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1.7.13 - Concorso fotografico "Lo sguardo incantato"

1.7.13 - "Succede tutto per caso", il nuovo romanzo noir di Rocco Cosentino

Domenico Distilo

3.8.13 - Commedia in due atti del Gruppo Teatro dell'Oratorio

5.8.13 - Prima Rassegna Teatrale Galatrese

Michele Scozzarra

7.8.13 - La Master Class di Nicola Sergio

10.8.13 - Un libro di filosofia per gli adolescenti: Orsù, Orsà e i grandi enigmi

Domenico Distilo

11.8.13 - La Compagnia Teatrale "Valle del Metramo" in "U figghiu masculu"

Michele Scozzarra

17.8.13 - L'intellettuale Rocco Giuseppe Tassone tra etnografia ed antropologia religiosa

Saverio Verduci

19.8.13 - Il libro di Greta Sollazzo al concorso Casa Sanremo Writers: votatelo!


2.9.13 - Pasquino Crupi: la politica, la letteratura, la preghiera... e la Madonna di Polsi

Michele Scozzarra

3.9.13 - Nuovi racconti di Umberto Di Stilo: "Bozzetti galatresi"

Domenico Distilo

5.9.13 - Pasquino Crupi e la fede

Domenico Distilo

7.9.13 - Umberto Di Stilo ci racconta della "Festa di' melangiani chini"

Michele Scozzarra

10.9.13 - Primavera culturale galatrese


27.9.13 - (Scienza) Medicina ayurvedica: efficacia e reazioni indesiderate sul sistema nervoso

Raffaele Mobilia

24.10.13 - I "Bozzetti galatresi" di Umberto Di Stilo

Michele Scozzarra

30.10.13 - Una nuova fashion app di OnScreen Communication per Siamoises


1.11.13 - Un salutare tuffo nel nostro passato

Pasquale Cannatà

8.11.13 - Poesia strana

Biagio Cirillo

22.11.13 - Quel mondo scomparso salvato dalla letteratura

Angelo Cannatà

25.11.13 - Routine is fantastic

Saverio Ceravolo

2.12.13 - Matrix, Avatar e l’Incarnazione

Pasquale Cannatà

4.12.13 - Dopo oltre mezzo secolo torna la processione dell'Immacolata

Umberto Di Stilo

21.12.13 - Alessandro Ocello: quando la passione per la musica diventa arte

Michele Scozzarra

27.12.13 - Concerto per il nuovo anno a Polistena con Nicola Sergio e altri artisti


29.12.13 - La chiesa di San Nicola

Umberto Di Stilo

30.12.13 - Le maratone musicali del pianista Emilio Aversano

Massimo Distilo





(1.7.13) CONCORSO FOTOGRAFICO "LO SGUARDO INCANTATO" - Interessante iniziativa dell'associazione culturale L'alba di Ceramida che ha organizzato la quarta edizione del concorso fotografico "Lo sguardo incantato: Bagnara tra terra e mare...". Ogni concorrente potrà presentare tre foto relative a paesaggi, luoghi e scene di vita. I premi previsti sono abbastanza significativi. Le foto vanno presentate fra il 22 e il 27 Luglio 2013. In basso vi presentiamo la locandina con tutti i dettagli del regolamento:



Scarica il regolamento completo al sito:
www.albadiceramida.altervista.org


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(1.7.13) "SUCCEDE TUTTO PER CASO", IL NUOVO ROMANZO NOIR DI ROCCO COSENTINO (Domenico Distilo) - La seconda prova noir di Rocco Cosentino dopo il successo di Niente di cui pentirsi (Succede tutto per caso, Luigi Pellegrini editore, collana la Ginestra, Cosenza, Maggio 2013, pp. 398, € 16), si presenta come un perfezionamento della prima non solo sotto gli aspetti, diciamo così, più tecnici – ampliamento fenomenologico e approfondimento sociologico degli ambienti criminali ed investigativo; cifra stilistica più disinvolta e cruda - ma in ordine ad una visione del mondo che pur ribadendo senza infingimenti ed eufemismi l’inestirpabile presenza del male nella società (com’è proprio, del resto, del noir), l’assoggetta tuttavia alle imprese di un “giustiziere solitario” che, non potendo fare altro, anche per non uscire dalle convenzioni del genere letterario, che perseguire il male attraverso il male, uccide per alimentare una sorta di aspirazione esistenziale – generata da un trauma infantile: è stato vittima di un sequestro lampo - ad un mondo che non si potrebbe definire né diverso né migliore, solo un po’ meno ingiusto.
L’incipit, il fatto da cui si dipana la vicenda, è un omicidio di difficile decifrazione, tanto più difficile quanto più lo stile di vita della vittima appare normale, perfettamente integrato in una cittadina di provincia, Bellaria, la cui superficiale, anonima piattezza, cede il campo, con l’avanzare della macchina narrativa, a un sottotraccia fitto di misteri in cui ognuno ha qualcosa da nascondere e nessuno è come appare o si sforza di apparire. Così il capitano De Angelis, rappresentante della Benemerita con notevolissime referenze nell’opinione generale oltreché marito e padre esemplare, coltiva inclinazioni sessuali non ortodosse; così addirittura il ministro dell’interno, donna, intrattiene una relazione sentimentale che ne determina un pesante quanto occulto conflitto d’interessi; così tra un lui e una lei sostituti procuratori nascono affinità elettive che i due, per tutta una serie di più o meno comprensibili ragioni, riluttano a rendere pubbliche.
Ma la cosa che più sconcerta non è tanto il contrasto in sé tra sostanza e forma, essere e apparire – che potrebbe pensarsi come una condizione universale e non particolare - quanto che nessuna cosa sia o venga fatta come dovrebbe, con motivazioni autentiche ed intrinseche, e che questo scostamento sia tanto più marcato quanto più si sale nella gerarchia delle forze dell’ordine e della magistratura. E’ sconcertante, per dire, che ai vertici di entrambe ci si preoccupi decisamente meno della sostanza che dell’immagine, più delle cerimonie e degli incontri con gli studenti delle scuole che dell’efficacia delle indagini. Non ci vorrebbe molto a farsi tornare in mente l’ormai datata polemica di Leonardo Sciascia contro i cosiddetti “professionisti dell’antimafia”, gli inquirenti che secondo lo scrittore di Racalmuto costruivano carriere con un’interpretazione essenzialmente propagandistico–retorica e una sapiente gestione mediatica del ruolo di magistrati d’accusa.
Sennonché, nel caso di Cosentino non si tratta di una polemica dettata da situazioni contingenti e suggestioni estemporanee, bensì della messa a fuoco di una tara strutturale, come si può evincere dalle battute al vetriolo contenute nelle considerazioni a commento della conferenza stampa congiunta, a conclusione delle indagini sulla strage di una famiglia borghese collusa con la criminalità, del procuratore capo della repubblica e del colonnello dei Carabinieri: “avrebbero illustrato i particolari dell’operazione e risposto alle domande dei giornalisti tutti coloro il cui contributo effettivo alle indagini era stato pari a zero. A partire da tutti i capoccioni graduati in divisa e a finire con decrepiti organi di vertice della procura, il cui ricordo di come si fa un’indagine era pari a quello dell’ultima volta in cui erano riusciti a soddisfare sessualmente le proprie mogli” (p.376).
Si tratta sì di una previsione circa quel caso, ma è chiaramente pleonastico che riguardi tutti i casi giudiziari: ogni volta, sistematicamente, viene rifilata alla pubblica opinione una versione dei fatti tanto più distante dalla verità quanto più funzionale agli equilibri di potere da non turbare e all’immagine da salvaguardare ad ogni costo, prendendo in giro in primo luogo le regole che dovrebbero presiedere ad una democrazia non aduggiata dagli arcana imperii.
A questo punto il lettore non può però fare a meno di chiedersi se il “giustiziere solitario”, non sia il simbolo dell’impotenza della giustizia amministrata dallo stato democratico a essere, appunto, giusta, inficiata com’è dal garantismo della procedura penale, irrinunciabile in uno stato di diritto. La risposta è senz’altro affermativa ma incompleta. Incompleta perché quell’impotenza, quando sarà completo l’outing - da parte di un personaggio chiave - con cui si conclude il romanzo, sarà sì, ancora, da imputare a istituzioni inefficienti ed apparati deviati. Solo però in via secondaria e derivata, essendo essi null’altro che epifenomeni del “male radicale” che, così come il bene, è la sostanza stessa dell’universo e per combattere il quale è necessario che intervenga altro male, cioè “il male fatto a fin di bene” da individui le cui vite, così come tutte le altre, procedono “col pilota automatico innestato”, vale a dire determinato dal Fato o, che è lo stesso, dal Caso. Infatti... Succede tutto per caso, così che non c’è proprio... Nulla di cui pentirsi.
La visione del mondo dell’autore, la sua filosofia emersa al debutto e da noi allora riscontrata trova così una sua compiuta configurazione. Sulle implicazioni esistenziali e politico-pragmatiche di essa sarebbero tante le considerazioni da fare. Crediamo però che sia più interessante farlo in un’intervista che Rocco Cosentino ci vorrà concedere.

Rocco Cosentino è nato nel 1974 a Taurianova (RC), dove risiede. Laureatosi in giurisprudenza nel 1996, è entrato in magistratura nel 1999. Attualmente è in servizio presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria con le funzioni di sostituto procuratore distrettuale antimafia. Nel 2008 il suo racconto “Terra di nessuno”, pubblicato dalla Rizzoli nell’ebook “Italians, una giornata nel mondo”, è stato il più votato dai lettori nell’omonimo concorso online organizzato dal sito Corriere.it. Nel 2011 esordisce con il romanzo noir “Niente di cui pentirsi” (Pellegrini Editore). “Succede tutto per caso” è la sua nuova fatica letteraria, seconda tappa della tetralogia del “male necessario”.

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Nelle foto: in alto la copertina di "Succede tutto per caso", in basso l'autore Rocco Cosentino.

