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23.2.11 - Successo di Nicola Sergio al Jazzit Award 2010

27.2.11 - Un personaggio del nostro paese: 'u professori Riniti

Michele Scozzarra

4.3.11 - Bruno Pablo Zito su RaiUno nel telefilm "Il campione e la miss"

8.3.11 - Il Brigantaggio e la nascita della Questione Meridionale

10.3.11 - Coraìsima

Umberto Di Stilo

24.3.11 - I risultati del concorso letterario Metauros

28.3.11 - Nuovi ritrovamenti fossili

13.4.11 - Premiato a Napoli il poeta Rocco Giuseppe Tassone

13.4.11 - L'innovazione tecnologica parte da Galatro

3.5.11 - Un volume di poesie di Rocco Tassone

7.5.11 - La caduta e la risata

Domenico Distilo

9.5.11 - Scuote l'anima mia Eros

Domenico Distilo

19.5.11 - Seconda edizione del concorso letterario "Metauros"


21.5.11 - Eros, ragione e poesia nella filosofia di Scalfari

Angelo Cannatà

26.5.11 - "Niente di cui pentirsi": esordio letterario di un giovane magistrato

Domenico Distilo

27.5.11 - Una visione integrata dell'uomo

Raffaele Mobilia

7.6.11 - Scalfari a Lecce presenta il libro su Eros


12.6.11 - Il tempo ed il suo significato nella poesia di Vincenza Armino

Michele Scozzarra





(23.2.11) SUCCESSO DI NICOLA SERGIO AL JAZZIT AWARD 2010 - Ottimi risultati per il pianista galatrese Nicola Sergio al "Jazzit Award" 2010, concorso organizzato da Jazzit, la nota rivista italiana di musica jazz.
Nella sezione "Premio della critica", per la quale era determinante la votazione dei giornalisti, il recente CD di Nicola, intitolato “Symbols” e pubblicato in diverse nazioni dalla Challenge Records International, è stato eletto tra i cento migliori CD dell'anno 2010. Da sottolineare che nella graduatoria erano compresi sia i dischi prodotti in Italia, sia quelli prodotti all'estero.
Nella sezione "Premio del pubblico", in cui a decidere era la votazione dei lettori, Nicola Sergio ha ottenuto un eccezionale quinto posto nella categoria "Miglior compositore italiano".
Nuovi importanti riconoscimenti dunque per il musicista galatrese che nel panorama internazionale del jazz sta conquistando spazi sempre più importanti.

Visualizza il sito di Nicola Sergio:
www.myspace.com/nicolasergio

Vi proponiamo inoltre alcuni video relativi ad un recente concerto tenuto dal pianista assieme al sassofonista Javier Girotto:






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(27.2.11) UN PERSONAGGIO DEL NOSTRO PAESE: 'U PROFESSORI RINITI (Michele Scozzarra) - Ritengo che sia un gesto di grande civiltà, che una piccola comunità si ricordi del proprio passato, della propria storia, soprattutto, delle persone che, anche se hanno lasciato dei segni ancora oggi visibili, ormai non ci sono più. Ciascuno di noi conserva nel proprio cuore il ricordo delle persone care scomparse: familiari, amici, o semplicemente personaggi caratteristici del nostro piccolo ambiente… perché un paese, soprattutto piccolo come Galatro, è fatto di persone e personaggi e, soprattutto, questi ultimi sono persone più che semplici che, il più delle volte, spiccano per argutezza, bizzarria, originalità, dabbenaggine, sono protagonisti di storie, detti, casi che sembrano condensare in un sorriso quel che vi è di curioso nelle vicissitudini e sfaccettature dell’esistenza.
Non sono personaggi tipici, sono tipi… soprattutto per i particolari caratteristici e vicende strampalate che li hanno coinvolti nella loro vita che, proprio attraverso le loro strane vicende, hanno avuto la capacità di allietare la loro esistenza e quella di chi gli stava intorno. Nei nostri paesi ce ne sono stati tanti, e ce ne sono ancora, al punto che non è azzardato sostenere che è quasi impossibile raccontarle tutte le storie di queste persone.
L’altra sera, mi è capitata fra le mani una copia, stampata nel 2006, della rivista “Maropati e… dintorni” e la mia attenzione, non a caso, si è andata a posare sull’articolo “La fanciullezza ritrovata” a firma di Giorgio Castella dove, con dovizia di particolari, veniva descritta una scena, alla quale negli anni passati, è capitato anche a me di assistere più volte, che vedeva protagonista un nostro caro compaesano, ormai deceduto da tanti anni, Francesco Antonio Riniti, da tutti conosciuto come “’u professori Riniti”.
Nell’articolo si legge: «In Piazza Castello, a breve distanza dalla mia casa, nel mese di settembre, si svolgeva la festa di San Rocco, compatrono del paese. Ad organizzarla era il sarto mastro Giovanni che, per allietare le serate, chiamava un’orchestra di suonatori dilettanti, diretta dal “maestro” Riniti di Galatro. Tutti lo chiamavano “Maestro”, ma, in confidenza, non conosceva affatto la musica; io scoppiavo a ridere solo a guardarlo, per il portamento che assumeva: si presentava con eleganza, come se fosse una grande personalità. L’orchestra iniziava a suonare canzoni popolari, mentre gli organizzatori avevano preparato per il “maestro” una bacchetta sottile di ferro per dirigere l’orchestra. Con la complicità dei musicanti e del pubblico iniziava il vero spettacolo: si agitava tutto, faceva inchini ai nostri applausi, si comportava come un vero maestro intento a dirigere una grande orchestra. Era tutto felice, anche quando, come omaggio alla sua direzione artistica, gli offrivamo fiori puzzolenti, medaglie di cartone e attestati su carta da pacchi, fra gli applausi della gente entusiasta e di noi ragazzi che gridavamo a squarciagola: “Viva il maestro Riniti!”. Alla fine del concerto, come si fa per una grande star, lo portavamo sulle spalle in un breve giro di grande trionfo.»
L’articolo di Castella mi ha fatto ricordare come, anche il Prof. Francesco Distilo, in un suo pregevole libro dal titolo
“Personaggi tipici galatresi”, ha mirabilmente descritto, e raccontato, la storia dei personaggi che hanno caratterizzato un periodo storico della vita paesana galatrese. In questo libro del “professore Riniti” leggiamo: «Veniva soprannominato “Cristaredhu”. E’ nato a Galatro il 20 giugno 1906 da Nicola e Gambino Maria Antonia. Era sposato con Codispoti Maria Rosa, appartenente ad una famiglia di semplici ed onesti contadini, ha sempre lavorato e, onestamente, si è comportato nella società.
Verso i sessant’anni, non si sa come, si fissò di essere ottimo conoscitore di musica ed esperto suonatore di tamburo, grancassa e piatti. I giovani del tempo, scoperta questa sua fissazione, incominciarono a burlarsi di lui. A quei tempi, per le feste patronali, arrivavano a Galatro dei rinomati complessi bandistici e delle orchestre di grido per tenere concerti, all’aperto di musica classica. I giovani per meglio rallegrare le due serate di festa, negli intervalli o a fine serata, facevano salire sul palco il Riniti, il quale mettendosi sulla pedana del Maestro, con una bacchetta in mano, dirigeva un pezzo musicale eseguito, veramente, dalla banda o dall’orchestra in servizio. E’ logico che anche i componenti di quella banda si prestavano al gioco. La gente durante il concerto diretto dal Riniti, schiamazzava applaudendolo.
Alla fine gli venivano offerti fiori, medaglie e diplomi, medaglie e diplomi di nessun valore e preparati precedentemente. Veniva, dopo la consegna della medaglia, preso in braccio e girato per le vie del paese e, infine, accompagnato a casa, dove offriva abbondante vino a tutti i presenti che non erano pochi.
Si meravigliava, però, la gente, quando il lunedì, dopo la festa lo vedeva partire in campagna, dove seriamente lavorava. A questo punto ognuno si domandava: “ma siamo noi che prendiamo in giro lui o è lui che prende in giro noi?”. Questo è rimasto un interrogativo che non si è mai risolto. Con tutto ciò si è continuato fino a quando il Riniti ha avuto le capacità fisiche di suonare il tamburo e fino a quando non lo colse la malattia che lo costrinse a letto e a non uscire di casa fino alla morte.
I galatresi andavano a visitarlo portandogli dei regali. Il Riniti che era lucido di mente, ogni qualvolta vedeva quei giovani si riempiva gli occhi di lacrime e, col pensiero, andava ai tempi quando, assieme a quei giovani trascorreva le serate in allegria.
Qualche volta voleva vedere le medaglie e diplomi che aveva ricevuto e, ancora ringraziava quei giovani che lo hanno voluto bene. E’ morto all’età di 78 anni, il 25 dicembre del 1984. E’ stato accompagnato al cimitero e portato a spalla da quei giovani che, negli anni trascorsi, sono stati i fautori della sua, chiamiamola anche così, “Pazzia Musicale”.»

