioca sempre in televisione, dove sbaraglia il campo senza problemi occupandola in permanenza e senza contraddittorio nei due mesi che precedono le elezioni.
Non tenere conto di questo significa sfuggire dal cuore del problema, che non è certo nel carattere della formazione che lo sostiene o nel programma, tantomeno nel nome. Il problema, per intenderci, non è nel modo più o meno appropriato ed efficace di contrastarlo sul terreno della politica. L’autentica emergenza italiana sono le televisioni che controlla e con le quali produce l’intontimento permanente in primo luogo dell’elettorato impolitico, fatto di casalinghe, pensionati che vivono da soli o al massimo in coppia e hanno la vecchia scatola magica quale unica compagnia, giovani già attempati che proiettano nella sua icona speranze sfiorite, benpensanti all’antica che fanno fatica a immaginare cosa si nasconda sotto il doppiopetto. Sono costoro lo zoccolo duro del bananismo, zoccolo duro che resterà tale, checché ne dicano quanti pensano di saperla lunga, finché Banana potrà raggiungerli dalle televisioni. E’ inutile girarci intorno: si tratta di gente che non guarda Ballarò e non conosce Fabio Fazio, non legge giornali e non va in rete, non vuole sentire discorsi che le appaiono complicati e gli crede quando racconta che caccerà l’Imu, che la magistratura lo perseguita e se vincerà e potrà governare senza condizionamenti farà volare l’asino.
Non c’è però solo lo zoccolo duro, che per quanto duro potrebbe non bastargli. Subito dopo vengono gli intignati contro la sinistra, gente che non vota Banana perché crede alle sue panzane ma perché pensa che la migliore sinistra sia pur sempre peggio di qualsiasi destra, anche se destra in Italia vuol dire, prim’ancora che un leader pregiudicato,un personaggio quantomeno pittoresco. E’ sconcertante che, pur in possesso di normali facoltà mentali e raziocinative, questa gente scelga deliberatamente di aggrapparsi alle proprie idiosincrasie e fissazioni, probabilmente frutto di mal risolti o ancora latenti conflitti della personalità.
Aggiungeteci poi la palude degli indifferenti, dei “questi o quelli per me pari sono”, degli ammiratori dell’uomo (comunque) di successo e fama, delle vittime del suo collaudato vittimismo, degli eterni critici, di sinistra, della sinistra reale in nome della sinistra come deve essere, degli idealisti d’accatto teorici e pratici del non voto. Aggiungeteci infine l’immenso magma di qualunquismo e irrazionalismo che fuoriesce ad intervalli irregolari dalla pancia profonda della società italiana. Tutti questi elementi fanno la massa critica della profezia che si autoavvera, profezia che senza le televisioni non potrebbe in nessun modo essere costruita ed alimentata in modo altrettanto efficace.
La profezia viene costruita con alcuni temi fissi ed altri estemporanei, utilizzati in una singola campagna elettorale. I primi sono il comunismo, la sinistra delle tasse e le toghe rosse; i secondi sono stati nel 2001 le pensioni, nel 2008 la sicurezza e l’ordine pubblico, nell’ultima campagna elettorale la vicenda del Monte dei Paschi. E’ però evidente che non conta il messaggio ma il mezzo o, per meglio dire, la sintesi perfetta del mezzo e del suo abile manipolatore. Che martella nella testa dei telespettatori-elettori l’idea che non ci sono alternative alla sua vittoria, spacciata, con l’aiuto di sondaggi falsi e/o addomesticati giornalmente diffusi, come certa ed ineluttabile fino ad innescare il meccanismo dell’autoinveramento, cioè la realizzazione quale effetto della ripetizione.
Nondimeno non sono pochi anche, se non soprattutto, fuori del centrodestra, quanti affermano che la televisione non conta, senza tema di sostenere una tesi manifestamente controfattuale. Per provarla bisognerebbe infatti disputare almeno una campagna elettorale ad armi pari, cosa che dal 1994 non è mai avvenuta. Peraltro sempre, anche quando B. ha perso, la televisione è stata decisiva. Se così non fosse, del resto, non avrebbe potuto sfiorare la vittoria nel 2006 dopo aver governato per un’intera legislatura nella quale non ha combinato nulla di nulla; e non si sarebbe salvato nelle ultime elezioni dopo aver sprofondato il Paese in una gigantesca crisi di credibilità. Se lasciati liberi di ragionare, gli italiani potrebbero anche … ragionare; ma il fatto è che da quando c’è il bipolarismo sono manipolati dalla televisione e votano contro ogni logica, premiando chi non avrebbe resistito così tanto in nessuna democrazia occidentale. E neppure in Italia senza le televisioni. Ne discende che la prima cosa da fare non sarebbe la legge elettorale, ma quella sul conflitto d’interessi, costringendo il Banana o chi per lui a scegliere tra politica e televisione. Liberando così il centrodestra dall’obbligo di candidarlo perché ha le televisioni e l’Italia da un’anomalia a cui ha pagato decisamente troppo dazio.

Nella foto Berlusconi in Tv.


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(18.11.13) GALATRO CITTA' MARIANA? NON NE SONO TANTO CONVINTA (Arianna Sigillò) - Vorrei aprire una piccola parentesi che vuole essere tutt'altro che polemica.
Mi riferisco al recente
articolo pubblicato dal professor Umberto Di Stilo circa la decisione della giunta comunale (dietro suggerimento del parroco) di attribuire a Galatro l'appellativo di "città mariana" data la recente visita della Madonnina Pellegrina di Fatima.
Il professore asserisce che «la decisione di dare tale appellativo, non è figlia di vuota ambizione ma scaturisce da una inconfutabile realtà storica: il popolo di Galatro vanta una tradizione mariana che affonda le sue radici nella cultura greco-bizantina dei monaci basiliani che arrivarono nel territorio galatrese ove fondarono diversi monasteri dedicati a Maria Madre di Gesù.»
Beh, non mi ritrovo per nulla d'accordo poichè, a mio avviso, non basta la "toponomastica" nè la "presenza di numerose chiese e tempietti" in onore della Madonna a creare le "condizioni ottimali" (e concedetemi il termine) tali da poter attribuire al paese un appellativo di tale "spessore cristiano e morale".
Ciò che è alla base per meritare una così importante "onorificenza" non sono le "materialità", ossia andare a messa la domenica (per farsi vedere presenti), se poi di fatto mancano tutti i presupposti del vero Buon Cristiano, quali l'umiltà, l'umanità, l'altruismo, la convivenza pacifica, la generosità, l'umanità; mentre regnano incontrastati la cattiveria, la gelosia, il rancore, la superbia, tanta, forse troppa vanità e potrei continuare a lungo, ma non lo farò.
Neanche io posso definirmi una buona cristiana, nonostante sia molto credente, poiché sono "molto poco praticante".
Oggi durante uno dei notiziari della giornata ho visto la nuova "trovata" di quella meravigliosa persona che è Papa Francesco, ossia quella di distribuire fra i presenti in piazza una scatola contenente la più antica delle medicine, la "Misericordina" accompagnata da un foglietto illustrativo, un Rosario e la foto di Gesù. Beh, un appellativo così importante e oneroso quale quello di "città mariana" richiede un enorme cambiamento in primis negli animi di ognuno di noi, dei nostri principi e del nostro spesso "malsano convivere".

Nella foto: Arianna Sigillò.

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(20.11.13) IL NEOCOLBERTISMO E L'IDEOLOGIA DELLA CRISI (Domenico Distilo) - Alla fine del 1600, ai tempi del Re Sole e del suo Controllore generale per le Finanze, Jean Baptiste Colbert, la dottrina economica dominante era quella che prendeva il nome dal detto Controllore, appunto il colbertismo – detto anche mercantilismo -, secondo cui la ricchezza di una nazione si misura dal possesso del numerario, cioè del mezzo di pagamento, che lo stato avrebbe dovuto detenere per un valore complessivo superiore a quello delle merci importate.
L’idea di Colbert era che la bilancia dei pagamenti dovesse presentare un surplus permanente, fine per il quale egli non esitava a ricorrere a dazi e divieti d’importazione. Come la Francia di Colbert facevano un po’ tutti gli Stati europei, finché non sopraggiunse il liberismo ad eliminare tutti quei “lacci e laccioli” in nome del laissez faire, laissez passer, a cui si accompagnava, ad opera del fondatore dell’economia politica, lo scozzese Adam Shmith, il postulato della cosiddetta “mano invisibile”, che avrebbe armonizzato gli interessi particolari e quelli generali, le esigenze degli individui e dei popoli, delle società e degli Stati.
Dai tempi di Adam Shmith nessuno ha riabilitato il colbertismo come dottrina economica, salvo metterlo in pratica nell’epoca dell’imperialismo, non a caso definito da Lenin “fase suprema”, cioè terminale, del capitalismo, che secondo il futuro fondatore dell’Unione Sovietica non avrebbe retto al confronto con le esigenze di potenza degli Stati, costretti a praticare un capitalismo impossibile, privo dell’essenziale matrice liberista.
Nei decenni di keynesismo imperante il moltiplicatore dei bilanci pubblici serviva di fatto da stimolo e protezione indiretta al mercato interno in un’economia però non ancora globale. Era un modo di contemperare le esigenze degli Stati col laissez faire, che nessuno si azzardava a rinnegare, quantomeno formalmente.
Poi è arrivata, con la marea montante del liberismo, la globalizzazione, con la moneta unica concepita per dare maggior forza e competitività ad economie nazionali che, se lasciate in balia di se stesse, sarebbero state travolte.
La moneta unica avrebbe dovuto essere solo il preludio dell’integrazione delle economie nazionali. Si dà però il caso che un’integrazione effettiva richiederebbe un altrettanto effettivo trasferimento di ricchezza mediante un governo neokeynesiano della moneta, monetizzando il debito. L’imposizione del paradigma monetarista rende però addirittura impensabile quest’opzione, conservando le differenze nell’eurozona quale effetto della moneta forte. Sostenuta ora dalla Germania con l’applicazione di una ricetta di chiaro tenore neocolbertiano, l’accrescimento relativo del numerario mediante la depressione del mercato interno con salari tenuti artificiosamente bassi, assolutamente non adeguati al livello della produttività.
Così ci raccontano la favola della competitività da riconquistare per indurci a credere in un dogma ideologico, il liberismo-monetarismo, funzionale alla conservazione di una fortemente ineguale distribuzione della ricchezza in un’epoca in cui il livello delle conquiste scientifiche e tecnologiche lascerebbe intravedere il superamento della maledizione biblica, cioè della schiavitù del lavoro.
E’ evidente che la crisi non esisterebbe senza il formidabile propellente dell’ideologia della crisi, che altro non è che il corollario della presupposta ineluttabilità delle leggi e delle forze che dominano il mercato.
Il ritorno a politiche della domanda farebbe cadere il velo sull’insostenibilità di un sistema che genera ad ogni latitudine sperequazione e diseguaglianza. Vale a dire i nemici mortali della democrazia.