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(3.8.13) COMMEDIA IN DUE ATTI DEL GRUPPO TEATRO DELL'ORATORIO - Il Gruppo-Teatro dell’Oratorio San Giovanni Bosco di Galatro, Sabato 3 Agosto alle ore 21.00, nella Piazzetta del Carmine di Galatro, presenterà la commedia in due atti La pazienza del signor Prevosto.
La rappresentazione curata da Mariuccia Impusino e Carmela Carè, vede impegnati come interpreti Fabrizio Cirillo, Arianna Sigillò, Lisa Primerano, Maria Cirillo, Gregorio Ozimo, Federica Lucà, Lucia Sofrà, Sabrina Campisi, Paola Ozimo, Marcello Sorrenti, Salvatore Raso, Giovanni Napolitano.
Il Gruppo-Teatro dell’Oratorio, con volontà e sacrificio, ha cercato di creare un momento per trascorrere insieme alla nostra Comunità una divertente serata non solo all’insegna del divertimento, ma creando anche le condizioni che portano a riflettere su tante situazioni della vita, talvolta anche mediante fatti che, apparentemente, si presentano in situazioni esilaranti.
La pazienza del signor prevosto di Luigi Galli, in due atti, in cui il povero Don Ambrogio cerca di scrivere la predica per la domenica successiva, ma, non appena si siede e prende in mano la penna per scrivere, accade qualcosa che lo interrompe. Tra la sua invadente mamma-perpetua, i problemi familiari, sentimentali e lavorativi dei suoi fedeli, e… una misteriosa sparizione… si giungerà al finale in cui l’ormai nervoso Don Ambrogio non sarà riuscito a scrivere la sua predica, ma… non sveliamo il finale, anzi invitiamo tutti a scoprirlo con la loro presenza nella piazzetta del Carmine!
In basso la locandina dell'evento:



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(5.8.13) PRIMA RASSEGNA TEATRALE GALATRESE (Michele Scozzarra) - Inizierà stasera e si protrarrà fino a Lunedì 12 Agosto la “Prima Rassegna Teatrale Galatrese”, organizzata dall’Amministrazione Comunale nell’ambito dei programmati incontri sociali e culturali della manifestazione “Vivi Galatro – Estate 2013”, che animeranno l’estate galatrese con una serie di spettacoli che, sicuramente, riscontreranno grande favore di pubblico.
Tutte le rappresentazioni teatrali si svolgeranno di sera, nella centralissima Piazza Matteotti, che sarà allestita come un grande teatro all’aperto. L’inaugurazione, prevista per stasera, Lunedì 5 Agosto alle ore 22.00, vedrà esibirsi la Compagnia teatrale di Milazzo “Dietro le quinte” che presenterà la commedia brillante in due atti “Voglia di Borotalco”.
Le altre serate della rassegna vedranno sul palco, Mercoledì 7 Agosto il Laboratorio teatrale rosarnese “Rosarno ‘76” con la commedia “La gallina ve la servo… calda”;
Venerdì 9 Agosto la Compagnia teatrale “I Ciclopi” di Adrano (CT) con la commedia “A Famigghia difittusa”;
Lunedì 12 Agosto la Compagnia teatrale galatrese “Valle del Metramo” presenterà la commedia farsesca in tre atti “’U figghiu masculu”.
Questa “Prima Rassegna Teatrale Galatrese”, pur nella varietà delle rappresentazioni presenti, evidenzia una linea costante che va ben al di là della bravura degli interpreti, o della suggestione estetica suscitata dalle varie scene delle commedie: vuole rappresentare il tentativo di recupero di una memoria, di una tradizione, di una cultura autenticamente popolare che, oggi più che nel passato, proprio nel teatro trova il “luogo” in cui si concentrano tante domande fondamentali che ci rimandano a un “oltre” che trasfigura tanti piccoli “episodi” della nostra quotidianità, rendendoli “grandi eventi” sui quali pensare, ridere e riflettere sulla vita e come viene vissuta nei nostri paesi.
Il Vice Sindaco di Galatro, Pino Sorbara, ha evidenziato l’interesse dell’Amministrazione ed i motivi che l’hanno spinta a programmare un tale significativo evento: «Quest’anno, con questa “1a rassegna teatrale”, abbiamo voluto dare un più ampio respiro e una maggiore rilevanza agli incontri estivi galatresi, invitando non solo le Compagnie teatrali locali, ma estendendo l’invito anche a due Compagnie della vicina Sicilia che, in questo momento, rappresentano il fiore all’occhiello del teatro popolare siciliano che è quello più vicino alla nostra tradizione culturale. Tra le due rappresentazioni della Compagnie siciliane, abbiamo inserito la Compagnia “Laboratorio Teatrale Rosarno ‘76” che, ormai da diversi anni, consegue ampi consensi di pubblico e di critica sia nella nostra Regione sia al di fuori di essa. Chiuderà la rassegna la Compagnia teatrale Galatrese “Valle del Metramo” che continua una “nostra” tradizione teatrale, nata negli anni ’80 e che si presenta come un segno di grande tradizione, arte e cultura del nostro paese che non può andare perduta. Per questo merita un plauso e un incoraggiamento chi si sta facendo carico della continuità di questa bellissima espressione artistica galatrese. L’Amministrazione comunale ci ha tenuto a inserire la rassegna teatrale, nell’ambito delle manifestazioni estive di “Vivi Galatro Estate 2013”, nella speranza che possa rappresentare non soltanto un momento di spensieratezza e di svago ma, soprattutto, un momento di aggregazione sociale, d’incontro per un risveglio culturale del nostro paese, che ha alle spalle una tradizione, sociale, culturale, letteraria, artistica e musicale invidiabile, che non possiamo permettere che vada perduta, anzi bisogna lavorare e intensificare tutte le nostre energie per farla rivivere.»


Nella foto in alto: Pino Sorbara, vicesindaco di Galatro.


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(7.8.13) LA MASTER CLASS DI NICOLA SERGIO - Il pianista galatrese Nicola Sergio sta tenendo a Polistena, per il secondo anno consecutivo, una master class di armonia e improvvisazione jazz rivolta a tutti gli strumentisti (esclusi i percussionisti). Nicola, pur essendo ancor giovane, ha accumulato una vasta esperienza nel campo della musica jazz, avendo suonato su molti importanti palcoscenici di tutto il mondo e inciso per rilevanti etichette discografiche.
Le sue competenze musicali sono a disposizione di pianisti, cantanti, chitarristi, bassisti, fisarmonicisti e strumentisti a fiato. La master class si svolge dal 5 all'8 Agosto, ore 10-13, presso il Salone delle Feste di Polistena ed è organizzata dall'Associazione Musicale Nosside col patrocinio del Comune di Polistena.
Per informazioni: 349.6185572 -
nellycreazzo@tiscali.it



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(10.8.13) UN LIBRO DI FILOSOFIA PER GLI ADOLESCENTI: ORSU', ORSA' E I GRANDI ENIGMI (Domenico Distilo) - La filosofia, stando a un luogo comune spesso avallato dagli addetti ai lavori, non può, a pena di snaturarsi, separarsi da uno stile grave e greve, farcito di un lessico tecnico al quale si avviluppa una sintassi arcigna o del tutto impenetrabile.
Per fortuna, però, le smentite non si contano. Talvolta da parte di grandi maestri, da Platone a Russel, il cui valore è universalmente riconosciuto; talaltra da bravi cultori dalle preziose e impagabili attitudini divulgative.
E’ quest’ultimo il caso del libro di Massimo Bargagli, Orsù, Orsà e i grandi enigmi, I libri di Emil, Bologna 2013, pp. 263, € 17 (già da noi
presentato in precedenza), che unisce due qualità, o se vogliamo due esigenze, assolutamente non facili da conciliare: chiarezza espositiva e precisione concettuale, geometrica esattezza delle definizioni e fruibilità letteraria.
La finalità dell’autore è fondamentalmente pedagogica, essendo il libro pensato per un pubblico di bambini e adolescenti, nonché di adulti che vogliono tornare tali. E’ così inevitabile che la modalità letteraria sia la narrazione, con le avventure di viaggio dei protagonisti che prendono la forma di avventure del pensiero, cioè di strumento per elevarsi al sapere, come accade – si parva licet… - nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel. A differenza di Hegel, però, Bargagli non racconta un viaggio attraverso i tempi, ma nell’unico tempo storico che gli appare congeniale agli obiettivi pedagogico–divulgativi che persegue: il Medioevo.
E’ sullo sfondo del Medioevo che si staglia la figura dell’eroe, Giovanni senza paura, che accompagna i due bambini e i loro amici animali in un viaggio pieno di avventure, di pericoli e – chi l’avrebbe mai detto? - di opportunità di riflessione filosofica e culturale, opportunità che però si offrono per la maggior parte all’ombra del sapere contemporaneo, novecentesco, con la conseguenza inevitabile del presente che si erge – anche se in modo garbato e mai saccente o altezzoso, semmai quasi sempre dissimulato - a criterio di giudizio del passato, finendo per trascinare il lettore in un relativismo sincretistico comunemente scambiato per il fondamento irrinunciabile dell’educazione alla democrazia.
E’ questo, per dirla senza indulgenze, il solo neo di un lavoro per il resto ben fatto e che sarebbe stato anche stilisticamente perfetto se la punteggiatura fosse stata disseminata lungo il testo con maggiore parsimonia. Ma tant’è! I peccati veniali sono, appunto, veniali. Quanto a quello sostanziale, dell’enfatizzazione del presente e dell’assenza di una reale prospettiva storica – attenzione: non storicistica - , è da imputare non all’autore, ma al clima culturale nel quale ormai da anni siamo precipitati e rispetto al quale egli non ha, magari, ancora sviluppato efficaci anticorpi, clima connotato dalla superficialità degli approcci, dalle letture veloci di compendi ed abstract, da un insegnamento dal quale è sempre più assente, in primo luogo nella scuola, ogni verace finalità formativa, sostituita dal puro e semplice addestramento alla prestazione e, in campo umanistico, da una sempre più stantia retorica della democrazia e della legalità. Ma questo è un altro discorso, da farsi a parte.

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Nella foto: la copertina di "Orsù, Orsà e i grandi enigmi".