Io, come di fronte ad una vecchia foto che suscita le più imprevedibili e misteriose emozioni, ho ritenuto importante condividere, questa bella narrazione ricca di autentica umanità, per quanto bizzarra possa sembrare!, testimonianza di una semplice e genuina pagina di storia della nostra comunità… e non aggiungo altro!

Nella foto: 'u professori Riniti.

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(4.3.11) BRUNO PABLO ZITO SU RAIUNO NEL TELEFILM "IL CAMPIONE E LA MISS" - Bruno Pablo Zito, l'attore e conduttore di origine galatrese che vive in Argentina, ha una parte nella fiction in due puntate, in onda su RaiUno nelle serate di Domenica 6 e Lunedì 7 Marzo, dal titolo Il campione e la miss incentrata sulla vita del campione di boxe Tiberio Mitri.
Il regista Angelo Longoni si è avvalso di un cast che ha come attori protagonisti Luca Argentero e Martina Stella. Bruno Pablo Zito sarà presente in particolare in una scena nella quale svolgerà il ruolo di presentatore al concorso di Miss Italia 1948.
Dopo
Scusate il disturbo con Lino Banfi e Los Exitosos Peréz con Veronica Castro, nuovo prestigioso risultato dunque per l'attore Bruno Pablo Zito cui vanno i nostri migliori complimenti. Nella foto in alto: Bruno Pablo Zito.

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(8.3.11) IL BRIGANTAGGIO E LA NASCITA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE - Si è svolto a Cittanova, nella sala conferenze della Banca di Credito Cooperativo, nell'ambito delle manifestazioni promosse dalla stessa banca e dal Comune di Cittanova sul contributo della Calabria e di Cittanova al processo unitario, l'incontro di studi dedicato al fenomeno del Brigantaggio, a cura del Liceo Classico "V.Gerace".
Pubblichiamo:

l'
intervento introduttivo della preside Teresa Crupi (PDF) 87,5 KB

la relazione del prof. Domenico Distilo su "Antonio Martino e la crisi del Mezzogiorno postunitario" (PDF) 46,4 KB

l'intervento della prof.ssa Maria Fonti su "Galantuomini e contadini nella Calabria ulteriore preunitaria" (PDF) 68,9 KB

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(10.3.11) CORAÌSIMA* (Umberto Di Stilo) - Fino a qualche decennio addietro dalle finestre delle modeste case che costituivano il tessuto urbano dei nostri paesi interni, sin da mercoledì delle Ceneri, appesa ad un bastone, pendeva una strana “pupattola”. Realizzata con ritagli di stoffa nera e stracci, simboleggiava la Quaresima, ovvero il periodo di “magra” e di astinenza che, dopo le scorpacciate dei giorni di carnevale, iniziava con la ricorrenza delle Ceneri e si concludeva quaranta giorni dopo, con la festività di Pasqua.
Questa strana “pupa di pezza” fatta in casa e coi capelli raccolti da un fazzoletto, indossava un grembiule fornito di tasca, tra le mani reggeva il fuso e la conocchia mentre ai piedi aveva un’arancia (o una patata, o una mela; raramente una cipolla) in cui erano conficcate sette penne. Tutti la conoscevano col nome di “Coraìsima”, (cioè quaresima) ed essa stava a simboleggiare l’austerità, le privazioni e il digiuno.
Ancora oggi, in determinati ambienti rurali o nelle piccole comunità agricole, una donna di fisico magro e malandata nell’abbigliamento, viene dispregiativamente definita “Coraisima”, come la cenciosa e brutta protagonista femminile di certe farse popolari che, nel pomeriggio di martedì di carnevale (martiddì di l’azàta), venivano recitate nelle piazze di tutti quei paesi che affondano le loro radici nella civiltà contadina.
In quegli stessi paesi le persone anziane ricordano e, con un velo di nostalgia per i tempi passati, amano ancora ripetere la scherzosa filastrocca popolare in cui “Coraìsima” veniva descritta come una grande e disordinata divoratrice, ma anche come un’imperdonabile bugiarda:

Coraìsima, coju stortu,
nci mangiau li cavuli all’ortu,
e l’ardica alla sipala
Coraìsima menzognara.

Con la variante (da noi registrata a Laureana, dalla viva voce di un’attempata signora):

Coraìsima coju stortu,
non dassasti cavuli all’ortu
e mancu frundi alla sipala
Coraìsima menzognara.

Quale che fosse il carattere di quella donna, la rustica bambola di stoffa che la rappresentava restava appesa alla finestra per tutto il periodo della Quaresima e sabato di Pasqua veniva bruciata. Ad Eranova (e in altri centri marinari) “Coraìsima” veniva seppellita nella sabbia sulla riva del mare mentre in altri paesi veniva lacerata pubblicamente in piazza. Le sette penne (tante quante sono le domeniche del periodo della Quaresima) conficcate nell’arancia venivano tolte una ogni domenica, e c’era tutto un rituale da compiere, con preghiere da recitare e la penna che doveva essere bruciata o buttata distante dalla propria abitazione, quasi a voler allontanare dalla famiglia la carestia ed il periodo di magra.
Caratteristica principale di “Coraìsima” era il suo continuo dondolare. Bastava un debole alito di vento perché la nera pupattola si spostasse da una parte all’altra, disegnando nel vuoto un arco che, anche al più distratto dei passanti, richiamava alla memoria l’incertezza della vita ed i possibili cambiamenti dell’uomo.
Quel movimento ritmico, con valore quasi di una danza, inoltre, nei tempi antichi ha sempre assunto il valore di un linguaggio sacro e profetico.
Secondo alcuni studiosi, l’esposizione della pupattola all’aria aperta, perché potesse oscillare al vento, doveva essere intesa come il desiderio di purificazione dei peccati e, in particolare, del male morale contratto durante le allegrie e le orge dei giorni di Carnevale.
D’altra parte già Virgilio, nelle Georgiche, si era soffermato a descrivere come nel culto agreste di Dioniso la purificazione avveniva mediante l’oscillazione di piccole immagini che, appese ai rami di un pino, dondolavano sotto il soffiare del vento. Nelle “Feriae Latinae”, poi, è ricordato che “avevano luogo feste popolari in cui si appendevano oscilla agli alberi (…) come mezzo di scongiuro contro i mali influssi spiritici e a vantaggio dell’agricoltura”.
Quella della purificazione mediante sospensione al vento, dunque, era tradizione già molto diffusa anche al tempo dei romani. Solo che col passare degli anni e dei secoli e con la diffusione del cristianesimo l’oscillazione della pupattola abbandonò gli originari significati scaramantici per assumere quelli di incitamento alla preparazione spirituale per l’imminente festività pasquale.
Il fuso e la conocchia per alcuni simboleggiavano l’operosità delle nostre donne che sin da piccole venivano avviate proprio al paziente lavoro della filatura.
In effetti, quei semplici arnesi da lavoro, reminiscenza della mitologia classica, stavano a sottolineare come la vita fosse sempre legata ad un sottile filo di lana che, anche nelle mani di un’esperta filatrice, rischiava di spezzarsi da un momento all’altro.
Elemento didascalico sulla fugacità della vita, dunque, ma anche sulla precarietà del tempo se è vero che proprio il fuso e la conocchia stavano a significare che il tempo della Quaresima e, quindi, dei sacrifici, veniva pure esso ”filato”, vale a dire “misurato” e contenuto nel breve spazio di quaranta giorni.
D’altra parte a misurare questo tempo c’erano anche le penne che, conficcate nell’arancia, venivano strappate col passare delle settimane.
Dunque il numero delle penne assumeva una funzione cronometrica; stava a scandire il tempo che passa, quasi che si trattasse di un rudimentale quanto pratico calendario figurato. Ed è per questo che le penne assumevano il valore ed il significato di un rituale antico, materializzavano il tempo inteso come tempo passato e tempo ancora da passare, dando speranza alla vita e facendo guardare con fiducia all’immediato futuro (il tempo del “dopo Quaresima”). Mentre nelle penne, dunque, era simboleggiato il computo delle settimane, nel fuso e nella conocchia c’era il millenario simbolismo della “Signora dei Destini” capace di regolare il destino dell’uomo, l’accadere degli eventi fino alla regolazione dei corpi celesti ed al conseguente ordine dell’universo.
Ma la gente del popolo che, fino a qualche decennio addietro, si affrettava ad esporre alla finestra di casa la pupattola di pezza pazientemente confezionata, non si chiedeva quali fossero le allegorie ed i segreti significati delle parti che componevano la “Coraìsima”. Né si chiedeva quale fosse la genesi storica di quella tradizione antichissima.
Si limitava solo ad appendere la “pupa di pezza” perché così avevano sempre fatto i genitori e, ancora prima, i genitori dei genitori. La appendeva perché per quaranta giorni dondolasse al vento dell’incipiente primavera e perché, settimanalmente, potessero “spennarla”, nella segreta speranza che, ultimata quell’operazione, essa potesse essere apportatrice di benessere e, subito dopo i giorni della astinenza quaresimale, potesse assicurare un anno di prosperità e di pace alla famiglia.