Nella foto: Jean-Baptiste Colbert, politico ed economista francese (1619-1683).


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(6.12.13) GALATRO... NEL CUORE DI DON GILDO (Michele Scozzarra) - Dopo avere pubblicato centinaia di bellissimi ricordi attraverso le fotografie, certamente non sono più il solo a ringraziare don Gildo Albanese per la possibilità che mi ha dato di inserire, sulla pagina del mio profilo Facebook, le foto del periodo della sua missione sacerdotale nella Parrocchia della Madonna della Montagna di Galatro (1972-1983).
Nelle foto che ho messo nell’album, senza nessun ordine cronologico e, spesso, senza riuscire a indicare i nomi delle persone fotografate, veramente si può riconoscere come nello scatto di un secondo c’è il significato di un evento che dura nel tempo, oltre alla testimonianza di una umanità di tante persone a noi care che, anche se oggi non ci sono più, continuano lo stesso a vivere nel ricordo di una bella pagina di fede di cui possiamo veramente andare orgogliosi.
Non pensavo assolutamente di ricevere tanti messaggi di “chiarimenti e ringraziamenti”. Sicuramente tanti commenti alle foto avrebbero meritano un giudizio approfondito, una lettura non superficiale di quello che hanno rappresentato per tante persone e per le tante belle storie che sono venute fuori… una realtà pienamente bella e allo stesso tempo positiva; infatti, ci ritroviamo davanti a queste foto come davanti a delle immagini “sacre”, che bene mostrano i segni dell’appartenenza ad una storia di popolo: il popolo di Dio.
Oggi è lampante che ci troviamo in una situazione “ambientale” diversa, non solo a Galatro… una situazione in cui si rischia di perdere non solo la “trasmissione delle immagini”, ma anche il contenuto che essi contengono. Per questo penso che occorre ri-comprendere queste immagini per conservarne il significato, nella consapevolezza che le radici della nostra civiltà e della nostra umanità, come cristiani e come galatresi, sono largamente segnate dalla fede e bisogna, ancora oggi (anzi oggi più che mai!) promuovere una cultura diversa che quella che i “nuovi” mezzi di comunicazione diffondono. Una cultura ed una compagnia compiutamente umana, capace di farci guardare nell’intimo del bisogno di accoglienza, affetto, comprensione, misericordia, che ognuno di noi desidera e, nel contempo, dischiudere più ampi orizzonti di “umana” esperienza quotidiana.
Una cultura e una compagnia che è maturata e cresciuta nella Chiesa, non ha escluso nessuno ed ha sviluppato, nel nostro paese, delle vicende umane affascinanti. E’ proprio in questo fascino che le immagini offrono che mi piace trasmettere, nelle loro storie nascoste, così come le ho riscoperte nelle decine e decine di testimonianze molto significative che mi sono state raccontate… si potrebbe (e chi dice che un giorno non lo farò!) scrivere un libro, una bella pagina di testimonianza di quell’amore che “non fa notizia”… ma che è l’unico in grado di dare risposta al cuore di ognuno di noi.
Ogni fotografia ha una sua storia legata all’appartenenza alla Chiesa, legata alla straordinaria presenza delle suore a Galatro (suor Teresa, suor Ginetta, suor Elena), ai parroci del tempo (don Gildo e don Agostino), legate alla compagnia di Dio che si è avuto modo di vivere in quella porzione di vigna del Signore che è la Chiesa di Galatro. E, naturalmente, come fare a non ricordare il caro Antonio, che oggi si trova nella gloria del nostro Dio che, accanto a don Gildo, ha sempre con-celebrato ogni giorno della sua vita.
Ciò che si vede in queste foto sembra veramente un miracolo… il miracolo di una bella immagine di fede che richiama le nostre radici storiche, culturali e religiose nella consapevolezza che Galatro è un albero meraviglioso, che ha radici lunghissime e sono radici cristiane. E queste radici, questa bellezza di un gusto sano di vivere la nostra vita, sono l’arma più efficace contro quel nichilismo imperante che non ha risparmiato il nostro paese: le radici culturali e religiose vengono soffocate e “scientificamente” snaturate se non c’è una compagnia “umana” che aiuti a trovare il gusto per un annuncio cristiano vivo, ricco di umanità, accoglienza, e storia.
Diceva Majakovskij che «Se accendono le stelle vuoi dire che qualcuno ne ha bisogno?» Noi, forti della vita che sprigionano queste foto non possiamo che rispondere positivamente. Abbiamo bisogno delle stelle. Abbiamo bisogno di ogni cosa bella, buona e vera, perché abbiamo bisogno di felicità. Soltanto che la felicità, come l'arte, come la vita, ha bisogno di una roccia su cui edificarsi se vuol essere una casa che resiste alle tempeste, per non crollare, come dice il Vangelo.
E… ho anche pensato copiando e adattando il “paradiso” Dostoevskij, come… “se tutti questi gentili e rispettabili lettori volessero, anche soltanto per un istante, essere sinceri e semplici di spirito, in che cosa si trasformerebbe allora a un tratto questa bellezza che trabocca da ogni foto? Cosa accadrebbe se a un tratto ognuno di loro scoprisse tutto il segreto? Cosa, se ognuno di essi, a un tratto, scoprisse quanta lealtà, onestà, quanta allegria sommamente sincera e cordiale, purezza, quanti sentimenti magnanimi, desideri buoni… Sì, in ogni immagine c’è tutto questo, è rinchiuso dentro di voi, ma nessuno, nessuno di voi ne sa nulla!... Oh, cari vi giuro che ognuno di voi è più intelligente di Voltaire, più sensibile di Rousseau, incomparabilmente più affascinante di Alcibiade, di don Giovanni e di tutte le Lucrezie, Giuliette e Beatrici! Non credete di essere tanto belli? Ma io affermo che né in Shakspeare, né in Schiller, né in Omero, e nemmeno se li mettessimo tutti insieme, si potrebbe trovare ora, in questo istante, quello che c’è tra di voi… Ma che cos’è mai Shakspeare?! Qui apparirebbe qualcosa che i nostri sapienti non si sognerebbero nemmeno. Ma la vostra disgrazia è che voi stessi non sapete di essere così belli. Non sapete che ognuno di voi, se soltanto lo volesse, potrebbe rendere subito felici tutte le persone presenti in questa sala e trascinare tutti con sé? E questo potere è in ognuno di voi, ma è nascosto così in profondità che già da molto tempo ha iniziato a sembrare poco credibile …”.
Già… se anche per noi questa “bellezza” è credibile…!
Ora, a distanza di quasi trent’anni, anche per don Gildo, usando le parole di Benedetto XVI, possiamo dire che il Signore lo ha guidato, gli è stato vicino: la Chiesa di Galatro ha vissuto con don Gildo un tratto di cammino che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; e penso che anche don Gildo, più di una volta, si sia sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea.
Il Signore gli ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma abbiamo sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e che la barca della Chiesa non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare. Ed è per questo che penso che oggi il cuore di don Gildo è colmo di ringraziamento a Dio per quel tratto di tempo che il Signore gli ha fatto guidare la Chiesa di Galatro. Una Chiesa che ancora non ha dimenticato il suo Pastore con il quale ha veramente vissuto una pagina della storia della Chiesa di Galatro… formidabile. Qui davvero è il caso di dire… formidabili quegli anni!
Per questo ritengo che queste foto, soprattutto a chi ha conosciuto in don Gildo soltanto il “monsignore di curia”, rendono testimonianza di un suo grande lavoro pastorale e di una grande missione che ancora Galatro non ha dimenticato…
E mi fa piacere finire queste mie considerazioni con l’affermazione di don Gildo che “Galatro rimane sempre nel suo cuore”: “Caro Michele, ho molto gradito le foto che hai inserito. Mi riportano, anzi ci riportano, ad anni straordinari di intenso lavoro pastorale che con impegno e serenità portavamo avanti insieme, pur con le differenze di vedute e di opinioni ma sempre nella carità, per l'evangelizzazione della nostra cara Galatro che ancora oggi a distanza di 30 anni da quando l'ho lasciata per altri impegni pastorali, considero sempre la "mia parrocchia" dove ho profuso il meglio delle mie energie sacerdotali giovanili. Galatro rimane sempre nel mio cuore… don Gildo”.









































Foto: nella prima in alto Don Gildo monsignore oggi; nelle altre vari momenti della vita parrocchiale di Don Gildo a Galatro.