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(11.8.13) LA COMPAGNIA TEATRALE "VALLE DEL METRAMO" IN "U FIGGHIU MASCULU" (Michele Scozzarra) - “Abbiamo bisogno del teatro…”, diceva Arnoldo Foà in una recente intervista. Poi continuava: “Facili Cassandre evocano da sempre la morte del Teatro, ma io ho sempre considerato il teatro un moribondo che non muore mai, perché abbiamo bisogno del teatro, per conoscerci, o riconoscerci; e nonostante il totale disinteresse di tanti per il teatro, ho fiducia in molti giovani, e meno giovani, che hanno ancora quella passione e quell’amore che ha spinto me, e tanti altri colleghi della mia generazione, a lavorare e questo lo vedo soprattutto in piccole compagnie e in tante realtà di piccoli paesi”.
Penso che nelle parole di Arnoldo Foà di rispecchia pienamente l’esperienza della Compagnia teatrale galatrese “Valle del Metramo”, che sera del 12 Agosto presenterà nella nostra piazza cittadina la commedia farsesca in tre atti “U Figghiu Masculu”: un gruppo di persone, studenti e lavoratori, si fa carico di portare avanti una compagnia per continuare una tradizione ed una esperienza teatrale della nostra Galatro, che rappresenta un’avventura che ha a cuore molto di più che la riuscita di una bella recita.
Possiamo ben dire che siamo davanti all’espressione (in questo caso alla “messa in scena”) di un’anima popolare semplice che contiene una percezione della vita come qualcosa di “bello”: la vita, questo gioco serio che diventa il campo della fantasia e del sogno, che riesce a creare uno “spettacolo” che si muove come su un filo di rasoio, in una sottile dialettica tra verità e finzione, tra sogno e realtà... senza perdere di vista la semplicità della trama e l’immediatezza della comunicazione.
E poi, la vera “popolarità” del lavoro della Compagnia galatrese è la carica umana che pervade tutta la commedia, che è l’anima intorno alla quale tutto si muove… la felicità, l’ambizione, gli idoli, la miseria, la povertà, l’ironia, la misericordia. Teatro, dunque, come riscoperta e riappropriazione di una storia, ma anche momento di meditazione e di giudizio sulla vita di oggi nel suo “incontro” con tutta una tradizione, una cultura, una memoria da recuperare e valorizzare.
Tutto questo è reso possibile anche dalla bravura degli interpreti che andiamo a menzionare: Jasmine Mandaglio, Federica Crea, Michele Ardizzone, Raffaele Ruggieri, Michele Furfaro, Giuseppe Romeo, Carmela Cordoma, Rocco Ruggieri, Irene Mandaglio e Pasquale Cannatà.
Con il coordinatore-regista della Compagnia, Raffaele Ruggieri, abbiamo parlato a lungo, cercando di andare all’origine di questa bella esperienza di teatro: “Con la Compagnia teatrale “Valle del Metramo”, abbiamo voluto dare continuità ad una esperienza teatrale molto bella che parte da molto lontano, che affonda le sue radici nella metà degli anni ’80. Possiamo dire che la Compagnia è nata nel salone parrocchiale della Chiesa di San Nicola: dopo la realizzazione di una delle recite fatte a Carnevale, tra i soliti amici che frequentavamo la parrocchia, ci siamo chiesti se eravamo disposti a dare seguito a quella bella esperienza mettendo su una vera e propria Compagnia teatrale. Senza nessuna esitazione, in poco tempo la Compagnia era già stata formata.
Mi piace ricordare i nomi di quei grandi amici insieme ai quali iniziammo questa bella avventura: Tiziana Distilo, Carmela Cuppari, Antonella Manduci, Marianna Furfaro e, naturalmente, c’ero anche io. Man mano che il lavoro andava avanti la compagnia si è avvalsa sempre di più elementi; così si sono coinvolti in questa breve, ma entusiasmante, avventura un altro gruppetto di “ragazzi terribili” Angelo Cuppari (che insieme al resto della troupe curava la regia), Andrea Ruggieri, Pasquale Ardizzone, Ornella Sollazzo, Gianni Puliafito, Pierangelo Cannatà, Nunziatina Ocello. Oltre agli amici che curavano la parte tecnica delle nostre rappresentazioni: Nicola Marazzita, Pietro Ozzimo, Peppe Cirillo, Bruno Lamanna e Sabrina Distilo. A tutti loro sono riconoscente per il loro impegno nel lavoro svolto.
Due anni fa con Tiziana Distilo abbiamo deciso di riprendere il lavoro teatrale e rimettere in piedi quel che restava della vecchia compagnia, inserendo nuovi amici e, con la preparazione della commedia “l’eredità dello zio buonanima”, possiamo ben dire che è venuto fuori un ottimo lavoro. Ora ci ripresentiamo sul palcoscenico, dopo un anno di pausa, con la commedia “U figghiu masculu” una commedia brillante di cui gli autori sono Pippo Scamacca e Pippo Barone, che si divide in tre atti pieni di colpi di scena e malintesi.
L’intento della nostra Compagnia è quello di proseguire questa bellissima esperienza di teatro e riuscire a portare, anche al di fuori delle nostre “mura galatresi”, un pezzo della creatività, cultura e arte della nostra Galatro: tentare di riuscire a tenere alto il livello che negli anni passati, proprio in questo campo, è stato eccelso.
Una cosa che mi preme evidenziare è la grande compattezza della nostra Compagnia, la grande libertà e familiarità che si è creata durante il lavoro e le prove per la realizzazione della commedia: questo è il segno di un grande attaccamento al lavoro che stiamo facendo, che ci permette di lavorare con una unità e compattezza che, possiamo ben dire, giova a tutta la rappresentazione che stiamo realizzando. Così come posso anche dire che abbiamo avuto delle richieste per presentare la Commedia in altri paesi e questo, se da un lato ci inorgoglisce, dall’altro ci carica di una grande responsabilità alla quale, sicuramente, non ci sottrarremo, anzi impiegheremo tutte le nostre energie per portare alto il nome del nostro paese”.



Nelle foto, dall'alto in basso: due momenti di uno spettacolo del 2010 della Compagnia Teatrale di Galatro; la locandina della commedia "U figghiu masculu".


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(17.8.13) L'INTELLETTUALE ROCCO GIUSEPPE TASSONE TRA ETNOGRAFIA ED ANTROPOLOGIA RELIGIOSA (Saverio Verduci) - Un intellettuale attento ed acuto che studia ed indaga il passato; un passato sempre più difficile da identificare, sempre più difficile da tramandare e da conoscere!
E' questo un altro dei tanti aspetti della vita intellettuale e culturale di Rocco Giuseppe Tassone che nella sua costante attività di ricerca, con amore e pensosa devozione contraddistinto dalla fede e dall’umanità, è riuscito a raccogliere con l'intento di tramandarle alle generazioni future, una enorme quantità di preghiere, nenie e canti religiosi che hanno caratterizzato un passato non molto lontano delle genti di Calabria.
E lo ha fatto attingendo dalle vive fonti, dalle genti di quella sua amata Calabria, da quelle vere "voci della memoria" che custodiscono gelosamente questo patrimonio indissolubilmente legato alla storia di un popolo; quello stesso popolo che ha cullato, cresciuto, umanizzato Rocco Giuseppe Tassone.
Un percorso storico, etnografico ed antropologico compiuto dal nostro autore, che ripercorre con particolarità di dettaglio, la storia dei culti popolari calabresi, ricchi di tanta umanità, santità, fede e speranza.
Un figlio di questa terra che consacra la sua cultura a salvare la stessa cultura, attraverso principi universali quali l’umanità, la fede, la cristianità, la morale etico-religiosa.
Si tratta di frammenti di storia, memorie tramandate anche per via orale che meritano di essere salvate e custodite gelosamente dall’oblio dei secoli; dalle smodatezze della modernità.
Con questo lavoro certosino Rocco Giuseppe Tassone ha inteso omaggiare la sua gente di una carta di identità, di una carta di valori e lo ha fatto con la grande umiltà che lo contraddistingue da sempre.
Ha inteso così suggellare, in chiave etnografica ed antropologica, la storia religiosa della nostra terra, delle nostre genti, lanciando, a mio avviso, un importante messaggio; un messaggio di fiducia nel futuro per le nuove generazioni, un futuro nuovo, diverso, migliore, fatto di umanità e di dignità, la stessa ed identica umanità che ha da sempre caratterizzato i calabresi.
Da questi studi ben risalta la radice culturale di noi calabresi ed è proprio da ciò che è possibile comprendere, con dignità ed onore, cosa voglia dire oggi essere calabresi. Un passato fatto di antiche vestigia, di celebri personaggi, di tanti popoli che con il loro passaggio hanno lasciato le loro incancellabili tracce su di noi, sul nostro agire, sul nostro essere e sul nostro modo di essere.
Questa è quindi la vera cultura, la vera anima del popolo calabrese; la cultura della quale questa terra deve essere fiera.
Un lavoro di ricerca durato anni e che ancora continua, ad evidenziare la necessità dello studioso Tassone nella costante ricerca di se stesso, e questa volta l’autore lo ha fatto sul profilo “sua-nostra” cultura di appartenenza sociale.
Tutti questi canti, queste preghiere hanno sì un grande valore agiografico, ma assumono allo stesso tempo la connotazione più viva e reale di un grande segreto che deve superare i confini del tempo e della memoria per giungere preservato a noi, nella maniera più integra possibile.
E in questo Rocco Giuseppe Tassone riesce perfettamente con il suo stile semplice, dinamico e sobrio, intriso però di grande umiltà.
Una fonte preziosa che partendo proprio dall’unione dello studio etnografico ed antropologico giunge a dare una visione unitaria della storia della Calabria e di tutti i calabresi.

Nelle foto: le copertine dei tre volumi di Rocco Giuseppe Tassone. Un quarto volume a carattere iconografico è in stampa.


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(19.8.13) IL LIBRO DI GRETA SOLLAZZO AL CONCORSO CASA SANREMO WRITERS: VOTATELO! - Il recente libro della scrittrice galatrese Greta Sollazzo, dal titolo La luce in fondo al tunnel, di cui tempo fa ci siamo occupati e che è stato presentato in TV su RaiUno e RaiTre, può qualificarsi per la finale del concorso "Casa Sanremo Writers".
Sia la nostra concittadina scrittrice che la sua opera meritano tutta la nostra stima. Crediamo dunque che molti dei nostri lettori saranno contenti di dare il proprio voto al libro tramite la procedura on line sul sito della BookSprint edizioni, aiutandolo così a farlo accedere alla finale.
Per votare, seguire le istruzioni cliccando sul link in basso. Bisogna disporre di un indirizzo e-mail e di un numero di cellulare e... in bocca al lupo a Greta!