*

Dalle finestre delle case non penzola più la “pupa” confezionata dalle ragazze con ritagli di stoffa nera e stracci inservibili e nelle cui mani sono stati posti il fuso e la conocchia. Il progresso ha completamente cancellato l’antica tradizione, per cui di “Coraìsima” oggi parlano solo gli anziani e, quanti, attratti dalle tradizioni popolari, amano scavare nel passato certi che, così facendo, riusciranno a capire in maniera completa ed approfondita il vero animo dei nostri antenati.

* Articolo uscito in "Maropati e... dintorni", periodico di informazione della sezione Nuovo PSI di Maropati, Anno I, n. 1, Marzo 2006

Nelle foto: due versioni di "Coraìsima".


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(24.3.11) I RISULTATI DEL CONCORSO LETTERARIO METAUROS - L’Università Ponti con la Società per il tempo libero e la socializzazione di Gioia Tauro, presieduta dal Prof. Cav. Rocco Giuseppe Tassone, comunica la classifica finale del concorso letterario Metauros:

Sez. A - libro di storia locale:
Giuria: Dott. A. Antonuccio – presidente, Avv. P. Vissicchio, Sign. E. Reitano

I classificato ex-aequo LA REGGIO DI ANASSILA di NATALE ZAPPALA’
I classificato ex-aequo QUEL 6 SETTEMBRE DEL 43 di ANTONINO CATANANTI TERAMO
II classificato S. STEFANO D’ASPROMONTE di DOMENICA MUSOLINO

***

Sez. B - poesia singola:
Giuria: Prof. A. Cordiano – presidente, Prof. F. Cocolo, Pittrice G. Gaglianò, Sign. R. Fodale

I classificato ERA IL TEMPO DEGLI AQUILONI di SALVATORE PAOLINO - MODICA
II classificato L’INFINITO di ANGELA APRILE – PALERMO

***

Fa presente inoltre che sono stati assegnati i seguenti Premi Speciali della Presidenza - fuori concorso:
Giuria: Prof. Cav. R. G. Tassone, Prof. F. Marino, Prof.ssa A. Alessi:

1. ROGERIUS – rivista dell’Istituto della Biblioteca calabrese
2. GILBERTO LA SCALA - tenore
3. LA FESTA DEL SANTO - romanzo di Carlo Simonelli
4. NEL GREMBO DEL PENSIERO PER RISVEGLIARMI LIBERO – autobiografia di Francesco Gullace
5. BRANDELLI DI UN SOGNO – poesie di Ferdinando Giovinazzo

***

La Presidenza comunica la nomina a socio onorario del Prof. Giuseppe Luccisano.
La serata di premiazione è prevista per fine aprile c. a.
Intanto si stanno regolarmente tenendo le lezioni di "storia dallo statuto albertino alla costituzione italiana". Il prossimo appuntamento è per sabato 26 marzo con il prof. Domenico Distilo.


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(28.3.11) NUOVI RITROVAMENTI FOSSILI - Di recente una nuova serie di importanti ritrovamenti di materiale fossile di origine molto antica è stata effettuata da Giuseppe Macrì, non nuovo a questo tipo di imprese. Macrì, oltre a questo genere di ritrovamenti, si dedica anche con passione, come è noto, alla costruzione di strumenti musicali aerofoni di tradizione popolare e di altri caratteristici oggetti in legno.
Come possiamo vedere nelle foto in basso gli oggetti fossili trovati di recente da Macrì, oltre a risalire a tempi eccezionalmente remoti (milioni di anni fa) e a gettare una luce sulla preistoria del territorio della valle del Metramo, hanno a volte delle forme molto particolari e sono assimilabili dalla nostra fantasia alle più diverse figure di animali o di altri soggetti terrestri.
Un grazie dunque a Giuseppe Macrì che porta avanti un'attività non semplice, per la quale è necessario un particolare fiuto, e che nello stesso tempo ci aiuta a capire il nostro passato.


Contaminazioni fra materiali fossili e strumenti musicali popolari


Grossa pietra fossile


Fossili e caratteristica crocetta in legno


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(13.4.11) PREMIATO A NAPOLI IL POETA ROCCO GIUSEPPE TASSONE - La Giuria del Premio Internazionale di Poesia e Narrativa promosso per l’anno 2011 dall’Associazione Napoli Cultural Classic, dopo attento ed approfondito esame delle opere presentate dagli oltre 350 partecipanti, ha stilato le classifiche finali assegnando uno dei premi, e precisamente quello relativo alla sezione poesia in lingua straniera, alla struggente lirica in lingua inglese dal titolo Leave del prof. cav. Rocco Giuseppe Tassone di Gioia Tauro.
Le più vive congratulazioni al professore che con la sua opera contribuisce a tenere più che mai vive le tradizioni letterarie del nostro territorio.
Il prof. Tassone è anche il presidente dell'Università "Ponti con la società", con sede a Gioia Tauro, presso la quale il prossimo Sabato 16 Aprile, nell'ambito del corso "Dallo Statuto Albertino alla Costituzione Italiana", si terrà l'ultima lezione del prof. Domenico Distilo.

Nella foto: il prof. Rocco Giuseppe Tassone.


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(13.4.11) L'INNOVAZIONE TECNOLOGICA PARTE DA GALATRO - Annalisa Masi, dell'ufficio stampa di OnScreen Communication, ci segnala che questa società è legata a Galatro Terme per provenienza del suo Creative Technology Director, ovvero il galatrese Saverio Ceravolo.
OnScreen Communication è una società di comunicazione specializzata nella realizzazione di progetti in Realtà Aumentata. Tale tecnologia è considerata dai principali studi di settore il futuro nel campo della comunicazione e del marketing, con applicazioni anche in settori quali sanità ed educazione.
La società nasce nel 2006 per iniziativa di Saverio Ceravolo. Tutto il suo team condivide un legame particolare con il Sud, ponendosi così come una realtà con radici profonde ma orientata all’innovazione. OnScreen Communication è un'agenzia di comunicazione specializzata in consulenza e pianificazione strategica, ricerca e ideazione creativa, produzione di contenuti multimediali, trasferimento tecnologico, service di hardware video. Nel 2008 decide di puntare sulla Realtà Aumentata, innovativa tecnologia ancora sconosciuta, diventando la prima società in Italia a sviluppare progetti interattivi.
Nello stesso anno la FIVB, per i Mondiali di Pallavolo del 2010, è la prima società per la quale realizza una performance live che ne sfrutta le potenzialità.
Società come RCS per Gazzetta dello Sport, Ferrari, LG, Jeep, Lancia, American Express, Q8, Johnson & Johnson, Mercedes, e tante altre la scelgono per ideare e realizzare innovative campagne web e mobile, chioschi multimediali, convention ed eventi live.
Il crescente interesse nei confronti della Realtà Aumentata vede OnScreen Communication impegnata, nel breve e nel medio periodo, nella progettazione e nello sviluppo di progetti nel campo della formazione e dell’edutaintment. Parchi a tema e musei, ma anche applicazioni per automazione di processo. L’innovativa tecnologia si rivela così, nelle sue più recenti modalità di utilizzo, un prezioso strumento cognitivo ed esperienziale.
OnScreen Communication oggi è il principale partner italiano del principale network mondiale della tecnologia Total Immersion.
La Realtà Aumentata è una tecnologia innovativa, particolarmente utilizzata per il marketing e la comunicazione, grazie alla quale il piano del reale incontra quello virtuale. Un particolare sistema di grafica interattiva che permette di sviluppare progetti spettacolari e coinvolgenti, destinati al web, al mobile o a eventi dal vivo.
OnScreen Communication rappresenta in questo settore un’eccellenza. La società ha sede a Roma ed è stata costituita dal galatrese Saverio Ceravolo che, come detto, è Creative Technology Director della società.
Il progetto più recente ha visto OnScreen Communication in prima fila per la presentazione del nuovo grande live di Luciano Ligabue, Campovolo 2.0, in programma per il prossimo luglio a Reggio Emilia. L’applicazione ha aperto una finestra virtuale sull’evento, dando vita al logo e ai suoi elementi. Ecco il video:


La Realtà Aumentata conquisterà anche altri settori, come quelli della sanità e dell’educazione. OnScreen Communication esprime così, con Saverio Ceravolo, l’idea di un Sud inedito, per cui il futuro non può più fare a meno dell’innovazione e della tecnologia.