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(7.12.13) LA FEDE DI GALATRO NON CRESCE MOLTIPLICANDO PROCESSIONI, VENUTE DI MADONNE, DI SANTI E DI RELIQUIE (Don Gildo Albanese) - Caro Michele,
dopo quell’esperienza di vita cristiana vissuta insieme per tanti anni e testimoniata da
queste foto che io tenevo nel cassetto e che non mi aspettavo avessero una tale risonanza, credevo che la mia storia con Galatro fosse stato un momento del passato che io tenevo gelosamente custodita nel mio cuore ricordando le cose belle, gioiose straordinarie (che sono state tantissime) che ci hanno messo in relazione di vita e le poche difficili realtà che ho dovuto affondare per purificare la religiosità popolare della mia Parrocchia e aprirla alla novità del Concilio Vaticano II.
Oggi purtroppo vedo un ritorno al passato preconciliare in tutta la realtà ecclesiale del nostro tempo, a Galatro e altrove, che mi fa veramente soffrire perché annulla tutto quel lavoro, quei sacrifici, quello zelo che noi giovani preti di allora formatici alla Scuola del Concilio abbiamo cercato di portare nella vita pastorale, ed è forse questo che ha entusiasmato voi allora.
La fede di Galatro e di ogni paese del mondo non cresce moltiplicando le processioni o ripristinando vecchie tradizioni, o con la venuta di Madonne, di Santi e di Reliquie ma con una forte e incisiva testimonianza di vita e di amore che fa vedere in ogni cristiano il Volto di Cristo, come fa Papa Francesco che è un Vangelo vivente.
La pubblicazione di queste foto, invece, mi ha confermato che il rapporto che si stabilisce nella fede è una realtà che non finisce, per questo posso dire che in Cristo Galatro è nel mio cuore come io sono nel cuore di tutti i galatresi. Di questo vi voglio profondamente ringraziare e per questo voglio ogni giorno lodare il Signore e pregare per voi perché quel poco che ho potuto darvi l’ho dato per come ho saputo nel nome del Signore con un amore ricambiato da voi. Mi sono sforzato di trasmettervi quello che avevo dentro il cuore e di cui mi ero (e sono) tremendamente innamorato: Gesù Cristo.
Sono venuto in mezzo a voi con l’entusiasmo sacerdotale dei miei anni giovanili pieno del fuoco del Concilio e voi siete stati come la “cerva che anela ai corsi di acqua” perché eravate assetati di Cristo e mi avete visto come colui che poteva estinguere la vostra sete. Di tutto questo, di queste meraviglie protagonista è sempre Lui: il Signore a cui insieme dobbiamo rendere grazie.
Vorrei, caro Michele, che questo cammino di fede che insieme abbiamo costruito non finisca ma possa continuare ad infiammare i giovani galatresi di oggi che io non conosco ma che, a volte incontrandomi casualmente, è come se mi conoscessero manifestandomi affetto perché i loro genitori, che sono stati i miei ragazzi di allora, spesso ne parlano in famiglia. A presto con altre foto.

Nella foto Don Gildo Albanese.

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(8.12.13) L'INTERVENTO DI ANDREA MANIGLIA E' STATO RIMOSSO SU RICHIESTA DELL'AUTORE - Andrea Maniglia (della Congregatio passionis Domini Nostri J. C.), dopo aver inserito ieri pomeriggio sulla nostra interfaccia facebook un commento all'articolo di Don Gildo Albanese, commento da noi riportato sul giornale previa comunicazione all'autore, ne ha richiesto stamane la rimozione.
Soddisfiamo la sua richiesta.

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(11.12.13) CONCILIO E POSTCONCILIO (Domenico Distilo) - L’intervento di Monsignor Ermenegildo Albanese (che per noi, quand’anche diventasse papa, resterà sempre affettuosamente don Gildo), suscitato dall’articolo di Michele Scozzarra con le foto rievocative dell’esperienza galatrese del giovane (allora) sacerdote cittanovese, esperienza sviluppatasi negli anni Settanta e conclusasi nel 1983, allorché le due parrocchie vennero unificate, offre lo spunto per alcune riflessioni su Concilio, post Concilio e dintorni.
Non c’è dubbio che nella storia della Chiesa il "Vaticano II" ha segnato una frattura, o quantomeno una discontinuità forte, sul piano dei riti, dei simboli e del modo concreto di vivere la fede di milioni di credenti. Frattura o discontinuità che sia, essa ha indotto alcuni (i seguaci di Mons. Lefebvre) a risolvere la conseguente e inevitabile crisi d’identità affermando l’insuperabilità della tradizione e ancorandosi ad essa in modo palesemente contraddittorio (disubbidendo al Papa con lo scisma provocato dalle ordinazioni vescovili non autorizzate che hanno attirato sulla comunità San Pio X la scomunica latae sententiae, cioè automatica).
Per altri, invece, la rottura con la Santa Sede si è consumata in nome di interpretazioni radicali dei testi conciliari che hanno rappresentato vere e proprie fughe in avanti (dal catechismo olandese alla teologia della liberazione, alle posizioni molto critiche del teologo svizzero Hans Kung), speculari a quelle all’indietro dei tradizionalisti.
Dopo il pontificato dell’amletico e tormentato Paolo VI, in cui del Concilio è prevalsa un’interpretazione complessiva molto innovativa e fortemente condizionata dalla temperie culturale sessantottesca, con Giovanni Paolo II il recupero e la preservazione della sostanza teologica ed ecclesiale del cattolicesimo sono passati attraverso la forma carismatica, per sua natura antitetica al sessantottismo. La ricaduta è stata però un eccesso di verticismo nella curia e nelle altre strutture, talora con pesanti compromissioni. Lo tsunami sollevato da Papa Francesco dovrebbe ora spazzarlo via, ma quale sarà la forma Ecclesiae che ne emergerà non è al momento prevedibile.
Il pontificato di Giovanni Paolo II ha fortemente ridimensionato, questo è certo, il “razionalismo” del Concilio o di certe sue interpretazioni che avevano rischiato di darci una chiesa cattolica fortemente contaminata di teologia protestante. Credo che nelle riserve di don Gildo sulle “venute di madonne ecc.” si riflettano le impostazioni “razionaliste” che costituiscono lo stigma della sua generazione, formatasi negli anni che immediatamente seguirono quell’evento sicuramente epocale che fu il Concilio Vaticano II.
Voler ridurre tutto questo a una grottesca contrapposizione a don Giuseppe, al suo stile e alle sue iniziative è perciò, semplicemente, da sprovveduti che non hanno la minima idea della profondità e della pesantezza delle questioni messe sul tappeto. E non avendola non trovano di meglio che sparare bordate contro il nostro giornale, reo di ospitare gli interventi invece di censurarli, che sarebbe il miglior modo di uniformarci alle loro mentali angustie.

Altri articoli sul Concilio:
Il Vaticano II e la libertà della (e nella) Chiesa (30.12.2009)


Nella foto: Concilio Vaticano II.