Vota "La luce in fondo al tunnel"





La presentazione su RaiUno del libro



La presentazione su RaiTre


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(2.9.13) PASQUINO CRUPI: LA POLITICA, LA LETTERATURA, LA PREGHIERA... E LA MADONNA DI POLSI (Michele Scozzarra) - Il 19 agosto scorso è morto a Bova Marina, Pasquino Crupi: tanti giornali ne hanno dato la notizia scrivendo di lui come “intellettuale meridionalista e giornalista, considerato uno dei maggiori studiosi della storia calabrese”. Ed è tutto vero!
Così come anche per il suo impegno politico, che lo ha visto acceso protagonista per diversi lustri, è stato descritto come “rosso per dispetto” riportando una delle sue ultime prese di posizione: “Non volevo che le gloriose bandiere della lotta operaia e bracciante finissero nelle mani di chi del Capitale conosce solo il titolo, e sa di Gramsci grazie alle tante vie che portano il suo nome”.
E’ stato anche scritto che “Pasquino era talmente fuori dagli schemi che da ateo-credente aveva fatto riaprire una Chiesa, così come ha sfidato le piazze della ‘ndrangheta quando non era di moda farlo, e non ha svenduto la sua terra per la pubblicazione o un titolo in prima pagina…”.
Ho letto di tutto sulla morte di Pasquino Crupi, ma non ho letto di come, negli ultimi anni (ma non solo negli ultimi anni), non ha esitato a rivolgere lo sguardo a “Colei che è al di sopra di tutto”, la Madonna (per lui con l’abito della Madonna di Polsi), la cui devozione ha sempre guidato la mano di poeti, scrittori, pittori: “La Madonna ha il suo canto perpetuo – scrive Pasquino - non nei monumenti scritti, ovvero nei libri, ma nei monumenti orali, ossia nella preghiera, affondata nel cuore del popolo, altare di carne, che palpita sempre e non muore mai”.
In questo inizio di settembre, periodo in cui hanno luogo, soprattutto a Polsi, i festeggiamenti in onore della Madonna della Montagna, mi piace ricordare Pasquino Crupi con un suo articolo, pubblicato il 3 settembre del 2008 su CalabriaOra, dove non scrive di politica, o di omicidi, o di ‘ndrangheta, ma dell’importanza della devozione alla Madonna di Polsi, racchiusa nel suo Santuario come in una conchiglia, con la gente che pigia per entrare e avvicinarsi all’altare: i muti vogliono parlare, i ciechi vedere, gli infermi guarire... mentre le donne intorno dicono le parole più lusinghiere alla Madonna, perché si commuova.
Con il solito impeto e chiarezza che lo ha sempre contraddistinto, Pasquino non ha avuto alcuna esitazione nello scrivere che: “… i letterati calabresi sono stati laici e progressisti… ma non sono riusciti ad essere popolo. L’esperienza luminosa non l’hanno avuta. Per loro sfortuna e per sfortuna della letteratura calabrese… Santi, Sante, la Madonna di Polsi appartengono alle umane genti affaticate, che hanno collocato nella pia valle la primogenitura della loro speranza inespiata. Non possono appartenere a narratori e poeti che a quella primogenitura hanno rinunciato per un piatto di lenticchie verbali. La preghiera precede la letteratura. E' così.”
Voglio ricordare Pasquino Crupi in questa sua “sacra” ricerca, in questa sua “preghiera”, così inquieta quanto autentica e vera, che testimonia la capacità di andare al “cuore” di quello che di più caro abbiamo dentro il nostro intimo, quello che ci costituisce e ci spinge a buttarci dentro l’umana avventura che è la vita di ognuno di noi, con l’onestà, non solo intellettuale, di riconoscere che c’è un tempo in cui si può anche pensare che “tutto è politica”, ma alla fine, le menti più profonde e attente alla realtà che ci circonda, non possono non arrivare ad ammettere che, grazie a Dio, “la politica non è tutto”.
Pasquino Crupi di tutto questo ha dato grande testimonianza!

* * *

A POLSI LA PREGHIERA PRECEDE LA LETTERATURA *
Pasquino Crupi

Con i piedi per terra e la testa nel cielo, i letterati calabresi hanno attraversato la Storia infetta di questo nostro territorio con la parola di san Nilo, la profezia incendiaria di Gioacchino da Fiore, restituito all'attualità da Obama, con la rivoluzione scientifica di Bernardino Telesio, con l'utopia di Tommaso Campanella, con i primitivi di Vincenzo Padula, per la prima volta ospitati nelle pagine astiose della letteratura nazionale.
Ma verso l'Aspromonte tardarono ad incamminarsi e furono preceduti, con buon gruzzolo di secoli, da Andrea da Barberino che con “I reali di Francia” (1491) deposita Papa Silvestro e alcuni suoi discepoli cristiani sulla aspra montagna, non ancora fatta maschera del negativo dai giornalisti con il casco coloniale. Si capisce.
Camminare a piedi in montagna, verso la montagna è una fatica enorme. Bisogna riposarsi e prendere fiato.
Insomma i letterati calabresi si affacciarono sull'Aspromonte solo sul principio del Novecento.
Vi guardarono con movimento verticale: dall'alto verso il basso. La testa dei letterati calabresi, che era ritta verso il cielo, reclinò verso il basso, là, nel punto luminoso, nella pia valle dove la chiesa fa da riposato albergo a Maria di Polsi.
E tutti erano stati anticipati dal millenario pellegrinaggio dei poveri di Calabria.
Come il Regno dei Cieli ai ricchi, così il Santuario di Polsi ai letterati calabresi non fu di facile accesso. Si capisce perché.
Non si può immaginare l'inimmaginabile. I letterati calabresi devono avere pazienza oltre che umiltà. Hanno da attendere che l'inimmaginabile, cioè il sacro, diventi il concreto-sensibile dell'avventura storica del popolo dentro la sua fede, che costruisce vicinanze umane con i grandi Santi e le grandi Sante della Chiesa, e ne racconta apparizioni, miracoli, placamento di pene.
Santi, Sante, la Madonna di Polsi appartengono alle umane genti affaticate, che hanno collocato nella pia valle la primogenitura della loro speranza inespiata. Non possono appartenere a narratori e poeti che a quella primogenitura hanno rinunciato per un piatto di lenticchie verbali. La preghiera precede la letteratura. E' così.
Le donne che si avvicinavano a Santa Maria di Polsi, lavando con la lingua il pavimento della prodigiosa Chiesa; gli uomini, che dalle loro spalle, ferite dal sole e infradiciate dall'acqua, sporgevano verso la bella Madre di Gesù i figli del bisogno e della notte: anemici, smunti, muti, storpi, sordi, ciechi; il ricco, il quale già schifò persino nella Casa del Padre, che sta nei cieli, di sedere accanto alle vecchie fasciate di stracci, e che ora nel tempio della beata Vergine implora dai terrazzani un po' di largo per potersi inginocchiare e pregare; il giovane toro, che fu insolentemente minaccioso sulle balze dell'Aspromonte e che adesso piega le zampe dinnanzi alla Miracolosa; l'urlo trionfatore, che annuncia per i rimasti fuori dal Santuario: “Miracolo! Miracolo!”: è questa l'onda che mette in movimento le teste dei letterati calabresi.
Sono i puri di cuore e gli infettati dalla fatica irredenta a guidare la mano di scrittori e poeti. Il racconto del sacro, che comunque è sempre un racconto, è senza inventiva e senza fantasia. I letterati calabresi se vogliono raccontare il sacro, devono ubbidire a questa castrazione.
Il Santuario di Polsi è un luogo di devozione.
Anche di ispirazione. Ma di ispirazione di santi pensieri. Non mai di ispirazione letteraria autonoma. Il soffio dell'arte colà, dove il rimbombo del cuore in piena è la poesia, tace. I letterati sono obbligati a rassegnarsi. Per poter raccontare, sono necessitati ad aderire al detto, al tramandato, alle pieghe dell'anima popolare come la pelle ai nervi. Quanto alla materia del racconto, non possono accrescerla. Quanto alla forma, le carambole sono disdette.
L'orfismo della parola, che ha esitato la sua inconcussa superbia trasformatrice, si arresta sulla soglia del santo Convento. Qui il popolo, muto da sempre, balbettante da sempre, stacca gli accenti dalle sillabe tormentate, indecise a diventare parola, e li solleva, al di là della geografia del digiuno linguistico, alla geografia dell'Eterno, ossia alla preghiera, parola compiuta.
Sulla soglia sacra, dentro la Chiesa di Maria di Polsi, si attua un rovesciamento epocale: i letterati, che pure hanno il dominio assoluto dei significati e dei significanti, balbettano, rallentano come chi è costretto a trascrivere e, addirittura, a copiare.
Gli uomini e le donne del popolo, che da sempre si sono espressi con gesti e mugugni, con frasi strozzate in gola, acquistano un'oralità effabile e matura. Ed è a quell'oralità che i letterati calabresi sono implicati a piegarsi, ridursi, porgere l'orecchio se davvero intendono ad una plausibile descrizione del sacro.
Propriamente in questo modo. La Madonna non è che il gemito verbale dei ricordi e delle preghiere del popolo, della folla unanime. Il racconto diretto è impedito ai letterati calabresi.
Questo impedimento cade solo quando si ha l'esperienza luminosa, vale a dire quando ci si abbandona alla fede.
Ma i letterati calabresi sono stati laici e progressisti, illuministi, ma non democratici. Non sono riusciti ad essere popolo. L'esperienza luminosa non l’hanno avuta. Per loro sfortuna e per sfortuna della letteratura calabrese. Infatti, hanno ritirato la loro testa dalla sacra montagna e da Maria di Polsi. Poco importa.
La Madonna ha il suo canto perpetuo non nei monumenti scritti, ovvero nei libri, ma nei monumenti orali, ossia nella preghiera, affondata nel cuore del popolo, altare di carne, che palpita sempre e non muore mai.

* Articolo Tratto da CalabriaOra di Mercoledì 3 Settembre 2008

Nelle foto, dall'alto in basso: Michele Scozzarra autore dell'articolo; Pasquino Crupi; la Madonna di Polsi; l'articolo su Polsi di Pasquino Crupi apparso su CalabriaOra del 3 Settembre 2008.