Visualizza un articolo e un altro video


Il Ligabue Day 2011, introdotto dalla conferenza stampa di presentazione di Campovolo 2.0, è stato seguito da ben 60.000 spettatori che hanno assistito allo spettacolo programmato in 190 sale cinematografiche. Nel corso dell’evento, trasmesso in diretta, Ligabue ha presentato la nuova versione inedita ed esclusiva del meglio delle riprese realizzate durante l’ultimo tour negli stadi e anticipato le novità relative a Campovolo 2.0. Anche in questo caso, OnScreen Communication è stata protagonista con la Realtà Aumentata.
Nel link in basso il video tratto dall’evento:

www.youtube.com/user/ligabue#p/u/0/XjMGaXKfyRw

Info su OnScreen Communication:
Website: www.getonscreen.it
YouTube: OnScreen Communication
Facebook: OnScreen Communication
Twitter: OnScreen_Com

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(3.5.11) UN VOLUME DI POESIE DI ROCCO TASSONE - Si intitola Poesie (Vitale Edizioni) il nuovo libro di Rocco Giuseppe Tassone che esce in edizione riservata, limitata a 50 copie numerate e firmate di propria mano dall’autore in occasione del suo 50° compleanno (35° di poesia).
«Invitato da alcuni amici - ha dichiarato il prof. Tassone - raccolgo in un volume, quasi antologico, buona parte delle mie Poesie e la bio-bibliografia aggiornata a dicembre 2010. Vuole essere solo una catalogazione di alcune liriche, quelle che hanno avuto maggiori consensi e premi o che sono state maggiormente vissute e patite. Un grazie a quanti mi hanno letto in questi anni ed a quelli che, domani, si innamoreranno dei miei versi. A loro dedico questa silloge, la loro attenzione alle mie liriche mi stimolerà nel futuro a nuova ricerca, pur conservando il valore tradizionale della Poesia e la semplicità dell'infinito sentimento che il Pathos detta dal profondo dell’animo umano.»
Una raccolta pregevole e di particolare valore bibliografico oltre che letterario, che viene alla luce dopo una serie di volumi che hanno avuto veramente una vasta eco nel mondo della poesia.
L’università Ponti con la società, che si onora di avere come presidente il prof. cav. Rocco Giuseppe Tassone, curerà quanto prima una serata di presentazione del volume a Gioia Tauro.
Trattandosi di un'edizione limitata, sono disponibili solo 20 copie. Chi fosse interessato ad acquistare il volume può rivolgersi all'associazione Ponti con la società scrivendo un'email all'indirizzo:
uniponti@libero.it, o telefonare al numero 347.8696365. Il costo, spedizione compresa, è di € 20,00.

Nella foto: la copertina del libro del prof. Tassone.

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(7.5.11) LA CADUTA E LA RISATA (Domenico Distilo)

Riflessioni sul tragico e sul comico a pochi giorni dalle elezioni comunali.

Il comico è solo il tragico visto di spalle. (K. Kraus)

Il link di un’amica su facebook mi fa tornare in mente la celebre riflessione di H. Bergson sull’effetto comico che inevitabilmente provoca l’uomo che cade. Per il filosofo francese cadendo l’uomo si trasforma in automa. Nell’attimo della caduta egli smette di essere uomo, di operare movimenti volontari, per diventare parte di un meccanismo dentro il quale il movimento è privo di volontà, proprio di un automa, appunto automatico.
Nelle azioni che normalmente compiamo la volontà s’interpone tra le cause dell’azione e l’azione, più o meno secondo lo schema: 1) Ho sete; 2) Voglio sollevare il braccio per portare il bicchiere alle labbra; 3) Sollevo effettivamente il braccio e porto il bicchiere alle labbra.
Chiediamoci cosa accade se alla sequenza 1) 2) 3) sostituiamo la sequenza 1) 3), espungendo 2), se togliamo cioè di mezzo il voler sollevare il braccio per portare il bicchiere alle labbra. Il movimento apparirà rigido, scandito in tempi precisi, esattamente come se fosse eseguito da un robot.
Orbene, quando si cade è perché succede qualcosa che neutralizza la volontà del soggetto che cade – altrimenti egli non cadrebbe, va da sé - trasformandolo in cosa che si muove, ma non in semplice cosa che si muove, bensì in cosa che si muove con sembianze umane, in uomo-cosa nel quale un piano d’azione estraneo si sostituisce alla volontà, cioè al piano d’azione voluto dal soggetto, che diventa ex abrupto oggetto di una volontà altra, che lo trascende e a cui non può opporsi. Come dire che la volontà è neutralizzata e l’individuo da attore diventa agito, da soggetto oggetto, da uomo uomo-cosa.
A far ridere è esattamente l’uomo trasformato in cosa, l’individuo umano nel suo apparire reificato e meccanizzato.

Il riso accompagna sempre la goffaggine, questo è certo. Chiediamoci: qual è l’essenza della goffaggine? Perché il goffo fa ridere? Nel goffo l’aspetto predominante è la pesantezza, l’impaccio, la mancanza di agilità, di leggerezza, di disinvoltura: in una parola, la meccanicità.
Nel goffo c’è un contrasto tra ciò che egli vorrebbe essere e ciò che è, contrasto in cui si può scorgere l’essenza stessa della goffaggine. Anche in questo caso a far ridere è la meccanicità, conseguenza di una volontà che non può pienamente distendersi e procede, come dire, col freno a mano tirato.
Il goffo è diviso tra la volontà e la meccanicità che la impedisce e la limita, anzi, è l’accentuazione caricaturale proprio del limite che condiziona ogni esistenza (già di per sé limitata nel tempo e nello spazio). L’effetto di quest’accentuazione ed evidenziazione del limite è l’apparire macchinali di comportamenti umani che proprio per questo, per coniugare l’umanità e la meccanicità, per rendere cioè l’umanità sotto la specie della meccanicità, fanno ridere.
Se poi vogliamo cogliere la differenza tra il goffo è l’uomo che cade, diciamo che essa consiste nel fatto che la goffaggine prolunga nel tempo ciò che la caduta racchiude in uno o in pochi istanti.

L’uomo che cade non fa però solo ridere ma anche piangere. Facendosi male o potendosi fare male suscita naturalmente compassione, per cui dopo aver riso si corre in aiuto. L’amica di facebook coglie al meglio il nocciolo della questione: “...io rido sempre!! poi mi do da fare per aiutare, ma la reazione istintiva è quella (di ridere)!”.
La reazione istintiva è dunque il riso; al riso però subentra tosto l’apprensione, perché chi cade rischia di farsi male e, finito l’effetto comico, bisogna valutare le conseguenze della caduta, che non sono mai piacevoli. L’apprensione si trasforma poi in compassione a cui, per di più, si accompagna il rimorso per aver riso, che si è portati a considerare “una cosa che non si deve fare”. Ma il dover fare o non fare in questo caso non c’entra. Essendo la risata una reazione istintiva non la si può collocare sotto la categoria del dovere, aspetto questo che l’amica di face book coglie indirettamente affermando di ridere delle sue stesse cadute: “ma io pure delle mie cadute rido!!! Mi faccio male ma la risata non manca...!!!”.
La risata, questo è il punto, non c’entra con il farsi male, né proprio né altrui, non essendo in essa implicato in nessun modo il sentimento morale. Il ridere quando qualcuno cade non è morale né immorale ma amorale, per cui gli scrupoli che ci prendono per aver riso di qualcuno che cade sono davvero incongrui, prova ne è proprio il fatto che ridiamo di noi stessi quando cadiamo, particolare che non ci può far dire che proviamo verso noi stessi una ripugnanza morale, un sentimento moralmente avverso.

Il comico è dunque estraneo all’etica (si ride senza interesse morale); è estraneo all’estetica (il bello non fa ridere); non lo si può ricondurre sotto l’economico (è del tutto accidentale che qualcuno venga pagato per far ridere) ma può avere, anzi ha senz’altro, una sua valenza conoscitiva, peculiarmente teoretica, perché ci rivela il lato, appunto comico, di ogni situazione. In ogni situazione, fatto o accadimento è nascosto un lato comico e spetta all’arte – dell’artista, dell’attore, dello scrittore comico - di tirarlo fuori, di metterlo allo scoperto. Il lato comico, come nella caduta e nella goffaggine, è in un meccanismo che s’innesca e ci fa fare quel che non vorremmo. Per questo il comico è sempre il rovescio della medaglia del tragico (“il tragico visto di spalle”), la necessità – essenza del tragico - vista da dietro. Nel comico come nel tragico è infatti la necessità a tenere il campo, necessità al cui cospetto non conta, venendo la volontà messa fuori gioco, ciò che io voglio o non voglio. La comicità e la tragicità, per dirla tutta, stanno entrambe dalla parte dell’antitesi della terza antinomia kantiana: sono entrambe un argomento contro l’esistenza di una causalità libera. La controprova è che una volontà libera, incondizionata, si sottrarrebbe tanto al tragico quanto al comico e se non lo fa non è perché non vuole, ma perché non può. Cioè non è libera, perlomeno non lo è completamente, essendo limitata nel suo volere. Del resto se non ci fosse questa limitazione non saremmo uomini ma dei. Cosa che sicuramente non siamo. P. s. Cosa c’entrano il comico e il tragico con le elezioni comunali di Galatro? Nulla! Solo che l’articolo è stato scritto a pochi giorni dalle elezioni, come detto nel sottotitolo.