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(18.12.13) "VIVA IL RE!", LA CONTROSTORIA DI RE GIORGIO (Angelo Cannatà) - E’ in libreria il volume di Marco Travaglio, Viva il Re! (Chiarelettere). Sottotitolo: Giorgio Napolitano, il Presidente che trovò una Repubblica e ne fece una Monarchia. E’ un testo denso, documentato, lucido. Utile: per capire, davvero, quanto è accaduto in questi anni nel nostro tormentato Paese. Una biografia del Presidente? No. “Quella che state per leggere - argomenta l’autore - non è una biografia. Ce ne sono già fin troppe, una se l’è addirittura scritta lui. Questo è ciò che manca alle altre. La controstoria del primo presidente della Repubblica che ha concesso il bis, contro lo spirito della Costituzione…” (p. 7).
Il libro si snoda per capitoli che indicano in modo chiaro – fin dai titoli – il percorso di Giorgio Napolitano: Il Peggiorista (1956-2006); Il Pompiere Incendiario (2006-2008); Il Firmatutto (2008-2011); Romanzo Quirinale (2011-2012); L’Imbalsamatore (2012-2913)… Illuminante il prologo: La giornalista e il presidente. “Che cosa accade nelle rarissime occasioni in cui un prestigioso editorialista di un autorevole quotidiano si permette di criticare il presidente Giorgio Napolitano? Accade che spesso il presidente Napolitano telefona personalmente al malcapitato. Oppure gli scriva letterine piccate” (p. 25). E’ accaduto a Barbara Spinelli, che accetta di raccontare a Travaglio un incontro con Re Giorgio (“a quattr’occhi al Quirinale il 26 gennaio 2009”). Spinelli è ferma – felicemente libera – nella difesa dei suoi testi; rifiuta l’accusa: d’essere “tendenzialmente informata e sollecitata”. “Gli dico subito che la sua lettera è veramente molto offensiva. E che lui dovrebbe conoscere (…) il mio lavoro di una vita: avrò fatto errori, ma quel che è certo è che non scrivo a comando” (p. 28). Nel colloquio con Travaglio, si discute di De Magistris e di molto altro, ma è la libera critica (la libertà di stampa) il vero tema. L’autore di Viva il Re! pone domane: E Napolitano? E poi? Nega che sia così? “No, lui non nega mai: è un muro di gomma, inutile sbatterci contro i pugni” (p. 29). Risultato: un’immagine realistica, non agiografica del Presidente: “Sembra una persona non del tutto formata: un essere volutamente in fieri, che non ha ancora conosciuto vere prove di coraggio. Ha suscitato in me una sorta di indifferenza, di sottile noia”, dice Spinelli (p. 35).
Marco Travaglio sembra aver costruito il libro alla ricerca - oggettiva, documentale - di questa mancanza di coraggio: “Allievo di Giorgio Amendola, detto ‘Giorgio ’o Chiatto’, Napolitano è per tutti ‘Giorgio ’o Sicco’… Appena cooptato nel comitato centrale del Pci, nel 1956 viene scelto da Togliatti per esaltare la sanguinosa repressione sovietica della rivolta di Budapest.” Lo fa con zelo. Opponendosi all’amico Antonio Giolitti, che difende la rivoluzione ungherese (pp. 37-38). Non è una prova di gran coraggio. Anzi.
Di più: nel 1964 plaude sull’“Unità” alla decisione di Mosca di espellere Solzenicyn, autore di Arcipelago Gulag; nel 1970 esalta Lenin come “guida geniale”; nel 1981 attacca Berlinguer “rimproverandogli i rapporti conflittuali con Craxi” (p. 41). Aveva ragione Berlinguer, naturalmente. Denunciava la corruzione e la “deformazione antropologica” (l’espressione è di Scalfari) del Psi. Ma a Re Giorgio importavano poco queste cose, costruiva un legame particolare con Bettino che gli tornerà utile un decennio dopo: nel 1992, in piena Tangentopoli, “Craxi e la Dc preferiscono Napolitano al ‘moralista’ Stefano Rodotà come presidente della Camera” (p. 42). Resta da capire perché Scalfari che, in quegli anni, solidarizzava con le denunce di Berlinguer (cfr. la celebre intervista su Repubblica), oggi sia – talvolta in modo acritico – appiattito nella difesa assoluta di Napolitano. Ma questo è un altro discorso.
Lo spazio non ci consente di approfondire, come vorremmo, tutti i temi di Viva il Re! Procediamo per rapidi cenni: la corrente “migliorista” di Napolitano non brilla per coerenza politica: “Anche a Napoli i miglioristi – ormai ribattezzati dalla satira ‘piglioristi’ – finiscono nei guai per storie di metropolitana” (p. 43). E’ l’incipit di un racconto-denuncia e di pagine molto pungenti: “Giorgio e Silvio, prove tecniche di inciucio” (pp. 50-53); “Silenziare lo scandalo Rai-Mediaset” (pp. 86-88); “Padoa-Schioppa, Prodi e il ‘pompiere incendiario’” (pp. 98-110): qui, la storia del secondo governo Prodi viene svelata attraverso informazioni inedite che “mostrano” - più esattamente: mettono a nudo - la personalità molto “particolare” di Napolitano: “Il ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa – leggiamo – matura la convinzione che Napolitano abbia fatto di tutto per indebolire, logorare, talvolta boicottare l’esecutivo dell’Unione. E lo scrive in alcune pagine del suo diario che l’autore di questo libro - dice Travaglio - ha avuto il privilegio di poter leggere” (p. 98). Insomma, il Presidente della Repubblica, nei giorni cruciali della crisi, “soffia sul fuoco anziché spegnerlo” (p. 99) e Prodi viene sconfitto.
La verità è che ormai Napolitano non agisce più da personalità super partes, fa politica inseguendo/elaborando/imponendo il suo progetto di larghe intese: “nel 2011 coronerà finalmente il suo sogno con Mario Monti e poi con Enrico Letta: non dovrà più neppure interferire nelle scelte dei governi, essendo di fatto anche il Presidente del Consiglio” (p. 110). Dopo il capitolo “Il Firmatutto (2008-2911)”, Travaglio affronta l’altro tema decisivo del libro: la Trattativa Stato-mafia. Titolo: “Romanzo Quirinale (2011-2012)”. Nonostante venga definita la “cosiddetta” Trattativa e molti continuino a usare il condizionale, Travaglio dimostra, in pagine convincenti (“Il grande ricatto”, pp. 239-242 e seguenti), che la trattativa c’è stata e spiega il senso delle telefonate di Mancino a Napolitano: “se qualcuno, a nome e per conto dello Stato, nel 1992-‘93, ha partecipato alla trattativa, o l’ha assecondata (…) e ora vent’anni dopo, si ritrova nei guai con la giustizia e abbandonato col cerino in mano, ha diritto” – così penserà – “a una tutela da parte dello Stato fin dal suo vertice massimo” (p. 239). L’argomento è noto: Napolitano viene coinvolto nell’affaire dalle telefonate con Mancino. Muore d’infarto il Consigliere D’Ambrosio. Il Presidente auspica/cerca/vuole/e infine “impone” - con la forza del proprio ruolo - di bruciare le registrazioni delle telefonate scomode. A nulla valgono le analisi d’insigni giuristi (“Zagrebelsky contro Napolitano e Scalfari”, pp. 295-299): il “coraggio” del Presidente gli consiglia di troncare, sopire, cancellare.
E’ materia scottante quella di cui stiamo parlando. Travaglio, alla luce delle recenti affermazioni di Totò Riina, commenta: “Se emergesse che il marchio Stato-mafia non è impresso solo sulla Trattativa, ma anche sulle stragi che la originarono (…) Riina apparirebbe non più un protagonista, ma un comprimario o addirittura una pedina di un gioco più grande che strumentalizzò Cosa Nostra nel ruolo di manovalanza...” (il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2013). E’ un quadro inquietante. A maggior ragione, dunque, i magistrati di Palermo fanno bene a insistere: il Capo dello Stato deve presentarsi in alula: “la lettera – che ha inviato alla Procura - non è sostitutiva della testimonianza”.
I capitoli finali di Viva il Re! sono dedicati a Napolitano “Imbalsamatore (2012-2013) e alla tela che ha saputo tessere per la ri-elezione (“Sir Bis, 2013-2020?): importanti i paragrafi “Patto Ribbentrop-Molotov all’amatriciana” (pp. 402-405); “Se fai il bravo, ti do la grazia” (pp.568-572). E’ un quadro da cui emerge – lo dicevamo – un Napolitano diverso da quello dei testi agiografici; che è sceso (molto) in tutti i sondaggi; che Beppe Grillo vuole sottoporre al giudizio del Parlamento. Si esagera? Vale il giudizio di Spinelli: “Perché ciò che è usuale nei più presidenziali dei regimi democratici, la critica al Presidente, sembra essere vissuto in Italia come un’offesa all’Istituzione?” Insomma, i motivi per esercitare il diritto di critica sono infiniti: “Fra uno strappo oggi, una forzatura domani e un abuso dopodomani, Napolitano è diventato quello che tutti vediamo: il capo dello Stato di Emergenza, di Eccezione e di Necessità, che tutto può, anzi tutto deve… Può un Presidente della Repubblica che ha giurato sulla Costituzione modificarla progressivamente a sua immagine e somiglianza, e intanto sollecitare continuamente i partiti a riformarla?...” Re Giorgio bastonava Cossiga (“quando il Pds preparava l’impeachment”): “Ce n’è abbastanza per immaginare che oggi - scrive Travaglio - il Napolitano del 1991 chiederebbe le dimissioni del Napolitano del 2013”. Impossibile non dargli ragione.

Articolo apparso su Il Quotidiano della Calabria del 14 Dicembre 2013

Nella foto: la copertina del libro di Marco Travaglio "Viva il Re!".