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(3.9.13) NUOVI RACCONTI DI UMBERTO DI STILO: "BOZZETTI GALATRESI" (Domenico Distilo) - Ne Il mio Natale Umberto Di Stilo aveva raccontato la quotidianità galatrese degli anni Cinquanta/Sessanta; in Bozzetti galatresi (Luigi Pellegrini Editore 2013, pp. 197 € 15) va indietro di tre decenni, nella Galatro degli anni Venti/Trenta, con strumenti che non possono essere solo la trasposizione letteraria dei ricordi, la nostalgia soffusa e l’attitudine a calarsi nei personaggi e nel loro tempo. Queste sono condizioni sì necessarie, certo però non sufficienti: non essendo stati, quelli che rivivono in Bozzetti, per ovvie ragioni anagrafiche, anni vissuti dall’autore, la buona riuscita del lavoro non poteva basarsi solo sull’amarcord. E’ evidente, allora, che essa ha richiesto parecchio di più, un di più che è da ricercare nella dimestichezza con le diverse tipologie di fonti (documentarie, iconografiche, orali e quant’altro) e nella capacità d’integrarle e fonderle nel bozzetto. Per intenderci: come già in altri racconti storici Umberto Di Stilo avrà sicuramente attinto alla miniera di cui dispone, ai materiali raccolti in una vita di studi e ricerche per la realizzazione di quella Storia di Galatro che aspettiamo da non so quando senza accorgerci che l’autore ha preferito centellinarla, che si tratta di un’opera in gran parte già scritta e pubblicata.
Ma poiché le qualità di scrittore e di storico di Umberto Di Stilo non dovevamo certo aspettare questo nuovo libro per scoprirle, è ora su altro che è il caso di soffermarsi, in particolare su ciò che, in sé, non è il racconto, o bozzetto, ma passa attraverso esso, cioè attraverso un genere letterario adatto alla rievocazione nostalgica, simpatetica, idillica del passato. Questo altro avrebbe ben potuto costituire un saggio di storia o antropologia culturale o, se si fa riferimento, in particolare, a I forgiari i Galatru, di storia delle tecniche artigianali, ma sarebbe stata materia per specialisti, arida ed ostica per definizione. La diluizione artistico -letteraria lo mette invece alla portata di tutti e di ciascuno, al punto che riesce naturale suggerire l’uso scolastico di Bozzetti galatresi, quanto mai opportuno per sottrarre gli adolescenti all’appiattimento nel presente digitale tentando di instillare in menti unidimensionali il senso della storicità, del passato che pervade il presente e dell’accelerazione del tempo che è il principale connotato degli ultimi decenni.
E’ infatti impossibile, leggendo i bozzetti di Umberto, non avere la sensazione di calarsi in un tempo, a differenza del nostro, immobile, il tempo della civiltà contadina-artigianale le cui vicende, nell’immaginazione dell’autore e probabilmente nella realtà accadute negli anni Trenta del secolo scorso, sarebbero potute accadere anche uno o tre secoli prima. Se, per dire, Marefrancisca, la protagonista dell’omonimo bozzetto – registrata all’anagrafe proprio come “Marefrancisca”: era la paradossale e forse goliardica precisione di quello che viene comunemente pensato come una sorta di “mondo del pressappoco”, in cui si andava alla buona - se Marefrancisca, dicevo, fosse vissuta sotto la dominazione spagnola o sotto i Borboni, avrebbe fatto le stesse esperienze e provato gli stessi sentimenti, così come gli stessi sarebbero stati i rapporti sociali nella loro dimensione orizzontale e verticale e nello stesso identico modo sacro e profano si sarebbero mischiati nelle occasioni tristi e liete della vita.
Ma se è vero che la Galatro degli anni Trenta è uguale a quella di cento o duecento anni prima al punto che individui e società sarebbero perfettamente fungibili o sovrapponibili, lo stesso non si può dire del presente, separato da una distanza siderale dal passato anche di solo pochi decenni fa. Quello che è accaduto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale non ha infatti assolutamente riscontro nelle epoche precedenti e ha definitivamente liquidato, con la civiltà contadina, l’essenza della vecchia Galatro. E’ un fatto che ciò che era peculiare e tipico, o anche solo debolmente connotativo, non esiste più, travolto dall’uniformità dei consumi di massa e dal loro principale portato, uno stile di vita apolide, cioè privo di una qualsiasi dimensione locale, propriamente patriottica, al punto che quella che si potrebbe definire la “galatresità” – al pari, del resto, di tutte le altre culture ed identità localistiche - in chi ha meno di trent’anni è ormai del tutto inapprezzabile. Si tratta del prezzo, se di un prezzo si tratta, pagato al progresso che, consistendo nell’avanzamento sociale degli individui in un contesto di tumultuosa crescita sociale ed economica, appariva al protagonista di A menza canna – a differenza degli altri bozzetti ambientato tra i Cinquanta e i Sessanta, in pieno boom economico -, probabilmente a causa di certe ricadute magari percepite come sgradevoli sul piano dei rapporti personali ed umani, segno di ubris, di dismisura, per rimediare ai quali egli – vissuto prevalentemente in un’epoca di rapporti e gerarchie sociali statici - invocava, appunto, “a menza canna”, che non era poi altro che il criterio in forza del quale l’individuo si identificava con un ordine sociale che considerava naturale e perciò immodificabile ed eterno.
Non è un caso che la psicologia dei personaggi di Bozzetti anche quando, nella maggior parte dei casi, sono decisamente caratterizzati, è all’insegna della coralità, senza scarti e/o divergenze rispetto al loro tempo e al loro ambiente. Si direbbe che ognuno reciti la sua parte senza aspirare ad averne un’altra e non avendo mai nulla da ridire non solo di fronte a una quotidianità di fatiche e stenti, ma neanche alle tragedie della vita, rispetto alle quali fa da ammortizzatore la cristiana rassegnazione, senz’altro incoraggiata da una chiesa ancora lontana dagli empiti giovannei. Sia il protagonista di A menza canna che Marefrancisca, colta dall’autore negli atteggiamenti e nelle certezze della terza età ancora prima di raccontarne le vicende tormentate dell’infanzia e della fanciullezza, sono in fondo, certo in modi diversi, figure paradigmatiche del proverbiale fatalismo calabrese, per il quale l’individuo non può fare nulla per partecipare in modo meno passivo al dispiegarsi ineluttabile della storia. Così Marefrancisca, in età ormai avanzata, è convinta di essere stata semplicemente fortunata a conoscere e vivere il progresso; don Agostino Albanese, che sembra opporsi a quella che per lui è la deriva dei tempi, in buona sostanza vi è rassegnato: la “menza canna” è destinata a restare riposta e negletta nel suo sottoscala.
L’arte, però, prescinde da considerazioni di questo tipo: così come è chiaro, per rendere l’idea, che il piacere procuratoci dalla lettura de I Promessi sposi non ha nulla a che fare con il giudizio che diamo sulla società lombarda del Seicento, allo stesso modo il giudizio storico sulla società contadino-artigianale della Galatro di ieri non ha nulla a che fare con il fatto inoppugnabile che la lettura di Bozzetti ci induce a immedesimarci con i personaggi e a calarci nel loro tempo.

Nella foto: copertina del libro "Bozzetti galatresi" di Umberto Di Stilo.

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(5.9.13) PASQUINO CRUPI E LA FEDE (Domenico Distilo) - L’interpretazione dell’articolo del 2008 di Pasquino Crupi, riproposto su Galatro Terme News da Michele Scozzarra, che, a una prima e superficiale lettura, si sarebbe portati a dare non è quella giusta. Il tema dell’articolo non è infatti puramente e semplicemente la fede, magari vissuta con risvolti drammaticamente esistenziali; ma la fede nel suo radicamento e nella sua espressione popolari, nonché il modo proprio degli intellettuali calabresi di rapportarsi ad essi.
In altri termini: non fa differenza che l’articolo Pasquino Crupi l’abbia scritto da credente o da ateo, non essendo la sua fede personale la res de qua, ma Polsi e le masse popolari che vi si recano in pellegrinaggio. Polsi è però niente altro che un pretesto per un attacco agli intellettuali calabresi che secondo lui non capiscono, non possono capire perché non vivono e non hanno mai vissuto con il popolo, non ne hanno mai condiviso le gioie e i dolori, non ne hanno mai sperimentato, appunto, la fede, che assurge, secondo uno schema scolastico – fides quaerens intellectum - che suona oltremodo strano in un intellettuale dichiaratamente marxista, a presupposto di ogni comprensione razionale.
Nell’articolo, pur con tutta la buona volontà, non si scorge nulla di nuovo, originale, inedito. Solo un vecchio tòpos –il distacco tra scrittori e popolo nella storia d’Italia in generale e della Calabria in particolare- della cultura di sinistra, tòpos risalente al Gramsci dei Quaderni del carcere e variamente ripreso e rimodulato nel Dopoguerra da Togliatti, Asor Rosa, Bobbio (con profili diversi) e non pochi altri. Negli anni esso è servito ad alimentare la critica marxista del Risorgimento e dello Stato unitario e viene brandito, oggi, dai neoborbonici. Non è un caso, del resto, che Crupi sparasse sempre ad alzo zero contro quella che dal suo punto di vista era stata la colonizzazione-spoliazione-depredazione del Sud perpetrata dai piemontesi, con un’esasperazione polemica, tipica del personaggio, che lo ha portato, in più d’un’occasione, a tessere uno strumentale elogio della fede, solo perché la Chiesa era stata, a suo tempo, all’opposizione dello Stato post risorgimentale, laico e liberale.
L’articolo su Polsi, senz’altro ben costruito in chiave retorica, riesce magari suggestivo. Ma non deve portarci a perdere di vista l’essenziale: Crupi era il rappresentante di un meridionalismo che, anche quando dice di stare a sinistra e di ancorarsi al marxismo, è fondamentalmente se non esclusivamente recriminatorio, con un cupo fondo reazionario. Non c’è da sorprendersi che, per esigenze polemiche, in qualche occasione non abbia avuto remore a “comprendere” finanche il cardinale Ruffo e il suo esercito della santa fede.

Nella foto: Domenico Distilo.