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(9.5.11) SCUOTE L'ANIMA MIA EROS (Domenico Distilo) - E’ in libreria per Einaudi Scuote l’anima mia Eros, il nuovo libro di Eugenio Scalfari. In quarta di copertina leggiamo: “Questo libro è il racconto di uno scontro che avviene in ogni attimo della nostra vita tra le passioni e la ragione; il racconto dell’innocenza perduta, delle trasgressioni, della brama egoistica del potere e la generosità verso gli altri, dell’amore romantico e di quello libertino. Il protagonista di questa storia fatta di cadute e di vittorie è Eros, signore degli uomini e degli dèi, fonte inesausta di tutti i desideri”.
“Le passioni, i rimpianti, gli slanci di uno degli uomini che con più lucidità e sapienza ci hanno raccontato il nostro tempo”. Il libro è diviso in tredici capitoli di cui diamo alcuni titoli: La caverna di Psiche; Il potere è triste; Sentimento del tempo; Entra in scena Eros; Le trasgressioni; La passione del Nazareno; La Sonata di Beethoven; Il triangolo sentimentale; L’amore andaluso. Scrive Scalfari: “Vivetela bene la vostra piccola vita perché è la sola e quindi immensa ricchezza di cui disponete. Non dilapidatela, non difendetela con avarizia, non gettatela via oltre l’ostacolo. Vivetela con intensa passione, con speranza e allegria”.
E’ un invito che la redazione del nostro giornale accoglie e rilancia ai suoi lettori. Per uscire - sì, anche per uscire - dalle pastoie delle tragicomiche derive della politica (lo dicevamo: “
Il comico è solo il tragico visto di spalle”).
Il volume si chiude - dopo un percorso in cui incontriamo Saffo, Shakespeare, Proust, D’annunzio, Calvino… - con una lunga riflessione sul poeta Federico Garcia Lorca: “Voglio dire che la sua è stata l’ultima autentica testimonianza della potenza, della tenerezza, del languore, della melanconia, della lussuria e del sentimento di morte, di Eros…” (p. 112). Ma non si tratta solo di questo. Il libro è ricco di pathos e di riflessioni filosofiche che passano attraverso un confronto con Freud (pp. 81-85).
Un collaboratore di Galatro Terme News ha letto in anteprima le bozze (Gennaio 2011). Scalfari scrive: “Ringrazio gli amici che hanno letto le bozze e dato il loro giudizio: Alberto Asor Rosa, Rosaria Carpinelli, Angelo Cannatà, Renata Colorni, Paola Gallo, Maria Ida Cartoni, Valentina De Salvo”.
L’appuntamento, per gli amici di Galatro Terme News in giro per l’Italia, è a Torino, il 14 Maggio, ore 17,30 – Salone Internazionale del libro – per la presentazione ufficiale del volume. La prossima settimana pubblicheremo un articolo di Angelo Cannatà sullo stile e il senso complessivo dell’ultimo lavoro di Scalfari.

Eugenio Scalfari, Scuote l'anima mia Eros, Einaudi, pp. 150, € 17.00

Nella foto in alto: la copertina dell'ultimo libro di Eugenio Scalfari, Scuote l'anima mia Eros.

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(19.5.11) SECONDA EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO "METAUROS" - L’Università “Ponti con la società per il tempo libero e la socializzazione” con sede a Gioia Tauro, presieduta dal prof. cav. Rocco Giuseppe Tassone, con l’amichevole patrocinio della prestigiosa associazione messinaweb.eu di Messina, presieduta da Rosario Fodale, indice la seconda edizione del concorso letterario “Metauros” aperto a tutti gli autori senza nessuna distinzione di provenienza, fatto salvo l’espressione in lingua italiana (o dialetto calabrese/siciliano nelle sezioni B e D) e la maggiore età.
Il concorso, di cui abbiamo già trattato in questo giornale relativamente alla prima edizione e di cui vi proponiamo in basso una foto della premiazione, è diviso in cinque sezioni.
La scadenza per l'invio delle opere è fissata al 31 Dicembre 2011.

Visualizza il Bando completo della 2a edizione del concorso letterario Metauros. (PDF) 70,7 KB


Consegna targa e diploma al 1° classificato della sezione Libro
di storia locale della prima edizione del concorso Metauros


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(21.5.11) EROS, RAGIONE E POESIA NELLA FILOSOFIA DI SCALFARI (Angelo Cannatà) - Il testo che segue è una recensione-intervista ad Eugenio Scalfari (rilasciata in esclusiva al nostro giornale) sul libro Scuote l’anima mia Eros. Autore dell’intervista è il nostro collaboratore ed amico Angelo Cannatà, già autore di Eugenio Scalfari e il suo tempo nonché curatore per Mondadori, in collaborazione con Alberto Asor Rosa, del libro dedicato a Scalfari di prossima uscita nella collana “I Meridiani”.