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(19.12.13) NATALE IERI E OGGI (Umberto Di Stilo) - Il progressivo miglioramento del livello di vita ha fatto sì che il Natale, la festa più attesa dell’anno, si andasse connotando in maniera diversa rispetto al passato. Il rituale natalizio, infatti, che nel corso dei secoli ha conosciuto apogei e declini, è oggi interpretato soprattutto in chiave consumistica, fagocitato com’è dagli inesorabili meccanismi del mercato.
Nei paesi e neri rioni cittadini, la festa che ai fedeli ricorda la nascita del Salvatore viene annunciata da ossessive salve di bombette, poste in vendita senza le opportune cautele, che millantano la loro innocuità con una accurata stardardizzazione: allineate come le munizioni di una minuscola mitraglia, colorate e ben confezionate, non denunciano alcuna parentela con le castagnole di un tempo, avvolte nella carta da imballaggio e tenute assieme alla meno peggio con uno spago.
I bambini le prediligono non tanto per la loro originaria funzione di manifestazione di gaudio, ma perché fatte detonare in sale di videogames, atrii di scuole, aree attrezzate o trombe di scale seminano sgomento e fanno sobbalzare anche i “grandi”. Nei giovanissimi, con questi accessibili artifizi, emerge il singolare gusto di riprodurre modelli comportamentali più violenti di quelli degli adulti.
Le strade più eleganti delle città sono costellate di luminarie che ammiccano ai passanti in corrispondenza degli esercizi commerciali affollati da gente con lo sguardo spento, perché atterrita dalla consapevolezza che la crisi impedisce di comprare anche il minimo indispensabile per solennizzare la festa e per soddisfare le richieste dei componenti più piccoli della famiglia. Le stelle comete non segnalano al viandante la capanna della Natività, ma i supermercati e i negozi più alla moda.
Rosse stuoie richiamano i passanti e li inchiodano davanti a sfarzose vetrine che ammanniscono le più svariate merceologie tra gli sfolgoranti stereotipi natalizi, sconfinanti quasi sempre nel kitsch. Anche le tradizionali melodie, diffuse quasi ovunque da apparecchi ad alta fedeltà, risuonano con un timbro diverso; alle loro note si sovrappone un messaggio occulto che dice: “santifica la festa con i tuoi acquisti, sii liberale ed improvvido nel donare, sciupa tutto quello che puoi permetterti ed anche quello che non puoi...”.
Procede spedita la nostra civiltà, tanto spedita che sembrano remotissimi quei Natali scanditi da ben altri ritmi e trascorsi nel sano calore familiare, perché era la famiglia il “luogo sacro” nel quale si dovevano vivere le feste dicembrine di fine anno. Il vecchio adagio ricordava (e ricorda) infatti: “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi…”. E per trascorrere il Natale in famiglia, attorno al focolare domestico, c’era chi affrontava viaggi di migliaia di chilometri. Per questo, oggi che il Natale ha assunto la connotazione di una festa consumistica, sembra che appartengano ad un’altra vita gli episodi che avevano per protagonisti interi nuclei familiari indaffarati a tirare fuori dalla paglia i pastori di terracotta con le tipiche bisacce ricolme di ogni ben di Dio; il caratteristico pastore incantato dal fulgore degli angeli annuncianti la buona novella; il bue e l’asinello mollemente accovacciati; l’austero San Giuseppe e la Madonna circonfusa di sovrumana dolcezza, ed infine il Bambinello che protende manine e piedini nell’atteggiamento di chi si offre ad un ecumenico abbraccio.
E, mentre i più giovani portavano manciate di muschio e di ghiaia, in un angolo della stanza più grande della casa, mani esperte realizzavano il presepe, cuore pulsante del Natale cristiano, modellavano la grotta di cartapesta, creavano laghetti con pezzetti di specchio, animavano una coreografia consueta ma sempre diversa con le casette di sughero ed i personaggi caratteristici che attendono alle loro attività con una fissità che sembra preludere all’evento prodigioso.
In alcuni paesi dell’Aspromonte e dell’Alta Sila la vigilia di Natale si festeggiava con giganteschi falò che duravano per molti giorni, e talvolta addirittura fino all’Epifania. La raccolta della legna era un rito collettivo rigorosamente notturno, dal momento che solo di notte gli uomini erano liberi da impegni di lavoro, e anche perché bisognava prepararsi all’atmosfera della festa di mezzanotte. I ceppi, talvolta giganteschi, venivano trascinati con catene per le vie del paese, tra canti e grida di incitamento.
Il colossale falò, che nell’immaginario collettivo doveva scaldare Gesù Bambino, in realtà raccoglieva una rumorosa brigata di popolani che sfidavano la gelida nottata stringendosi attorno alla catasta in fiamme per mangiare dolci tipici o, più semplicemente, per rosicchiare le saporite castagne infornate accompagnate da un bicchiere del nostro vino aspro e nero che allontana i pensieri di una vita monotona e grama.
Già in prossimità del Natale le laboriose mamme calabresi cominciavano ad armeggiare intorno ai fornelli per preparare le pietanze prescritte dalla consuetudine per la cena della vigilia: stoccafisso, baccalà, cavolfiore ed altre leccornie che non fossero a base di carne. E ponevano attenzione perché sulla mensa trovassero posto ben tredici qualità di frutta tra cui le noci, i fichi secchi e le nocciole.
Nella cena di Natale, comunque, il posto d’onore era riservato alle “zippole” fragranti, le tradizionali ciambelle fritte, realizzate con un impasto di farina e patate, spesso rese ancor più sapide da pezzetti di acciuga sotto sale, che coi loro riflessi dorati conferivano al più umile desco un tono sontuoso.
Una tradizione – fortunatamente non ancora completamente tramontata - era la cosiddetta “novena” con la messa “ante lucem” che richiamava in chiesa moltissimi fedeli e con la musica natalizia che, eseguita molto prima dell’alba lungo le vie principali del paese da gruppi di giovani suonatori di fisarmonica, tromba e triangolo aiutava adulti e bambini a svegliarsi ed a riprendere le attività del nuovo giorno con il ricordo del grande evento religioso che si sta approssimando. In molti paesi c’era la “novena” dei ragazzi, che a gruppi più o meno nutriti, sul far della sera, si soffermavano sulle soglie delle case per suonare melodie natalizie, ricevendo in dono dolciumi e denaro.
Per i ragazzi il Natale era l’occasione di evasione più autentica, sia per i regali che ricevevano dai parenti che per le mance elargite dai maestri artigiani che li tenevano a bottega, ma soprattutto per il clima di estrema tolleranza e benevolenza nei loro confronti.
Negli spiazzi e nelle vie meno frequentate i ragazzi si radunavano per giocare alle nocciole. Questo gioco, che a Galatro era il più popolare e caratteristico del Natale assieme alla tombola, si praticava così: attorno ad una buca scavata nella terra oppure ottenuta rompendo un angolo di piastrella del pavimento di casa, si disponevano i giocatori che, a turno, dopo aver posto le dodici o sedici noccioline sul palmo di una mano, cercavano di farle cadere nella buca. Se il giocatore riusciva ad imbucare un numero pari di noccioline (da cui il nome “parìa”) vinceva la posta in palio, e così di seguito fino a che nella buca non cadevano noccioline in numero dispari. In tal caso risultava vincitore colui che aveva accettato la sfida del giocatore.
Trattandosi di un gioco in cui veniva premiata la destrezza, i più abili riuscivano a portare a casa, ben stretto nelle mani insudiciate dal frequente contatto col fango della strada, un cospicuo gruzzolo, tra gli sguardi carichi di ammirazione e di invidia dei coetanei. I ragazzi che non avevano un “capitale” sufficiente per giocare alla “parìa” si accontentavano di erigere dei piccoli castelli con le poche noccioline possedute, accostandone tre e mettendone una sopra. Poi, da una distanza di circa dieci metri, con una nocciolina più grossa si dovevano abbattere quanti più castelletti si poteva, divenendo proprietari di quelli disfatti.
Un altro gioco di abilità era quello della trottola, ovvero del “piroci” di legno dalla caratteristica forma di pera. Sul corpo del giocattolo il tornitore ricavava una fitta serie di scanalature, attorno alle quali si avvolgeva ben stretto lo spago che avrebbe impresso, con un rapido gesto del braccio, il vorticoso moto. Il gioco più diffuso consisteva nel centrare col lancio del sibilante arnese quello del compagno, posto al centro di un cerchio disegnato per terra.
Riservato alle bambine era il gioco della settimana o “silòca” (dal latino silex = pietra) consistente nel compiere un percorso simile ad un labirinto saltellando su di un solo piede e per di più spingendo un ciottolo. Alla prova partecipavano di solito quattro concorrenti, ed alla fine la coppia sconfitta, tra gli schiamazzi dei presenti, doveva portare sulle spalle la coppia vincitrice.
L’unico svago che resiste al vento degli anni e che mantiene quasi immutato il suo carattere di gioco familiare e natalizio è la tombola. Difficilmente, però, si formano ancora le grandi riunioni di parenti, vicini di casa ed amici che, accalcati attorno ai grandi camini o ai bracieri accesi, rendevano allegre le lunghe e chiassose serate, aspettando pazientemente di fare “rigo” o “cartella” segnando i numeri con i fagioli o le bucce di arancia per poi annunciare gioiosamente ad alta voce l’eventuale vincita.
Il susseguirsi dei numeri era l’occasione per uno scambio di battute scherzose che si intrecciavano come innocui colpi di fioretto tra i giocatori più arguti e fantasiosi.
Ormai anche il Natale è stato fagocitato dal totem televisivo. Quel “magico” apparecchio calamita l’attenzione di tutti ed i nonni non trovano più lo spazio e l’attenzione necessaria per raccontare i loro ormai lontani Natali ai nipotini. Da parte loro, questi ultimi, preferiscono impiegare il loro tempo sui moderni e sofisticati tablet che con l’impiego di videogames sostituiscono i semplici giochi dei loro genitori.
Nelle diverse ore del giorno, frotte di ragazzi, infagottati in cappotti e giacconi firmati dai marchi di moda, percorrono frettolosamente i viali della città e nel passare davanti ai presepi allestiti da uomini di buona volontà, con i capelli bianchi e le mani nodose e ruvide come gli antichi ceppi dei nostri ulivi, non si girano neppure per dare uno sguardo superficiale a quelle opere che simboleggiano la festa cristiana più importante per tutta l’umanità. Verrebbe voglia di rincorrerli e di spiegare loro di quante cose belle, di quanta poesia sono stati derubati dallo sfrenato modernismo. Ma non è giusto. E’ festa comunque; è festa per tutti; è festa anche per loro.
Ed allora: Buon Natale anche a voi, ragazzi!