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(7.9.13) UMBERTO DI STILO CI RACCONTA DELLA "FESTA DI' MELANGIANI CHINI" (Michele Scozzarra) - E’ da alcuni anni che, nella vigilia della festa della Madonna della Montagna, precisamente la sera del sette settembre, è stata ripresa la tradizione di portare la Madonna al “catafalco”, che per l’occasione viene eretto nella piazza davanti alla chiesa della Madonna del Carmine.
Il gesto del “catafalco” è carico di mille significati, soprattutto è un atto di amore verso la Madonna, la testimonianza di tutto un mondo di usanze, di tutta una civiltà, una fede, una tradizione verso la Madonna, così come ci è stata tramandata nei secoli dalla nostra gente, dentro un patrimonio culturale, su cui si sono modellati tante usanze e abitudini legate anche al cibo che mettiamo, in particolari ricorrenze, sulla nostra tavola.
La fede, in certi particolari momenti che la “tradizione” impone, si vive anche a tavola, con pietanze che vengono consumate in particolari giorni di festa (feste patronali, Natale, Pasqua, carnevale…). Il più delle volte si tratta di pietanze semplici, che consentono alla famiglia di godere dei “sapori della festa” con pietanze tipiche che affondano le loro radici nella festa religiosa che in quel periodo si celebra.
Grazie ad Umberto Di Stilo, che si è reso disponibile a dialogare su questo, possiamo fare memoria di una nostra tradizione alimentare, tutta galatrese, legata alla festa della Madonna della Montagna: “’A FESTA DI’ MELANGIANI CHINI”.

Professore Umberto, proviamo per un attimo a chiudere gli occhi e, ritornando indietro nel tempo di qualche decennio, immaginiamo una tipica serata galatrese, nel giorno della vigilia della festa della Madonna della Montagna:
Fino a qualche decennio addietro, avventurarsi nel tardo pomeriggio, e fino a sera inoltrata, del sette settembre nelle strette, tortuose e caratteristiche viuzze del rione “Montebello” di Galatro, significava immergersi in una immensa nuvola di stuzzicante odore di fritto.
In tutte le case, ricche o povere che fossero, infatti, in quella giornata di vigilia della più popolare, sentita e partecipata festa del paese, si procedeva alla frittura delle melanzane ripiene. E’ questa, ancora oggi, una pietanza tipicamente galatrese ed altrettanto tipica dei pasti della sera della vigilia e del giorno della festa di “Maria Santissima della Montagna” cioè del sette e dell’otto settembre.
Una volta, quando le famiglie erano numerose, le brave ed attente massaie del luogo preparavano il ripieno nella stessa màdia nella quale solitamente impastavano il pane. E si friggeva per ore, dal momento che le melanzane ripiene dovevano bastare per i due giorni di festa durante i quali se ne potevano (e dovevano, diversamente che festa era?) mangiare a sazietà.
Oltre a quelle fritte, poi se ne preparavano anche cotte in quel sugo che poi sarebbe servito a condire i “maccarruna” (i tradizionali maccheroni) pazientemente “filati” a mano attorno al ferro col quale, nelle fredde sere d’inverno, si lavorava la calza, o le tagliatelle, impastate con sole uova, filate con l’apposito “filaturi”, tagliate e poi messe ad asciugare sul letto matrimoniale. Così preparate le melanzane diventavano più tenere, ma servivano soprattutto ad insaporire quel sugo nel quale, spesso, non c’era neppure la possibilità di cuocere qualche pezzo di carne di capra o d’agnello ancora attaccato a frammenti di osso.

“’A festa di melangiani chini” ha rivestito negli anni una particolare caratteristica che, a quanto pare, era vissuta con una attesa particolare, anche per le ristrettezze economiche del tempo… che proprio nei giorni di festa permettevano un pasto buono ed abbondante:
Il giorno di festa, in tanto si godeva pienamente e si differenziava dalla quotidianità, in quanto la famiglia aveva la possibilità di garantire ai suoi numerosi componenti un pasto diverso. Un pasto che “santificasse” la ricorrenza.
Anche per questo, in quasi tutti gli strati sociali del tempo, la ricorrenza festiva era attesa con ansia. E non solo dalle giovanissime generazioni costrette, spesso, dalle ristrettezze economiche a far colazione con un pugno di fichi secchi e poche castagne infornate (o, come nel periodo estivo precedente la festa settembrina, con frutta fresca appena colta dagli alberi) ed a pranzare con un semplice tozzo di pane accompagnato da qualche acciuga salata o da un pezzetto di aringa fritta col peperoncino.
A Galatro la festa settembrina di Maria Santissima della Montagna veniva solennizzata con l’abbondante preparazione di melanzane. Sicché, la sera della vigilia, quando la bella statua lignea della Madonna, in processione, dal “catafalco” abitualmente eretto nella piazzetta antistante la chiesa del Carmine, nel rione “Magenta”, veniva riportata nella sua parrocchia, c’era l’abitudine simpatica di entrare nelle case degli amici per assaporare qualche “menza melangiana”. Magari calda calda, appena tolta dall’olio bollente della padella.
Ciò perché sin dal primo pomeriggio della vigilia il rione Montebello (nel quale avevano casa i pastori ed i contadini che per motivi connessi al loro lavoro erano costretti a dimorare nelle contrade montane del paese) si trasformava in una immensa, unica, friggitorìa.
Per questo, nei paesi del circondario, la festa della Madonna della Montagna di Galatro è ancora conosciuta come “ ’a festa di’ melangiani chini”. D’altra parte nella tradizione popolare le due cose si identificarono finché la civiltà dei consumi non ha avuto il sopravvento sulla vecchia, semplice e certamente più genuina, civiltà contadina.

“Festa di melangiani chini” e festa della Madonna della Montagna: cosa lega in maniera così profonda, questi due momenti che, apparentemente, sembra che non abbiano nessun nesso che li unisce?:
La tradizione delle “melangiani chini”, legata indissolubilmente alla festività settembrina, è quanto mai remota e, sicuramente, è coeva alla stessa festa religiosa nata successivamente al disastro tellurico del 1783 e, comunque, molto prima che Ferdinando II concedesse il suo “regio assenso” alla creazione della seconda parrocchia (20 settembre 1856). Il culto della Madonna della Montagna, infatti, è sicuramente antecedente giacché un altare (con relativa statua) a Lei dedicato si trova annotato, sin dai primi decenni del secolo, nei registri della chiesa che, solo più tardi, prenderà il Suo nome.
Per capire, comunque, la motivazione storica del perché la ricorrenza religiosa si sia identificata per moltissimi anni (e, per certi aspetti, continua ad identificarsi) con la “festa di’ melangiani chini”, è necessario fare un salto a ritroso nel tempo e calarsi in quella realtà sociale galatrese dei secoli scorsi, quando la quasi totalità degli abitanti era dedita all’agricoltura ed alla pastorizia.

Un piatto povero per una festa così solenne e importante per il popolo galatrese… di solito succede il contrario, cioè le grandi ricorrenze religiose e festive, si portano dietro la preparazione di piatti ricchi e complicati:
Erano tempi grami, per cui, facendo di necessità virtù, i galatresi, per solennizzare - almeno nel pranzo - la ricorrenza festiva, hanno creato la nuova semplicissima pietanza. Una pietanza che, nella sua povertà, riusciva a far dimenticare la misera mensa quotidiana. Una pietanza, quella creata dai contadini e dai pastori galatresi, che per la sua semplicità è divenuta subito assai “popolare”.
D’altra parte solo un piatto povero e, quindi, popolare poteva essere legato ad una ricorrenza religiosa di così grande richiamo come quella dell’otto settembre, unico giorno dell’anno nel quale gli abitanti delle contrade montane, abitualmente dediti alla pastorizia, fino ad alcuni lustri addietro, lasciavano chiusi gli armenti nelle stalle e le greggi negli stazzi e scendevano in paese per presenziare alla celebrazione della Messa solenne (“ ‘a missa cantata”) e poi portare in processione per le vie del paese la bella statua lignea della Madonna. Era, infatti, esclusivo privilegio dei “massari” portare a spalla la statua della Madonna della Montagna che, da sempre, anche perché davanti ai suoi piedi sta inginocchiato un giovenco, è considerata la protettrice delle messi e dei pastori.

Oggi a Galatro, anche se non come un tempo, viene mantenuta viva la tradizione della preparazione “di melangiani chini”, anche se, ormai da tempo, non si mangiano più solo nel giorno della festa della Madonna della Montagna. In questa nuova realtà, cosa oggi ancora lega il nostro quotidiano, con la tradizione che ci è stata tramandata?:
A testimonianza di una civiltà che è appartenuta ai pastori e nella quale ancora oggi affondano le loro radici, tutte le famiglie galatresi (sia che abitino nel rione Montebello o che abbiano casa nel dirimpettaio rione Magenta) in occasione della festività di Maria SS. della Montagna, continuano a preparare le ormai classiche “melangiani chini”.
Nessuno, però, si sogna più di preparare l’impasto nella màdia; ciò, vuoi perché sono scomparse le famiglie patriarcali o, comunque, numerose, vuoi perché - grazie al Cielo - non è più necessario aspettare la festa settembrina per mangiarle. Il progresso ed il benessere, infatti, consentono a tutte le famiglie di prepararle in qualsiasi periodo dell’anno ed ogniqualvolta se ne abbia voglia e tempo.
Comunque, non sarebbe cena della vigilia o pranzo del giorno della festa se sulla tavola dei galatresi mancassero “i melangiani chini”. Tutto ciò perché la tradizione ha vinto il tempo ed ancora non conosce l’usura del progresso. Questa galatrese delle “melangiani chini” da preparare in concomitanza della festa della Montagna, d’altra parte, è una tradizione che si tramanda da madre in figlia e che, sicuramente, durerà ancora nei secoli a venire. Come testimonianza di una civiltà scomparsa e di una usanza che non può morire.
Non fosse altro perché legata alla fede incrollabile per la Madonna.

Nelle foto, dell'alto in basso: Madonna della Montagna al catafalco, Umberto Di Stilo, "Melangiani chini".