* * *

Seguo da anni la produzione giornalistica, letteraria e filosofica del fondatore di Repubblica e ho letto con particolare attenzione Scuote l’anima mia Eros, pubblicato da Einaudi. E’ un testo denso. Polisemantico. E’ ogni volta una “sorpresa” - e un piacere - constatare la grande abilità di Scalfari nel tenere insieme biografia, mitologia, religione, filosofia, musica, psicanalisi, letteratura.
Il testo prende avvio da una riflessione sulla “caverna degli istinti” e sulla dialettica apollineo/dionisiaco nell’uomo. Tema antico, analizzato con lucida profondità da Nietzsche. Scalfari lo riprende: “L’intimità tra mente e psiche è stata una delle conquiste della modernità, ma conteneva un rischio: il viaggiatore - che scava nei meandri della psiche - vede modificarsi la propria natura durante il viaggio e a causa del viaggio”. Si esce diversi da questa esperienza. Da qui le pagine sulla metamorfosi dell’io; e quelle sulla nostalgia e la melanconia. Non bisogna confondere i due termini: “l’asse lungo il quale si snoda la nostalgia è la memoria; la melanconia invece è legata alla fantasia delle vite che avremmo voluto vivere e non abbiamo vissuto”.
Libro particolare, dicevamo. Ricco di riferimenti autobiografici. Belle le pagine sull’oratorio (l’adolescente Scalfari confessa i pruriti sessuali, e il prete: “non farlo più sennò c’è l’inferno”); poi il discorso si allarga sulla chiesa, il sesso e la figura di Gesù; su Freud e Proust e Dostoevskij. Scalfari non esita - dopo una riflessione su Eros, signore degli istinti - a parlare di curvatura erotica dell’essere. Gli accademici “puri” faranno un salto sulla sedia. Sbagliano. La verità è che il filo conduttore del libro fa da legame a ragionamenti e ipotesi teoriche che sconfinano in molti ambiti disciplinari, rompendo (per fortuna) la chiusura degli specialismi.
Dico, “per fortuna”, perchè è proprio la parcellizzazione del sapere che rischia - spesso - d’impedire a qualche ricercatore (anche bravo) di cogliere la complessità di un problema (“come può il guardiano degli istinti resistere alla loro pressione?”). L’indagine critica richiede profondità d’analisi, ma anche uno sguardo d’insieme che sappia muoversi in territori diversi.
Scalfari riesce molto bene nel suo intento, proietta uno sguardo nuovo e più profondo su temi antichi. Parla degli affetti primari e delle passioni riprendendo Spinoza (la letizia, la tristezza…); o dell’istinto di conservazione... pensando a Schopenhauer; ma subito va oltre, inserendo Freud o un'altra chiave di lettura più profonda, che sa abbandonare per aprire le pagine alla mitologia o all'analisi razionale della religione che dice molto - in realtà - sull'uomo.
Sono molto intriganti le pagine sull’interpretazione filosofica di Gesù (“Nessuno riesce a soffocare un istinto, sia un dio che si è incarnato sia un uomo che ha creduto di essere dio”). Questa lettura è già presente in Incontro con Io, ma qui è più evidente, l’apprezzeranno anche i lettori meno attenti. In breve: a differenza di chi interpreta i Vangeli alla luce della fede, Scalfari “cerca anche in quei testi uno strumento per comprendere la natura profonda della psiche e delle sue figure”. Siamo sicuri che Gesù sia il figlio di Dio che si umanizza (come vuole l’ortodossia)? E’ una domanda che da secoli attraversa la storia della filosofia. Gli illuministi l’hanno riproposta con forza. Scalfari osserva: ci sono due momenti della vita di Gesù che fanno pensare a un uomo che ha sublimato gli istinti egoistici, “immaginandosi” figlio di Dio (è l’elemento “umano, troppo umano” di Gesù): nell’orto di Getsemani, la notte dell’arresto (“Padre, allontana da me questo calice”); sulla croce dopo ore di supplizio, prima di morire (“Padre mio, perché mi hai abbandonato?”). Nel momento culminante del sacrificio - osserva Scalfari - “l’io lancia il suo ultimo grido per sottrarsi al destino da lui stesso voluto. Con quel grido la natura umana riprende il sopravvento e l’io riecheggia l’amore di sé che aveva cancellato per adempiere alla sua missione. Nessuno riesce a soffocare un istinto, sia un dio che si è incarnato sia un uomo che ha creduto di essere un dio” (pp. 90-93).
Scalfari non pretende di dimostrare nulla, né di risolvere una disputa teologica durata millenni e destinata a non finire mai. Gli chiedo: “come mai questa riflessione su Gesù, in un libro che parla dell’eros e degli istinti?” “Perché – caro Angelo – mi interessava evidenziare come anche Gesù (figlio di Dio, o uomo), abbia dovuto fare i conti con l’istinto di conservazione presente in ogni essere vivente: quel grido, ‘Padre mio perché mi hai abbandonato’, è il grido di un uomo che teme la morte”. Scalfari scava, indaga - con gli strumenti della ragione e della filosofia - su Eros, signore degli istinti. Eros, “divinità primigenia che domina gli dèi e gli uomini e infonde il desiderio di sopravvivenza in tutti gli esseri viventi. Si può dunque dire che l’ ‘essere’ ha una curvatura erotica? Si può dire che questa curvatura si riflette in tutti gli innumerevoli enti che lo compongono?”
Secondo Scalfari sì, si può dire. Il libro tiene nella giusta considerazione il lavoro di Freud sugli istinti e le pulsioni erotiche, ma anche Eros e civiltà di Marcuse, di cui il Nostro – dialogando – mi cita passaggi fondamentali. Egli però insiste soprattutto (è il tema che privilegia) sul fondamento dell’io, sulla duplicità - egoistica e altruistica - della natura umana, di cui una tappa importante è Alla ricerca della morale perduta.
Il risultato è uno sguardo complessivo sull'uomo - istinti, desideri, passioni - che non trascura nessun fondamentale punto d'osservazione, ma li include tutti in una prova d'orchestra dove ogni “strumento” (mitologico, letterario, filosofico…) suona, ma secondo il ritmo e il tempo dettati dal direttore, che ha un disegno, una tesi, una filosofia da narrare sulle onde maestose della letteratura.
Parla di triplice amore: “Amiamo noi stessi, un altro, molti altri. Per questo siamo ambigui, contraddittori, tormentati, affetti da complessi di colpa esistenziale. Siamo dominati da egoismo o da altruismo, la polarità si ripropone di continuo ed è al tempo stesso ricchezza e fragilità, gioia e doloroso tormento”.
Intendiamoci: una dose di egoismo è fisiologica in ogni essere umano; il guaio - osserva - è quando diventa egolatria, narcisismo esasperato, amore assoluto di sé, passione smodata per il potere. “Dalla fisiologia si passa alla patologia” - aggiunge - e non è difficile capire (guardando allo scenario politico) a chi sta pensando.
Il libro si inserisce in un percorso, un’indagine filosofica sull’Io, la ragione, il sentimento del tempo, gli istinti, l’irrazionale… che dal 1994, con Incontro con Io, arriva fino a Per l’alto mare aperto (una riflessione sulla modernità e la crisi delle certezze) e oggi, appunto, approda a Scuote l’anima mia Eros. E’ l’ultima tappa – per adesso – di un viaggio di cui ho documentato il percorso in Eugenio Scalfari e il suo tempo. “Materialismo, biologismo etico, ateismo: sono le chiavi d’ingresso nella filosofia di Scalfari”, scrivevo. Bisogna cominciare a riflettere (anche) sulla sua particolare attenzione per la poesia. Shakespeare, soprattutto. E Rilke. Nell’ultimo lavoro è molto presente Saffo - fin dal titolo -, D’Annunzio (l’Alcyone) e, nelle pagine conclusive, Garcia Lorca. C’è bisogno di poesia nella vita di Scalfari: “la poesia come tempo sospeso, come tempo perduto e ritrovato, come rapimento melanconico è diventata per me - scrive - il solo modo di accarezzare me stesso. Di consolarmi di esistere”.
Un modo per sopportare la fatica di vivere. Ma c’è qualcosa di più: non diceva Heidegger che “il linguaggio è la casa dell'essere”, che “i poeti sono i custodi di questa dimora”? Fondamentale è anche la musica. Chopin, Mozart, Beethoven. La metafisica dei suoni che – come sapeva Schopenhauer – conduce (anche se momentaneamente) oltre la propria finitezza.
Un’ultima riflessione: Scuote l’anima mia Eros è dedicato a Calvino. Gli chiedo: “E’ vero che facevate i compiti insieme?” “Eravamo compagni di banco al Liceo e spesso studiavamo insieme, certo. Ma giocavamo anche, soprattutto al biliardo. E corteggiavamo le ragazze. Italo era terribilmente timido”.
Nel libro Scalfari ricorda il temperamento saturnino, melanconico del grande scrittore e osserva: “io sono stato, a differenza di lui, un mercuriale che sognava di essere un saturnino. Sono stato un mediatore di scambi, di commerci, di conflitti” ed anche talvolta un accompagnatore di sentimenti e di anime. “Posso dire che il mio amico e io siamo stati simmetrici nella nostra diversità. Lui era impastato d’ombra luminosa, io quella specie rara di ombra l’ho cercata a lungo senza mai possederla se non sul bordo della vecchiaia”. “Dedico a lui queste pagine che dalle sue Lezioni prendono le mosse e l’ispirazione”. Osservo che sono davvero molti i luoghi teorici in cui Scalfari si ispira a Calvino: penso, al di là delle Lezioni americane, al primo volume de “I nostri antenati”, Il visconte dimezzato. Dietro la favola del visconte Medardo diviso in due da una palla di cannone, c’è il tema del “doppio”, delle componenti contrastanti (il bene e il male) della personalità umana. L’idea filosofica di Calvino è che solo la consapevolezza di questa scissione possa determinare una piena conoscenza di sé. Scalfari, si muove nella stessa direzione: la duplice natura - egoistica e altruistica dell’uomo - è al centro della sua indagine filosofica. Sembra la continuazione del dialogo filosofico iniziato, “tra le palme e gli oleandri”, a Sanremo, quando insieme incontrarono Atena. Calvino, un amico. E un compagno di viaggio – tra ragione e osservazione empirica – nell’anima umana e negli eterni temi della filosofia.

Angelo Cannatà
angelocannata@libero.it

Nella foto in alto: Eugenio Scalfari.