Nella foto: luminarie natalizie.


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(23.12.13) A PROPOSITO DEL LIBRO DI TRAVAGLIO RECENSITO DA ANGELO CANNATA' (Domenico Distilo) - Caro Angelo,
credo che
quando stai dalla parte di Travaglio contro Napolitano tu non tenga conto di alcuni fatti inoppugnabili, il primo dei quali è che in Italia la traduzione del giornalismo in politica ha provocato immani disastri, dal dannunzianesimo al mussolinismo, per giungere, si parva licet…, a casi recenti o ancora attuali.
Travaglio è il tipico esemplare di giornalista italiota irresponsabile, irresponsabilità che se da un lato è strutturale, poggiante cioè sul fatto che il giornalista, a differenza del politico, tanto più se il politico è il Capo dello Stato, non è tenuto a preoccuparsi delle conseguenze, dall’altro è spesso alimentata da uno spirito di faziosità che è nel nostro dna e non trova riscontro altrove in Occidente.
Basta considerare quelle che sarebbero state le conseguenze di certe scelte che, secondo Travaglio, Napolitano avrebbe dovuto fare, per veder risaltare la distinzione weberiana tra responsabilità, appunto, e convinzione e per comprendere fino in fondo come il bene e il meglio quasi mai stanno dalla stessa parte.
Andando al sodo: cosa si rimprovera a Napolitano? Di aver favorito il governo delle cosiddette larghe intese? D’accordo, Berlusconi olet – e io sono uno che la puzza del Banana l’ha sempre sentita! - ma quali sarebbero state le alternative? Un governo con Grillo? Tornare alle urne col porcellum? Prospettive la prima delle quali manifestamente irrealistica, la seconda devastante: ci saremmo ritrovati con lo spread ad altezze astronomiche ed il rating del debito in caduta libera.
O gli si rimprovera, come par di capire, di essere stato rieletto? Ma a parte il fatto che Prodi o un altro candidato solo di sinistra non sarebbe stato eletto (neppure senza i famosi 101 franchi tiratori) semplicemente perché i numeri non c’erano, è solare che la rielezione di Napolitano è avvenuta a garanzia delle larghe intese, ne ha cioè costituito l’imprescindibile presupposto. In sintesi: senza rielezione, niente grandi intese; senza grandi intese, le conseguenze di cui sopra. Dunque, di che stiamo parlando?
Quanto alla questione nata dalle intercettazioni della procura di Palermo, basterebbe chiedersi in quale paese del mondo, o anche solo in quale democrazia occidentale, il capo dello Stato è così esposto a qualsiasi estemporanea iniziativa della magistratura così come lo sarebbe in Italia se Napolitano non avesse chiamato in causa la Corte Costituzionale. Dove finirebbe la divisione dei poteri, fondamento di ogni regime liberale? E’ una domanda che non si può non porre, a meno di non confondere giustizia con giustizialismo, infilandoci nel cono d’ombra del giacobinismo.
Ma Travaglio non si accontenta di censurare pesantemente il Napolitano presidente. Va indietro per fare le pulci al Napolitano esponente di spicco dell’ala cosiddetta migliorista del PCI cresciuto alla scuola di Giorgio Amendola. La cosa ha dell’incredibile. Infatti delle due l’una: o si scade nell’anticomunismo becero e propagandistico à la Berlusconi deprecando il fatto stesso che il PCI sia esistito; o si pensa che sarebbe stato preferibile per Napolitano stare nella corrente stalinista di Pietro Secchia, quella che teneva le armi dei partigiani nascoste per la “seconda ondata”.
No, caro Angelo, questo attacco a Napolitano non mi convince per nulla. Anzi, ti dirò: vedo ripetersi la vecchia storia dell’estremismo di sinistra che collude oggettivamente con la destra. I contrapposti radicalismi sono oggettivamente alleati contro il riformismo e il centrosinistra per affossare, come ai tempi degli attacchi forsennati e concentrici di Salvemini e D’Annunzio a Giolitti, ogni seria prospettiva di modernizzazione e cambiamento. Infatti il dibattito politico in Italia si è ormai ridotto a parlare da mane a sera degli stipendi dei parlamentari. Come se fosse quello il problema dei problemi.

Nella foto: Giorgio Napolitano.

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(23.12.13) A PROPOSITO DELLA RECENTE POLEMICA SUSCITATA DAL MIO INTERVENTO (Don Gildo Albanese) - A proposito della recente polemica suscitata dal mio intervento sulla visione conciliare e preconciliare della pastorale oggi e che è stato inteso come attacco ad personam, vorrei suggerire, a quanti amano identificare la fede con le tradizioni religiose, la recentessima Lettera Pastorale di Mons. Luigi Renzo, Vescovo di Mileto, Nicotera, Tropea: "Pietà popolare. Da problema a risorsa pastorale."
Di questa Lettera cito un brano apparso su "Avvenire" del 20 u. s. a pag. 27: «La pietà popolare è religione del cuore, non dell'esteriorità. Il grande pericolo che possiamo correre è di restare emozionati, incantati, sviati dalle grandi folle di pellegrini nelle feste religiose, senza considerare che spesso il cuore di quella gente è lontano da Dio, dal prossimo, dalla giustizia, dai poveri.»
Penso che su una questione così delicata non si possono emettere sentenze partendo dall'emozione, dal sentimento o dal sentito dire, ma la stessa va affrontata con una carica culturale di base senza la quale non si può essere obiettivi.
Nel ringraziare del servizio che svolge questo giornale, auguro a tutta la Redazione un Santo Natale.

Nella foto: Don Gildo Albanese.

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(24.12.13) BUON NATALE A TUTTI QUANTI... NESSUNO ESCLUSO! (Michele Scozzarra) - Nel dopoguerra mai il nostro Paese è sembrato a pezzi come in questo tempo di crisi: non solo sembra essersi abbattuto su di noi un disastro morale e materiale, ma pare che non si veda con chiarezza una via d'uscita. Al di là dell'accusata inefficienza dello Stato, a trovare la strada giusta per fare uscire il Paese da questo, ormai lungo e deleterio, periodo di grave difficoltà sta una grande incapacità di unità del popolo italiano, una unità che sappia far fronte a quanto succede, così che anche l'indignazione e l'impeto generoso rischiano di creare, e spesso di fatto creano, più disordine che ordine, più confusione che soluzione.
Sembra che la speranza abbia raggiunto, in questi mesi, il massimo del suo impoverimento e leggendo i giornali, guardando la televisione, sentendo i discorsi della gente si intuisce come un calare di una tenebra sulla speranza degli uomini. Una tenebra che in questo Natale del Signore dell'anno 2013, ci riempie il cuore di tristezza e di paura: abituati come siamo a guardarci nel fascino un po’ volgare del nostro benessere, in questo terribile modo di distrarci e di dimenticare, abbiamo trascurato il gusto della vita, non sappiamo più quali sono le cose "vere", quelle che rendono la vita degna di essere vissuta.
"Non chiudiamoci nel nostro Natale" recitava un serioso manifesto che ho visto sui muri di Roma qualche anno addietro. Come se il problema è solo di un giorno o due all'anno e la qualità degli altri giorni non interessa, dimenticando che non si può "fingere" solo per un giorno di essere buoni, perché gli slanci del sentimento durano solo "lo spazio di un mattino".
Nessuna meraviglia, dunque, se passate le feste, ci si dilegua nel facile anonimato dei paesi e delle città. Che cosa maledettamente complicata, la fede cristiana, penseranno in tanti. E che strana gente hanno incontrato... sembra gente "auto-occupata" in attività e discorsi che non hanno nessi reali con la vita normale. "Professionisti dell'entusiasmo" (cioè, come annotava Pavese nel suo diario: "la più nauseante delle insincerità"). Difficile dargli torto. D'altronde è la medesima impressione che ha manifestato, tempo addietro, l’allora cardinale Ratzinger: "E' diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica del darsi da fare. A ciascuno si cerca di assegnare un comitato, o in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa. In qualche modo così si pensa, ci deve sempre essere un'attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa... E' un pò una perversione dei fattori umani e crea quell'autoccupazione della Chiesa con se stessa, che non è più disponibile alla testimonianza".
Una volta chi si riaccostava alla Chiesa, dopo mesi o anni di latitanza, percepiva un messaggio semplice e chiaro. C'erano i dieci comandamenti da rispettare, e soprattutto un confessionale che dispensava il perdono anche ai peccatori più incalliti. Per il resto il battesimo e la partecipazione al precetto festivo abilitavano anche la povera casalinga con la quinta elementare ad essere membro a pieno titolo della comunità cristiana. Queste poche cose essenziali salvavano dai danni di un luciferino moralismo che è sempre in agguato.
Se un cristiano molto incoerente del V secolo fosse entrato in una chiesa di Roma, sicuramente non veniva bombardato da una lista astratta e complicata di cose da fare, ben altro accento di speranza avrebbe percepito nelle parole di Leone Magno: "Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita... Nessuno è escluso da questa felicità... Esulti il santo perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano perché è chiamato alla vita".
Fu tutto più semplice, anche per quei poveri pastori della Palestina. Nessuno gli chiese di essere più buoni. Di impegnarsi di più. Di ripetere discorsi. Si imbatterono, mentre erano dediti alla loro normale occupazione, in una presenza straordinaria, ma umanissima: una ragazza aveva dato alla luce un bambino. C'era solo da andare a vedere. Tutti quanti... nessuno escluso!
Buon Natale…

Nella foto: Sacra famiglia in viaggio.