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(10.9.13) PRIMAVERA CULTURALE GALATRESE - Galatro sta vivendo da qualche anno un periodo molto positivo dal punto di vista delle espressioni culturali. Parallelamente allo scemare dell'interesse per le beghe politiche locali che per tanti anni hanno attratto l'attenzione e le energie di tanta gente - a dire il vero con risultati non certo brillanti visto il tracollo economico e demografico del paese - molti giovani e meno giovani hanno pensato bene di impegnare le loro forze in altre proficue attività, senza stare lì ad aspettare sviluppi positivi dal sostegno elettorale prestato magari al referente istituzionale di turno, dispensatore di promesse.
Ognuno alla fine ha preso coscienza delle proprie possibilità e si è dato da fare autonomamente, senza attendere l'aiuto messianico delle istituzioni ormai incapaci - sia per la situazione oggettiva generale, sia per le proprie connaturate carenze - di garantire alcunchè ad alcuno.
A questa positiva svolta anche il nostro giornale, ormai presente sulla scena galatrese da oltre 14 anni, ha dato il suo significativo contributo, ospitando interventi sugli argomenti più disparati e mettendo in evidenza tutto ciò che di positivo i galatresi hanno prodotto nei vari campi. La nostra testata ha dato voce non di rado anche ad interventi di denuncia che hanno puntato il dito sulle diverse disfunzioni (istituzionali e non solo) presenti nel nostro paese. Forse anche per questo non sempre il giornale è stato ben visto dai palazzi che a volte, sia pur inutilmente, hanno provato ad ignorarlo.

La fioritura culturale che, nei diversi campi, Galatro ha conosciuto negli ultimi anni coinvolge molti settori: letteratura, storia, giornalismo, musica, poesia, arte, teatro, religione, astronomia, nuove tecnologie, fotografia e tanto altro. Scendiamo nei particolari.

Abbiamo già sottolineato l'importante funzione del nostro giornale, ormai attivo da quattordici anni. In questo periodo la nostra testata ha ospitato articoli che portano in calce ben
140 diverse firme. Abbiamo fatto informazione su argomenti di cronaca, cultura, spettacolo, politica, sport; abbiamo ospitato interventi che hanno espresso opinioni sui temi più diversi, a volte con la denuncia di inefficienze in vari settori, contribuendo così alla presa di coscienza di certe situazioni e alla sollecitazione di interventi atti a risolvere problemi che in precedenza passavano sotto silenzio. D'altronde Galatro Terme News è da tempo un punto di riferimento fondamentale per tutti i galatresi, unica testata giornalistica galatrese regolarmente registrata e riconosciuta, spesso accreditata nei principali eventi che si svolgono nella nostra regione.
Che dire poi dei puntuali interventi dei nostri opinionisti sui temi della politica e della cultura locale e nazionale? Basta fare i nomi di Domenico Distilo e di Michele Scozzarra che svolgono una funzione preziosa all'interno del nostro giornale con la pubblicazione di centinaia di articoli che animano il dibattito politico e culturale, con la loro partecipazione a convegni, presentazioni di libri ed altro.
Altro aspetto importante che da sempre il nostro giornale ha curato è quello della evidenziazione dei numerosi risultati accademici che i giovani galatresi conseguono in ogni dove, a volte anche all'estero. I laureati hanno ormai superato quota 200, numero che in rapporto alla popolazione ha davvero dell'incredibile se confrontato con i dati dei paesi limitrofi.

Si può parlare dunque di "primavera culturale" per Galatro negli ultimi anni. Esaminiamo i vari settori. In campo musicale diversi giovani si sono affacciati alla ribalta. Basta citare i nomi di Nicola Sergio, che attualmente vive a Parigi ed è un affermato pianista nel campo del jazz internazionale, con all'attivo l'incisione di diversi dischi e attività concertistica in varie parti del mondo.
C'è poi il gruppo dei Karadros di Mario Correale che ottiene successi sempre più importanti nel campo della musica popolare in molte piazze della regione e che ha già realizzato due dischi.
Ottime cose, sempre nella folk music, ha fatto di recente anche Francesco Cortese, cantante e musicista di sicure doti che ha inciso a sua volta vari dischi.
Di rilievo inoltre l'attività musicale di Sandro Distilo, messosi in evidenza come compositore di musiche da film (ha vinto il premio per la miglior colonna sonora nel Festival di Orte).
Da sempre notevole anche l'attività musicale di Biagio Cirillo, specializzatosi da tempo nella direzione di coro. Dopo aver portato ad ottimi livelli il coro parrocchiale di Galatro, che sotto la sua guida ha realizzato importanti performance ed è arrivato ad avere ben 60 elementi, si occupa ora del coro parrocchiale di Feroleto della Chiesa.
Da molto tempo è inoltre attivo Massimo Distilo, pianista, didatta e musicologo. Dottore di ricerca in filosofia e teoria della musica, ha curato di recente un volume sul musicista e editore napoletano Guglielmo Cottrau ed ha relazionato in importanti convegni, anche presso la Scuola Normale di Pisa. Diversi musicisti galatresi affermatisi negli ultimi anni hanno iniziato gli studi sotto la sua guida.

Ma l'attività culturale dei galatresi non si ferma qui. C'è stato di recente un fiorire di pubblicazioni di libri di varia natura e sui più diversi argomenti. Recente è quello di Greta Sollazzo dal titolo La luce in fondo al tunnel, presentato anche su RaiUno a "La vita in diretta" e su RaiTre.
Da segnalare inoltre la notevole produzione di Angelo Cannatà, da molti anni trasferitosi nel Lazio, che collabora con testate locali e nazionali (Il Quotidiano della Calabria, Il Fatto Quotidiano) ed ha pubblicato di recente importanti volumi tra cui, per citarne solo uno, Eugenio Scalfari e il suo tempo.
Pasquale Cannatà, da molti anni in Veneto, ha pubblicato molti articoli a sfondo teologico sul nostro giornale e di recente ha dato alle stampe un volume dal titolo Conquistadores del... nulla.
Aggiungiamo il nome di Nuala Distilo, dottore di ricerca all'Università di Padova, che qualche tempo fa ha pubblicato un "Commento critico-testuale all’Elettra di Euripide".
Da sempre attivo inoltre come autore di poesie, e non solo, il compianto prof. Francesco Distilo, scomparso di recente, vincitore di numerosi premi letterari: citiamo solamente i suoi volumi "I jochi i na vota", "Personaggi tipici galatresi", "Storia del calcio a Galatro".
Nota da sempre anche l'attività giornalistica del prof. Umberto Di Stilo che ha curato la pubblicazione di vari volumi di carattere storico, linguistico e letterario. Basta citare i recenti Bozzetti galatresi, Vocabolario del dialetto di Galatro e Il culto della Madonna del Carmine a Galatro. Anche lui vincitore di numerosi premi.
Interessante inoltre l'attività poetica di Biagio Cirillo da Bolzano, in gran parte svoltasi negli ultimi anni sul nostro giornale con la pubblicazione di bellissime liriche in vernacolo che hanno toccato il cuore di molti lettori.
Ma ci sono anche opere di pubblicazione postuma, come il libro di Piero Ocello "Diario di prigionia", uscito a cura di Mina Buonfiglio Ocello e presentato a Galatro.
Anche i nostri grandi della letteratura del passato si fanno sempre sentire e li ritroviamo abbastanza di frequente rievocati in opere attuali. Citiamo solamente il libro "Terroni" di Pino Aprile (grande record di vendite) che riprende una poesia di Antonio Martino, o il libro di Giorgio Bocca "Aspra Calabria", ristampato di recente da Rubettino, che cita altri versi dello stesso poeta.

Pure in settori specialistici come quello dell'astronomia i galatresi hanno di recente detto la loro grazie all'attività di Michelangelo Penticorbo che, per la sue iniziative culturali in Svizzera, è stato nominato Cavaliere dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sue interviste su temi astronomici sono andate in onda qualche tempo fa su RaiDue.

I galatresi non si fanno mancare nulla e anche nel campo delle nuove tecnologie abbiamo un nostro rappresentante: si tratta di Saverio Ceravolo che con la sua azienda, OnScreen Communication che si occupa di realtà aumentata, ha collaborato con grandi protagonisti del mondo della canzone quali Ligabue e Vasco Rossi.

In campo pittorico è poi da sempre nota l'attività di Aldo Cordiano il cui linguaggio si è positivamente evoluto nel corso degli anni, raggiungendo un'espressività intrisa di contaminazioni figurative e stilizzanti che danno un'impronta assolutamente originale ai suoi quadri dai titoli sempre molto poetici.

Sono attivi anche i nostri galatresi d'oltreoceano. Negli ultimi anni (2007 e 2012) due nostri concittadini di Buenos Aires hanno vinto il prestigioso premio "Calabria America". Si tratta dell'avvocato Bruno Zito, titolare di uno dei più importanti studi legali di Buenos Aires, e di Raffaela Cuppari, già docente presso la facoltà di Scienze Economiche dell'Università di Buenos Aires.

Il settore fotografico ha fatto registrare interessanti novità grazie soprattutto all'attività di Roberto Raschellà che da Londra opera intensamente, ritraendo nei suoi scatti concrete situazioni cittadine, sfumate atmosfere campestri, grandi divi come Madonna e tanti altri soggetti interessanti.
Negli ultimi tempi ad attività fotografiche si è dedicata anche Diana Manduci con notevole successo per le sue immagini della Via Crucis e non dimentichiamo il ben noto e sempre molto visto e rivisto Come io vedo Galatro di Bartolo Furfaro.

Neanche il teatro è stato tralasciato. Il Gruppo Teatro dell'Oratorio e la Compagnia Teatrale "Valle del Metramo" mietono costantemente successi sia a Galatro che in giro per la Calabria. Ultimamente lo spettacolo U figghiu masculu della Compagnia "Valle del Metramo" ha svolto una importante tournée risultando particolarmente apprezzato dal pubblico e dalla critica.

E nello sport? Sembra questo un settore in crisi a Galatro ma in realtà negli ultimi anni abbiamo ottenuto nel calcio, sotto la presidenza di Gaspare Sapioli, lo storico risultato della promozione della Società Sportiva Galatro in Prima Categoria.
Che dire poi delle tante imprese sportive degli atleti della Cricca delle Maratone che nelle gare podistiche ottengono in giro per l'Italia grandi risultati e premi sulle più diverse distanze e nelle più diverse categorie?
Ultimamente anche il settore della danza ha conosciuto successi galatresi grazie alla piccola Giorgia Ferraro che ha ottenuto due primi posti a Rimini nei campionati italiani di danza sportiva.