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(26.5.11) "NIENTE DI CUI PENTIRSI": ESORDIO LETTERARIO DI UN GIOVANE MAGISTRATO (Domenico Distilo) - E’ uscito per i tipi di Luigi Pellegrini Editore Niente di cui pentirsi (pp. 440, € 18), un noir che segna l’esordio letterario di Rocco Cosentino, giovane magistrato ora in forza alla procura di Reggio Calabria dopo essersi fatto le ossa per una decina d’anni in quella, non meno calda, di Palmi.
Non è usuale che un Piemme coltivi la vocazione letteraria. Per chi fa questo mestiere essa di solito arriva a carriera finita o a notorietà raggiunta e concretizza una sorta di rendita di posizione – a parte che si esercita perlopiù nella saggistica o memorialistica o documentaristica, non certo nel giallo o nel noir. Nel caso di Cosentino credo invece che abbia cominciato a svilupparsi parallela e complementare a quella principale delle indagini, dei sopralluoghi, degli interrogatori, delle ricostruzioni logiche e dei riscontri fattuali che per un magistrato requirente sono pane quotidiano. Con tutto quello che di una vocazione letteraria costituisce l’indispensabile retroterra: una visione del mondo strutturata (organizzata cioè intorno a un centro) e non rapsodica, una naturale attitudine all’autoriflessione che alimenta una metafisica esistenziale nient’affatto banale, un sotteso atteggiamento ironico o autoironico essenziale per tenere la giusta distanza da ciò che si fa e anche da ciò che si è.
Rocco Cosentino (parlo con cognizione di causa: lo ricordo adolescente tra i banchi del liceo scientifico di Cittanova. Mai che gli sfuggissero i particolari, starei per dire i dettagli, di una lezione su Hegel o su Wittgenstein) è una persona scrupolosa, nemica dell’approssimazione. Voleva scongiurare il rischio di un prodotto dozzinale. Così prima di iniziare a scrivere si è “perso” nella lettura in quaranta settimane di quaranta romanzi del genere con cui si sarebbe cimentato. Sono sicuro, però, che se anche non ne avesse letto nessuno sarebbe riuscito nell’impresa: il romanzo se lo portava dentro con le sue ambientazioni, gli episodi misteriosi, la calibratura esistenziale dei personaggi, la cifra stilistica che aborre inutili leziosità a tutto vantaggio di un ritmo intenso, congeniale a un genere nel quale protagonisti e comparse pensano agendo e agiscono pensando, viventi (e/o morenti) sintesi a priori di pensiero e azione, materia e forma, reale ed ideale.
L’ouverture ci getta dentro la tranquillità normale o normale tranquillità, per meglio intenderci dentro la noia, di una cittadina di provincia. In superficie nulla sembra accadere; sottotraccia invece molte cose accadono – ad esempio, che un anziano e noto avvocato sia consumatore di cocaina che acquista sempre dallo stesso pusher e venga assassinato mentre torna a casa in auto dopo essersi rifornito con la modalità di sempre: incontro notturno col pusher in una strada poco frequentata - increspando però appena la piatta calma della superficie, che velocemente si richiude su fatti e personaggi che passano senza in realtà mai passare, figure eterne di una vicenda sempre uguale a se stessa, dove l’inizio si confonde con la fine e la fine con l’inizio e chi in un modo o nell’altro, per un motivo o per l’altro, spezza (col delitto) l’equilibrio - cosmico cioè senza tempo - è inesorabilmente chiamato a espiare la propria colpa - direbbe il vecchio Anassimandro, “secondo l’ordine del tempo”. Ecco perché il romanzo non ha un finale o, se si preferisce, ne ha potenzialmente molti, addirittura infiniti. Può infatti ricominciare daccapo o continuare all’infinito, ciò che apparendo cominciare, o ricominciare, essendo in realtà eterno. Cosentino crede nell’eternità, questo è il punto. E crede nell’eternità perché crede nella Giustizia che come magistrato è chiamato ad amministrare, crede nella necessità dell’ordine cosmico il cui destino gli uomini non possono sfuggire (non lo sfuggono gli avvocati-politici Cardamone e Merlin, a cui il destino presenta il conto dopo anni di malversazioni).
Lo dice espressamente – cioè lo fa dire a quello che forse è il suo alterego, il procuratore Catanzariti - a pagina 123: “Il destino di ogni uomo è affidato alla ruota della fortuna (la longa manus o la cinghia di trasmissione del destino); ieri sull’altare e oggi nella polvere”. Letta questa frase non ho potuto fare a meno di pensare ad Emanuele Severino e al suo “destino della necessità”, all’ineluttabilità, per chi dallo stesso Destino e dalla stessa Necessità è chiamato a fare il ministro di Dike, di spingere il reo – che ha attentato alla Necessità - a pagare il suo conto con essa “secondo l’ordine del tempo”, restituendo lo scettro al Destino e così riaffermando, ancora una volta e per sempre, l’ordine della Necessità.
Se questo è lo sfondo, direi la sostanza metafisica, il racconto la esprime nella tessitura degli ambienti e dei personaggi che appartenendo, non c’è dubbio, al vissuto quotidiano dell’autore, possono essere resi con descrizioni realistiche anche sul versante psicologico. La cosa sorprendente è, però, che quella che si sarebbe portati a ritenere come una descrizione dall’interno – fatta da uno che appartiene ad un mondo o, per dirla à la Heidegger, a cui è dato un mondo - a ben rifletterci si rivela una descrizione dall’esterno, da fuori del mondo delle procure e delle polizie: Cosentino ha cioè finito col ritrarre il suo mondo osservandolo e osservandosi in esso come se parlasse d’altro e d’altri, il che, lasciatemelo dire, è il massimo dell’ironia, ironia che non può non poggiare sulla consapevolezza della propria relatività, nonché della relatività del proprio stesso ruolo al cospetto della Necessità.
Nel capitolo XLV in cui viene descritto il sogno del protagonista che si rivede bambino e poi improvvisamente adulto in una casa che gli appare diversa all’esterno ma gli si rivela, una volta entrato, uguale a quella in cui aveva vissuto bambino con i genitori, leggiamo (pag. 332), pronunciata dalla madre, la frase chiave, in cui è riassunta la metafisica della Necessità, la visione del mondo dell’autore: “…se tutto questo che vedi intorno un giorno tornerà ad essere tuo, sarà perché la mano destra che te lo ha levato verrà sopraffatta dalla mano sinistra che ti sta accarezzando”. Segue la scena dei genitori che si alzano e si allontanano mentre il bambino-adulto cerca di seguirli ma viene inchiodato al divano da una forza misteriosa.
Il mistero (metafisico, non letterario) del romanzo è, credo, a questo punto risolto: se qualcosa è successo e ha rotto l’equilibrio, con cui si identifica l’ordine della Necessità, qualcos’altro dovrà succedere, di segno opposto, per ristabilirlo, per far ritornare il possibile e il contingente sotto il dominio del Necessario, ritorno in cui consiste l’essenza della Giustizia. Il possibile e il contingente si richiudono nell’infinito senza tempo, nel dominio della Necessità che crea e distrugge il destino di ognuno “nell’ordine del tempo”. Ecco perché il romanzo non poteva avere un finale: non si tratta di un espediente letterario per alimentare la suspense oltre l’ultima pagina, ma di qualcosa di molto più profondo e più serio. Cosentino ce ne renderà conto con le prossime prove: lo aspettiamo.

Rocco Cosentino, Niente di cui pentirsi, Pellegrini, 2011, pp. 440, € 18

Nelle foto: la copertina del libro e l'autore, il magistrato Rocco Cosentino.

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(27.5.11) UNA VISIONE INTEGRATA DELL'UOMO (Raffaele Mobilia) - L’illusione meccanicistica generata dal rapido progresso tecnologico di quest’ultimo secolo nel mondo occidentale ha fatto sì che si sviluppasse e si radicasse la tendenza a considerare l’essere umano come l’assemblaggio di vari organi operanti in sistemi e apparati (sistema muscolare, nervoso, digerente, cardiocircolatorio, respiratorio, ecc.) preposti a svolgere la propria funzione in maniera del tutto indipendente dal vissuto interiore, dagli stati d’animo, dalle elaborazioni cognitive ed emotive, dai sentimenti, dai pensieri, dalla coscienza - che poi sono le dimensioni e le qualità più specificamente umane: in sintesi, ha semplicemente esasperato l’equivoco - storicamente ricorrente-nato dall’ arbitraria spaccatura cartesiana della realtà umana in res cogitans (mente) e res extensa (corpo), trascurando o dimenticando del tutto il rapporto fra la mente e il corpo. Ma anche se secondo il “senso comune” tale concezione appare ancora di valore universale e intuitivamente inevitabile, è stata recentemente superata dai vertici del pensiero contemporaneo. Infatti, l’idea che una conoscenza in genere e una scienza in particolare diventino “più obiettive” escludendo dalla considerazione l’apparato interpretativo e conoscitivo mediante il quale essa è giunta fino a noi, si è rivelata illusoria e fallace. Inoltre, se prendiamo l’arte del guarire nella sua storia complessiva, ci rendiamo conto che quella di oggi è soltanto un’aberrazione momentanea: sia nella medicina tribale sia in quella occidentale (dai suoi primordi con Ippocrate e Galeno) - per non parlare poi di tutte le medicine orientali, dalla cinese all’ayurvedica indiana, all’antichissima tibetana - si è sempre attribuito grande importanza al lavoro che il medico può svolgere attraverso la mente del soggetto e il suo rapporto speciale con esso, fatto di aspettative, emozioni, dinamiche relazionali, progettualità e obiettivi comuni. Fino al diciannovesimo secolo i ricercatori non mancavano mai di mettere in luce l’influenza dell’angoscia, della disperazione e dello sconforto sulla nascita e sul decorso della malattia, né ignoravano gli effetti salutari della fiducia, della fede, della speranza e della pace dello spirito. Si riteneva comunemente che la soddisfazione fosse una condizione necessaria e indispensabile per la salute. Di tutto ciò, noi “operatori del benessere” (medici, psicologi, istruttori, personal trainers, insegnanti) siamo chiamati a tener in dovuto conto, se vogliamo ottimizzare le risorse dei nostri assistiti e raggiungere l’obiettivo prefissato di miglioramento fisico e mentale e l’equilibrio psico-fisico dei suddetti. Occorre quindi come primo passo tratteggiare un più ampio e completo modello di uomo, considerato nella sua straordinaria e unica sintesi (e non più antitesi) psicosomatica. La salute, a questo punto, non è un semplice stato di “assenza di malattia”, di pseudo-equilibrio improduttivo e stagnante incapace di portare ad alcuna evoluzione, bene personale da difendere da aggressori esterni, ma è piuttosto una potenzialità dinamica di crescita e sviluppo che l’individuo può costruirsi utilizzando le proprie energie e capacità creative ed evolvendo simultaneamente su tutti i livelli di persona completa e integrata. Stato di salute, dunque, come stato dinamico che si evolve nel tempo e che attinge al fluido e quotidiano svolgersi dei programmi di vita coerentemente su tutti i livelli della personalità, dal pensiero all’azione. L’essere umano è corpo, mente e spirito. La salute coinvolge necessariamente tutte queste componenti, di conseguenza qualsiasi programma che si prefigga di migliorare lo stato di salute e di promuovere il benessere della persona deve perciò rivolgersi tanto al corpo, quanto alla mente e allo spirito.
Un fenomeno complesso: lo stress.
Attualmente disponiamo di un gran numero di ricerche che dimostrano il rapporto di causa-effetto tra stress e malattie e la connessione tra sentimenti e immunità. E’così allora che, se normalmente, gli “incidenti di percorso”, da un banale colpo di freddo a una delusione più o meno cocente attraversano e sono vissuti dall’unità corpo-mente senza creare grossi problemi, assorbiti dalla elasticità del sistema, ovvero dalla sua capacità di adattamento, quando ciò non avviene ci si trova in stato di stress acuto, superata una certa soglia individuale di tolleranza del quale, per intensità e durata, si corre un alto rischio di ammalarsi.