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(27.12.13) SUL GIORNALISMO / DI MATTEO, NEMICO DELLA MAFIA E INVISO ALLO STATO (Angelo Cannatà) -

SUL GIORNALISMO
risposta a Domenico Distilo

Caro Domenico,
ti ringrazio per le riflessioni e
il tempo che dedichi alle mie parole. C’è garbo e intelligenza nel tuo testo, passione e volontà di comprendere. Stile. Naturalmente non condivido nulla di quello che dici. Ribadisco le mie tesi. Ma questo è un altro discorso: il pluralismo delle idee è una ricchezza, l’essenza della democrazia.
Il giornalismo deve – questo penso – controllare le distorsioni del potere. E’ stato così negli Stati Uniti, con l’inchiesta “Watergate” che costrinse Nixon a dimettersi; così in Italia, con le denunce di Camilla Cederna, che portarono alle dimissioni di Leone. Eccetera.
Se il principio guida non è la denuncia, caro Domenico, non si fa giornalismo, ma un’altra cosa. D’Annunzio non sbagliò a criticare Giolitti (esprimeva un punto di vista, errato ma legittimo). Smise di essere giornalista quando si uniformò al regime fascista. E’ molto più di una sottigliezza, se ci pensi.
Infine: da tempo “il Fatto Quotidiano” attacca Napolitano, lo faccio anch’io su quelle pagine, prendendo le distanze (sul tema) da Scalfari.
Il testo che segue in basso è di pochi giorni fa: 21 dicembre 2013. Non “dice” cosa intendo per giornalismo, “mostra” come lo pratico. Spero sia utile. Questo è tutto.
Un caro saluto e buone vacanze a te e ai lettori di "Galatro Terme News".
Angelo Cannatà


Caro Angelo,
non puoi farti sfuggire che l’Italia non è l’America e la tradizione anglosassone dei “fatti separati dalle opinioni” purtroppo ci appartiene ben poco. Del resto, se così non fosse non avremmo la storia che abbiamo.
Bob Woodward e Carl Bernstein non erano pregiudizialmente contro Nixon e non usarono contro di lui espressioni del tipo “boia labbrone”. Il guaio del giornalismo alla Travaglio è che muove da convinzioni, non dalla spassionata ricerca dei fatti.
Quanto al pamphlet della Cederna, a parte che il tempo ha dimostrato come la sua ricostruzione della “carriera di un presidente” fosse molto caricaturale e poco fattuale, Leone non fu travolto dallo scandalo giornalistico, ma dalla decisione del PCI di Berlinguer – che faceva parte della maggioranza di governo - di chiederne le dimissioni, prontamente concesse da una DC ancora sotto lo shock del caso Moro (era trascorso poco più di un mese dal ritrovamento del cadavere).
Beh, carissimo Angelo, non è certo una disgrazia avere idee molto diverse. Io mi ritengo però molto più al sicuro di te dai pentimenti che potrei avere un giorno per avere, sia pure con tutte le buone intenzioni, assecondato derive populiste potenzialmente generatrici di tragedie storiche. Probabilmente dipenderà dal fatto che in gioventù tu hai letto con trasporto la Critica della ragione dialettica, mentre io mi sono limitato a leggerla.
Ricambiandoti gli auguri, ti aspetto per continuare la discussione faccia a faccia.
Domenico Distilo

* * *

DI MATTEO, NEMICO DELLA MAFIA E INVISO ALLO STATO
Angelo Cannatà

Ci sono delle cose che si sanno ma delle quali non si ha piena consapevolezza. Un esempio: sappiamo che Totò Riina “vuole la morte” del magistrato Nino Di Matteo; sappiamo che lo stesso magistrato è sotto procedimento disciplinare al Csm; abbiamo capito (anche) l’indecenza della coesistenza di questi fatti?
L’intervista di Travaglio a Di Matteo evidenzia la dimensione umana del magistrato: “Se mi guardo intorno e rifletto, mi dico che non vale la pena sacrificare tanti momenti di libertà miei e delle persone che mi stanno accanto. Poi però prevale la passione per la bellezza del lavoro di magistrato.” La bellezza. E’ la parola che mi ha colpito di più. Siamo di fronte a un uomo minacciato di morte. Eppure parla della bellezza del suo lavoro. Si può sorvolare su una frase così? Soprattutto: si può non capire (ancora) che un uomo così è sotto procedimento disciplinare al Csm? Il Presidente della Repubblica è contestato da tempo – anche da chi scrive – per molte prese di posizione. Improvvisamente mi è apparso chiaro, tuttavia, che la sua colpa maggiore è diametralmente opposta: il silenzio. Non mi riferisco alla Trattativa Stato-mafia. Penso proprio al silenzio, assordante, sulla tragica situazione vissuta da Di Matteo.
Insomma, non c’è dubbio che Di Matteo debba sottostare alla legge scritta (e al procedimento disciplinare del Csm); è altrettanto vero, però, che questo procedimento è vissuto come ingiusto dall’affetto e dal cuore (dal diritto naturale) di milioni di italiani. Che cosa ha fatto di così grave Di Matteo? E’ questo il punto: di grave non ha fatto nulla. Mi si “accusa di aver leso le prerogative del capo dello Stato con un’intervista in cui spiegavo le procedure per la distruzione delle telefonate… fra lui e Mancino. (…) E’ la prima volta che si esercita l’azione disciplinare contro un magistrato per un’intervista.” Ecco. La prima volta. E la si esercita, pensate un po’, contro chi da vent’anni lotta la mafia, rischia la vita, è al primo posto nelle premurose attenzioni di Toto Riina. Situazione tragica e assurda. Perché il magistrato espone se stesso al pericolo per difendere la legge; e la legge – un certo modo da azzeccagarbugli – lo persegue, delegittimandolo.
Presidente Napolitano – lo dico col massimo rispetto – è sicuro che non possa far nulla per sanare una situazione così anomala?
Pensa davvero che tenere “sotto procedimento disciplinare” (per un’intervista), un magistrato che Riina vuole uccidere, dia lustro allo Stato?
Ritiene che i fatti qui evidenziati aumentino la fiducia nelle Istituzioni?
E’ sicuro, Signor Presidente, che Lei non debba adesso, subito, senza indugio, far ritirare quell’ “atto di incolpazione”?
Si può servire lo Stato in mille modi, anche favorendo le non condivisibili larghe intese. Ciò che non è possibile è chiudere gli occhi di fronte all’evidenza: e l’evidenza qui è la “non colpevolezza” di Di Matteo. Quali “colpe” si vogliono trovare, da parte di quali giudici, di quale corte, se - in realtà - l’imputato è innamorato della “bellezza del suo lavoro” nonostante la condanna a morte decretata da Riina. Ci pensi, Presidente. Eviti che il magistrato Di Matteo venga percepito da tutti – con plastica evidenza – come perseguito, contemporaneamente, dalla mafia e dallo Stato.

Articolo apparso su Il Fatto Quotidiano del 21 Dicembre 2013

Nelle foto, dall'alto in basso: Angelo Cannatà e Domenico Distilo.

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(31.12.13) NELL'ULTIMO GIORNO DELL'ANNO 1948 PARTIVO PER BUENOS AIRES (Bruno Zito) - BUENOS AIRES. In questa data, quando finisce l’anno, ricordo che sono partito da Galatro. Avevo appena 15 anni e arrivai a Buenos Aires il 14 Maggio 1949.
Ho avuto la possibilità di ritornare nel mio paese parecchie volte e spero di farlo anche più avanti. Sebbene l’Argentina mi ha accolto con molta generosità, e di questo le sono molto grato, mai mi sono dimenticato delle mie origini, dove ho lasciato la mia fanciullezza. Ho sempre ho avuto presente “Via Giudecca, Crucivia, Metramo, la piazza, le chiese, le scuole” e specialmente Santa Maria dove insieme alla mia famiglia trascorrevamo l’estate.
Oggi, 30/12/2013 ho avuto il desiderio di scrivere a TUTTI I GALATRESI per salutarvi e augurarvi un buon anno, pace e lavoro. Prego Dio affinchè tutti voi abbiate una vita piena di amore.
Per ultimo voglio dirvi che mi sento molto orgoglioso di essere nato nella nostra cara Galatro che mai dimenticherò.

Bruno Zito

Nella foto: l'avv. Bruno Zito.


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(31.12.13) A PROPOSITO DI NAPOLITANO E DEL GIUDICE DI MATTEO (Pasquale Simari) - Lo stimolante confronto dialettico ospitato sulla pagine di Galatro Terme News, che vede contrapporsi i differenti giudizi di Domenico Distilo e Angelo Cannatà (che colgo l’occasione per salutare, congratulandomi per la sempre più brillante produzione letteraria e giornalistica) sull’operato del Presidente della Repubblica Napolitano e, di riflesso, sulla natura della campagna di stampa condotta contro di lui dal “Fatto Quotidiano”, mi ha indotto alcune riflessioni che vorrei condividere con i lettori di questo giornale.
Per onestà intellettuale, premetto di non condividere nella maniera più assoluta la linea editoriale del giornale diretto da Padellaro che, a mio modo di vedere, fin troppo spesso ha assunto quali verità rivelate (ed in quanto tali non bisognevoli di riscontri probatori) gli atti accusatori di alcuni settori della magistratura requirente, finendo addirittura con lo sposare e sostenere le velleità politiche del “Taumaturgo” di turno, candidatosi (ahimè, con scarsa fortuna) alla guida del Paese sulla spinta della lobby radical chic e giustizialista che ancora influenza una parte della sinistra italiana.
Detto questo, non credo di essere offuscato da pregiudizio se ritengo che l’ossessivo battage denigratorio contro il Presidente della Repubblica che da quasi due anni imperversa sul Fatto Quotidiano (e che oggi vede accomunati sul carro carnevalesco dell’impeachment l’incredibile trio Travaglio-Grillo-Berlusconi) non rappresenti una forma di giornalismo d’inchiesta ma una vera e propria azione politica, condotta per finalità (per me) non limpidissime sulla base di argomenti che nella maggior parte dei casi prescindono dai fatti.
E proprio l’ultimo articolo di Angelo Cannatà, pubblicato sul Fatto Quotidiano il 21 dicembre scorso, me ne ha fornito la conferma.
In sintesi, la tesi dell’Autore è che il PM Nino Di Matteo, recentemente minacciato di morte da Totò Riina, sia vittima di un intollerabile abuso poiché, a causa di una legge da “azzeccagarbugli”, è stato sottoposto ad azione disciplinare innanzi al CSM con l’accusa “di aver leso le prerogative del capo dello Stato” attraverso un’intervista in cui spiegava le procedure per la distruzione delle famigerate telefonate fra Napolitano e Mancino. Con l’aggravante che per la prima volta un magistrato viene chiamato a rispondere in sede disciplinare di una violazione consistente nel solo fatto di aver rilasciato un’intervista.
Sulla base di tale premessa, nel medesimo articolo il Presidente della Repubblica viene accusato di aver serbato sulla vicenda un colpevole silenzio e, avendone la possibilità, di non essersi adoperato per far ritirare “adesso, subito, senza indugio” l’atto di incolpazione mosso contro Di Matteo, che è stato “vissuto come ingiusto dall’affetto e dal cuore (dal diritto naturale) di milioni di italiani”.
Pertanto, secondo Angelo Cannatà, il Capo dello Stato è responsabile – quantomeno per omissione – della paradossale situazione in cui è venuta a trovarsi la nuova icona dell’antimafia che, in quanto minacciata da Riina, dovrebbe essere esonerata, anche per il passato, dal fastidioso obbligo di rispettare le leggi (da azzeccagarbugli) valide per tutti i suoi consimili, essendo coperta dall’immunità promanante, per diritto naturale, dall’affetto e dal cuore dei suoi milioni di sostenitori.
Se queste sono le ragioni dell’attacco mosso contro il Presidente Napolitano, attraverso la semplice analisi dei “fatti” è possibile dimostrarne la natura strumentale e, quindi, politica.
Per far ciò mi sono limitato a ricercare su Google i riscontri alle affermazioni contenute nell’articolo di Angelo.
Così ho, innanzi tutto, verificato che l’azione disciplinare contro il magistrato siciliano è stata avviata dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (cioè il massimo esponente della stesso ramo della magistratura a cui appartiene Di Matteo) non per aver rilasciato un’intervista, come sostiene il diretto interessato, ma - cosa ben più grave - per aver rivelato ad un giornalista notizie ancora coperte dal segreto investigativo, ammettendo, in particolare, che le conversazioni telefoniche intercettate dalla Procura di Palermo in cui si faceva cenno all’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, la cui esistenza era stata paventata sulla stampa, erano effettivamente agli atti delle indagini e riguardavano Napolitano e Mancino.
In tal modo, secondo il Procuratore Generale, Di Matteo avrebbe indebitamente leso il diritto di riservatezza del Capo dello Stato riconosciuto dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha accolto il ricorso del Quirinale sul conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo.
Subito dopo, ho riletto la norma che qualifica come illeciti disciplinari dei magistrati, tra l’altro, “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui” nonchè “le pubbliche dichiarazioni o interviste che, sotto qualsiasi profilo, riguardino i soggetti a qualsivoglia titolo coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui…” (art. 2 decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106).
Per non trascurare nulla, sono andato anche a spulciare la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “le autorità giudiziarie devono osservare la discrezione massima per quanto riguarda i casi di cui si occupano per conservare la loro immagine come giudici imparziali. Quella discrezione dovrebbe dissuaderli dall’usare la stampa anche una volta provocati. Sono le richieste più alte di giustizia e la natura elevata dell’ufficio giudiziario che impongono quel dovere” (sentenza 16.11.1999 – Buscemi c/ Italia).
Attraverso questa semplice ricerca ho, quindi, accertato che tutti i magistrati (compresi i valorosi PM impegnati in indagini contro la mafia) sono obbligati a non rivelare fatti relativi a indagini in corso se tale rivelazione può ledere indebitamente diritti altrui o comunque compromettere l’immagine di imparzialità della magistratura.
Un’altra veloce interrogazione a Google mi ha fatto scoprire che – diversamente da quanto si legge nell’articolo di Angelo Cannatà – già prima di Di Matteo altri giudici e pubblici ministeri erano stati sottoposti a procedimenti disciplinari per la violazione del dovere di riservatezza e che, proprio recentemente, Annamaria Fiorillo, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei Minori di Milano (proprio quella che ha sconfessato Berlusconi sul caso Ruby), è stata condannata dalla sezione disciplinare del CSM per il solo fatto di aver reso alla stampa dichiarazioni inopportune (ancorché veritiere) sulla vicenda della “nipote di Mubarak”.
A questo punto, per evitare di essere tradito dalla memoria, visto il lungo tempo trascorso dell’esame di Diritto Costituzionale, ho verificato sul sito del CSM che nulla fosse cambiato a proposito della titolarità dell’azione disciplinare, che è sempre riservata al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e al Ministro della Giustizia, e della composizione della sezione disciplinare dell’organo di autogoverno dei magistrati, di cui continua a non far parte il Presidente della Repubblica.
In questo modo ho avuto la conferma di quanto già avevo intuito di primo acchito, ovvero che se Giorgio Napolitano avesse solo tentato di fare quanto richiestogli da Angelo Cannatà, adoperandosi per far ritirare “adesso, subito, senza indugio” l’atto di incolpazione mosso dal Procuratore Generale contro Di Matteo, avrebbe posto in essere proprio uno di quegli atti abusivi ed esorbitanti dai suoi poteri di cui lo accusa Travaglio nel suo pamphlet, trattandosi di comportamento del tutto estraneo alle prerogative del Capo dello Stato, anche nel suo ruolo di Presidente del CSM.
Infine, consultando il sito on-line di Repubblica, ho appreso che il 19 dicembre scorso (e, dunque, prima della pubblicazione del pezzo di Angelo Cannatà sul Fatto Quotidiano) era stata diffusa la notizia che il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, unico soggetto abilitato a farlo, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento disciplinare contro il PM Nino Di Matteo avendo accertato, nel corso dell’istruttoria, che Panorama e altri siti di news avevano già rivelato l’esistenza delle intercettazioni delle conversazioni tra Napolitano e Mancino nel momento in cui veniva rilasciata l’intervista incriminata e che, di conseguenza, l’informazione non poteva più tecnicamente considerarsi coperta da segreto.
Sulla base di questi dati oggettivi, mi pare ovvio concludere che le accuse rivolte al Capo dello Stato per la vicenda Di Matteo sono prive di qualunque fondamento fattuale.
Come volevasi dimostrare.
Concludendo, credo che la costante opera di demolizione della massima istituzione repubblicana sia un sintomo del pessimo stato di salute della nostra democrazia al pari dei tentativi di delegittimazione che di volta in volta colpiscono alcuni magistrati “scomodi”, fermo restando che, da cittadino, preferisco valutare l’operato di un pubblico ministero sulla base delle sentenze di condanna che scaturiscono dalle sue indagini piuttosto che dal numero di interviste che rilascia o di seguaci che raccoglie sui social network.
Anche perché, visti i precedenti (leggasi: Di Pietro, De Magistris, Ingroia), l’eccesso di consenso popolare finisce col trasformare un ottimo magistrato in un pessimo politico.
Nel ringraziarvi, approfitto dello spazio concessomi per augurare alla Redazione di Galatro Terme News ed a tutti i lettori un ottimo 2014.

Nella foto: Pasquale Simari.

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