Lo Stress.
Il termine stress fu coniato da Hans Selye nel 1936 e definito come “risposta aspecifica dell’organismo a qualunque richiesta ed esigenza gli venga imposta, tesa a ripristinare il normale equilibrio e adattamento in qualche modo perturbato da fattori esogeni ed endogeni”. Come tale lo stress può essere prodotto da una vasta gamma di stimoli (stressors) che richiedono un riadattamento o riequilibrio: ha infatti relativa importanza, secondo tale definizione, che l’agente stressante o la situazione che l’organismo deve fronteggiare siano piacevoli o spiacevoli, ciò che conta è fondamentalmente l’intensità del bisogno attivato di adattamento o riadattamento. Qui le nozioni di adattamento e riadattamento rinviano alla nozione di “omeostasi” di Cannon(1932) e all’idea di un equilibrio dinamico proprio di un organismo vivente che, se da un lato è partecipe di una costante attivazione interna, per altro verso tende a conservare e a ripristinare, nel caso di una sua alterazione, la stabilità dei propri stati interni. Ne consegue che lo stress può essere espressione sia di un sovraccarico (overload) sia di un sottocarico (underload) rispetto a un livello ottimale di stimolazione al quale corrisponde il miglior funzionamento dell’organismo. In questa prospettiva, nella ricerca da parte dell’organismo di ricostituire un’omeostasi perturbata, lo stress si configura come un fenomeno inevitabile di fronte alle diverse stimolazioni ambientali. Gli avvenimenti esterni (rumori, cambiamenti di vita, condizioni economiche difficoltose) ed interni (conflitti, esperienze e ricordi dolorosi e non) possono dar luogo alla Sindrome Generale di Adattamento che si esplica in tre fasi:

1) la fase di allarme;
2) la fase di resistenza;
3) la fase di esaurimento.

La prima fase, o reazione di allarme è caratterizzata dalla risposta psico-fisiologica agli eventi stressogeni : consiste nell’attivazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene e del Sistema Nervoso Simpatico. Essendo mediata da questi sistemi (quello endocrino-ormonale e quello nervoso) in continuo “dialogo” elettro-chimico tra loro, si verificano immediatamente modifiche fisiche quali l’aumento della frequenza cardiaca, accelerazione respiratoria, incremento della pressione arteriosa, aumento della temperatura corporea, contrazione muscolare, sudorazione e ipersalivazione, tanto per citarne i più noti. E’ la tipica reazione di “attacco o fuga”, in cui il flusso del sangue viene ridiretto ai muscoli e al cervello, vi è una mobilizzazione del glucosio e degli acidi grassi che così possono essere inviati dal sangue a fornire maggiore energia al corpo e lo stato di allerta è incrementato riducendo la funzionalità in altre attività, come la digestione o l’accoppiamento sessuale.
Continua...

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Nell'immagine: profilo di donna.

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(7.6.11) SCALFARI A LECCE PRESENTA IL LIBRO SU EROS - Al cinema Massimo di Lecce Venerdì 10 Giugno alle ore 18.00, Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, presenterà il suo ultimo libro Scuote l'anima mia Eros. Interverranno Stefano Costantini, caporedattore di Repubblica Bari e il galatrese Angelo Cannatà, biografo di Scalfari. La presentazione è stata organizzata dalle associazioni “Leccelegge” e “Liberrima” e dal corso di Filosofia della facoltà di Lettere dell'Università del Salento. Modera Gianluigi Pellegrino.
I lettori di Galatro Terme News potrebbero cogliere l’occasione per un viaggio "turistico-culturale" (per Scalfari e per ammirare il "barocco leccese"). E poi non è cosa di tutti i giorni veder partecipare un galatrese a un evento culturale di tale importanza.

La notizia è apparsa il 5 giugno 2011 su "La Repubblica", pagina 1, sezione: Bari.

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(12.6.11) IL TEMPO E IL SUO SIGNIFICATO NELLA POESIA DI VINCENZA ARMINO (Michele Scozzarra) - Scrivere di un poeta, anche se non si conosce personalmente, significa assumere il suo sguardo sulle cose, sulla realtà, sulla vita: io non conosco la professoressa Vincenza Armino (se non come la moglie dell'amico prof. Michele Zito), ma mi è bastato leggere le poesie dei suoi tre volumi (Pentagramma, A piedi nudi, nell'anima e Percezioni-Ricordi) per capire come la dirompente potenza dei suoi versi risiede nella capacità di modificare lo sguardo del lettore… nel riuscire a far sentire e gustare ogni verso nella sua assoluta unicità, componendo le parole, in modo diverso dal nostro abitudinario modo di scrivere, mettendo maggiormente a fuoco il “segreto della vita”, della sua vita in particolare, proprio con delle tematiche che toccano e riflettono profondamente l'animo dell'autrice… la sua coscienza che si fa “parola” di una tensione legata all'espressione della sua vita e nella poesia crea un “qualcosa”, in forma di parole, da consegnare all'Infinito, anzi stavolta è lecito chiamarlo “un silenzio consegnato all'Infinito”

Parla il silenzio
con voce altisonante.
Racconta la vita
con tutte le sue pieghe.
Scolpisce volti e gesti
nel cuore e nella mente,
annulla e amplia
le umane cure e i tempi.


E proprio in questo silenzio, in questo desiderio di “infiniti silenzi e infiniti spazi”, ecco come la poesia porta la Armino alla ricerca dei valori eterni con cui dare un senso al suo umano esistere:

Mi prendi all'improvviso, come il sonno
come la nostalgia, come il rimpianto.
Mi avvolgi or con dolore or con incanto,
mi guidi, mi sazi o mi lasci inquieta:
sei mia compagna o irragiungibil meta.


Bastano questi pochi versi a presentarci la poesia di Vincenza Armino come spaventosamente ricca di riecheggiamenti personali, immediatamente percepibili... la “parola” diviene subito accessibile al lettore, in tutto lo stupore che ne scaturisce... e quando una poesia suscita delle emozioni in qualcuno, ad un certo punto è come se si allontanasse da chi l'ha scritta e fosse scritta da colui che la legge... avviene come una inversione di senso: c'è in chi ascolta, una sorpresa derivata dal sentirsi colui che inventa e prova queste cose. Tra lettore e poeta si viene a creare come un patto segreto, una misteriosa connivenza... una sorta di “riconciliazione” in un incontro misterioso quanto improvviso:

Intorno il silenzio, la pace nel cuore.
Voli e desideri dentro come fuori.
Suoni, richiami, passi lontani.


Nelle sue opere si nota un forte desiderio di dare senso e significato alla sua “quotidiana fatica”, e si percepisce anche un disagio, il disagio di chi si accorge del “deserto che avanza e del vuoto che ci circonda”, dove, spesso, la fatica per la costruzione di una realtà più “umana”, appare sempre più frustata e inutile, e in tutto un addensarsi di ricordi, espliciti o meno, cerca di trovare quel senso del presente che attira a se anche il passato e il futuro, quasi come il tentativo di trovare una risposta lasciata “nel tempo”, o meglio, quei “momenti di tempo che danno significato al tempo”, che ci ritorna in mente attraverso le parole di T.S. Eliot nei “Cori della Rocca”: “Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo, Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo, Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c'è tempo, e quel momento di tempo diede il significato”.
Questa ricerca di significato nel tempo, come momenti di tempo che danno significato al tempo, la Armino la esprime in una delle sue poesie più belle

Tempo verrà di un tempo
che sarà altro tempo.
Scorrerà, lasciando impronte
da percorrere a suo tempo,
dimentichi del tempo.


La poesia della Armino si presenta anche come una testimonianza di fede… anzi dell'intelligenza della fede, intesa come capacità di cogliere una parabola umana nel suo tendere, nel tempo, al vero senso della nostra esistenza. Intelligenza di fede, dunque, perché di fede è la tensione (la spada che trapassa, che giudica e che condanna), che si impone nelle sue poesie, dove al centro del suo pensiero, spesso, non c'è il male, ma la mancanza di bene e quindi la mancanza di significato.
Anche se, nelle sue poesie, c’è sempre spazio per una preghiera, con il desiderio di aprirsi a questa forma, questo volto, questa vita che ci fa andare avanti per “vivere” in un mondo che, anche se ci impone dei ritmi che superano i nostri limiti e le nostre “speranze”, non ci allontana mai dalla via della Salvezza.

Parlami, o Dio,
fa' ch'io senta, forte, la tua voce
ora che, il buio non mi fa vedere,
ora che, sono priva di parole,
ora che il cuore tace,
ora che non so qual è la via,
ora che la speranza, non ha più una scia.


Nelle immagini: le copertine di alcuni volumi di Vincenza Armino.


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