Ovviamente non siamo in grado di citare tutto ciò che i galatresi hanno fatto in campo culturale, artistico, sportivo, etc. Sicuramente ci sono tante cose di cui non abbiamo notizia o che in questo momento ci sfuggono (e di questo ci scusiamo con gli interessati), ma come non ricordare velocemente le attività negli ultimi anni dell'Associazione Ados, o quelle della rinata Pro Loco (che non vive però oggi momenti facili), o dei Giovani dell'Oratorio, dell'Associazione Giovani Galatro, o il mondo dell'escursionismo che fa riferimento a Salvatore Sorrentino e alla sua Associazione Escursionistica "Galatro Terme", o le attività degli Amici di San Rocco, o il premio vinto tempo fa da Romualdo Lucà nel concorso "Il volo di Pegaso", o l'ingegnere Salvatore Romeo cui fu dedicato un servizio su RaiTre per le sue applicazioni informatiche a dispositivi mobili, o le rubriche dedicate al nostro paese in riviste a diffusione nazionale e internazionale quali Focus e La Settimana Enigmistica... e così via.

Siamo sicuri che tutto ciò di cui abbiamo or ora raccontato è solo una parte di quanto i galatresi producono quotidianamente in giro per il mondo. Per quanto si disponga oggi di un'informazione che deborda da tutte le parti, alla fine tanti eventi finiscono per passare indenni attraverso le maglie della rete. Questo non significa ovviamente che abbiano meno rilevanza. Ad ogni modo una cosa di cui si può essere assolutamente certi è la grande vivacità di tanti nostri concittadini nei vari settori di cui abbiamo trattato. Sono queste le cose che danno lustro al nostro piccolo e caratteristico paese e che ci fanno sentire fieri - da vicino o da lontano - di farne parte.

* * *

Concludiamo con un piccolo (ed incompleto) elenco di prodotti culturali galatresi reperibili sul web:

La luce in fondo al tunnel

Eugenio Scalfari e il suo tempo

Guglielmo Cottrau, Lettere di un melomane

Mamma non piangere, diario di prigionia

Commento critico testuale all'Elettra di Euripide

Conquistadores del...nulla

I jochi i na vota

Vocabolario del dialetto di Galatro

Symbols

Illusions

Li belli canti calabrisi

La nostra storia

Jermanu

Nelle foto, dall'alto in basso: Galatro in una tela del pittore Franco Camillò; un quadro di Vladimir dedicato a Galatro; una tela di Nato Randazzo su Galatro.

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(27.9.13) (SCIENZA) MEDICINA AYURVEDICA: EFFICACIA E REAZIONI INDESIDERATE SUL SISTEMA NERVOSO (Raffaele Mobilia) - L’Ayurveda è la più antica tradizione di conoscenza riguardante la salute; il suo nome viene dal sanscrito e significa “scienza della vita”. Nata in India più di cinquemila anni fa, la farmacologia ayurvedica si basa sull’utilizzo di vegetali, piante e minerali e sostiene che nella risposta terapeutica intervengono 4 elementi: chi prescrive il farmaco (il medico), il farmaco in sè, chi lo dispensa (il farmacista o l’infermiere) e chi lo riceve (il paziente). E’ necessario non trascurare nessuno di tali elementi, se si vuole evitare l’insuccesso o un effetto indesiderato.
Attualmente, sono utilizzate circa 1250 piante e una svariata serie di minerali per le diverse preparazioni, realizzate seguendo i principi esposti in trattati che risalgono al 1500 a.C., come il Charaka samhita e il Sushruta samhita. L’efficacia di ogni sostanza è ottenuta mediante specifiche procedure farmaceutiche (sanskhara), che determinano una modificazione delle proprietà intrinseche di una sostanza, esaltandone gli effetti terapeutici e diminuendone gli effetti non desiderati. Vi sono, ad esempio, piante come l’aconito (Aconitum napellus) che, se non trattate, si mostrano altamente tossiche sul sistema nervoso, provocando vari disturbi psicosomatici gravi quali: senso di angoscia, perdita di sensibilità, rallentamento della respirazione, indebolimento dell’attività cardiaca, formicolìo al viso e sensazione che la sua pelle si ritiri, disturbi della vista, ronzio alle orecchie, contrazione della gola che può portare addirittura a morte per asfissia (Cooper. M. and Johnson. A., Poisonous Plants in Britain and their Effects on Animals and Man, 1984); ciò è dovuto soprattutto all’aconitina (anche se nell’aconito sono presenti altri veleni), potente alcaloide diterpenoico la cui attività è simile a quella delle neurotossine, agendo sui canali del sodio attivandoli (SM Ghiasuddin, DM Soderlund, Mouse brain synaptosomal sodium channels: activation by aconitine, batrachotoxin, Comp Biochem Physiol C, 1984, 77: 267-71)
L'azione dell'aconitina ha luogo immediatamente nel midollo spinale, aumentando dapprima la motilità, e determinando successivamente, in maniera improvvisa e spesso letale, la paralisi dei nervi motori, sensitivi e secretori. Solo dopo processamento ayurvedico a tappe tali piante non sono più tossiche neanche a dosi 8 volte superiori; inoltre, i processi ayurvedici a tappe rendono biocompatibili i metalli e i minerali utilizzati come medicinali.
Uno dei fattori determinanti l’esito del trattamento è, come per la medicina convenzionale, la costituzione di base del paziente, che rappresenta la predisposizione genetica sulla quale si innestano i vari disturbi. La costituzione di base (prakruti) nasce dalla confluenza di 3 tipi umorali (dosha) che interagicono come espressione di una tendenza metabolica sia nel nostro corpo fisico che nella struttura psicologica. I tre dosha sono Vata, Pitta e Kapha e si ritiene che controllino tutti i processi fisici e mentali agendo come il vento, la luna e il sole. Vata, come il vento, è in costante movimento e controlla il sistema nervoso centrale; Pitta, come il sole, è la fonte di energia e controlla l’apparato digerente e i processi biochimici; infine, Kapha governa l’equilibrio dei fluidi corporei, la crescita delle cellule e la stabilità del corpo, così come la luna influenza la stabilità gravitazionale terrestre e le maree.
Attualmente si stanno svolgendo sempre più controlli sui medicinali ayurvedici per garantirne la sicurezza terapeutica scevra da effetti collaterali non desiderati o teratogeni. Per es., la US Food & Drug Administration ha classificato la curcuma (Curcuma longa) tra le sostanze generalmente riconosciute come sicure, mentre al monitoraggio della nux vomica è stato confermato, come descritto dalla letteratura ayurvedica, che il suo uso non corretto può produrre i classici sintomi dell’avvelenamento da stricnina. La stricnina, essendo un alcaloide molto tossico, agisce come potente eccitante del sistema nervoso centrale, causando il blocco di particolari terminazioni nervose: i recettori post- sinaptici per la glicina. Questo fa sì che ogni stimolo causi convulsioni. La morte sopravviene per blocco respiratorio o per esaurimento fisico (Sharma, R.K., Consice textbook of forensic medicine & toxicology, Elsevier, 2008).
La liquirizia, usata con efficacia per curare gastrite e ulcera, per la tosse cronica, la faringite e l’ipotensione, a dosi elevate ha effetti mineralcorticoidi, con ritenzione idrica, ipertensione arteriosa e ipopotassiemia. Ma questi sono effetti prevedibili, diciamo, per qualsiasi tipo di trattamento efficace, come la farmacoterapia tradizionale ci ha insegnato. Ciò a cui bisogna stare particolarmente attenti è, nel caso dei rimedi ayurvedici, che questi non siano contaminati dalla presenza di metalli pesanti come piombo, alluminio, arsenico, rame o mercurio: come è noto, livelli elevati di tali sostanze sono causa di avvelenamento o gravi danni al sistema nervoso centrale (l’accumulo di alluminio nelle cellule cerebrali è una delle cause della demenza di Alzheimer).
Ciò è dovuto al fatto che, contrariamente al passato, quando i medici coltivavano personalmente i terreni avendo conferma della purezza e della qualità delle erbe utilizzate, coltivando le piante in ambiente e terreno puri, oggi vi è un utilizzo sempre più diffuso di pesticidi e di sistemi di coltivazione di tipo industriale in ambienti inquinati, con l’acquisto di materiali grezzi presso fornitori diversi e la produzione di farmaci erboristici da parte di ditte senza alcuna conoscenza di base dell’ Ayurveda.
In altri casi, gli effetti indesiderati possono essere indotti da interazioni tra i trattamenti ayurvedici e i farmaci convenzionali. Un caso emblematico è quello di una donna di 45 anni sotto terapia antitubercolare, trattata contemporaneamente con sei medicinali ayurvedici per proteggersi da danni epatici; purtroppo, contenendo rame metallico ed aloe ferox, entrambi potenzialmente epatotossici, quattro di tali rimedi in interazione con gli antibiotici hanno innescato nella donna un’insufficienza epatica che le è stata fatale.
Un altro caso di interazione dannosa è stata osservata in pazienti che, trattati con farmaci antiepilettici, hanno assunto contemporaneamente il medicinale brevettato ayurvedico shankhapushpi, i cui effetti antiepilettici e mnemotonici erano già stati dimostrati. I pazienti hanno improvvisamente manifestato crisi epilettiche: è stato in seguito accertato che la formulazione ayurvedica ha, sì, un effetto antiepilettico, ma riduce le concentrazioni sieriche di fenitoina se questa viene somministrata contemporaneamente, determinando una perdita di controllo delle crisi epilettiche; lo stesso effetto antagonista si è verificato con le concentrazioni sieriche di carbamazepina.
Appare così estremamente importante, per la presente e futura pratica clinica, esaminare in dettaglio i possibili effetti da interazione tra farmaci e preparati erboristici, evitandone la somministrazione simultanea ove sia potenzialmente dannosa. Inoltre, l’assunzione regolare per lunghi periodi dei medicinali può determinare fenomeni di induzione enzimatica, dando luogo ad altri meccanismi di interazione: questi ultimi possono rivelarsi vantaggiosi, come nel caso del diabete mellito tipo 2 scarsamente controllato, oppure nocivi, come in un caso di crisi ipoglicemica dovuto all’associazione di karela (zucca amara) e di un farmaco ipoglicemizzante orale.
Un’altra indagine clinica ha rivelato che l’impiego prolungato di ispaghula husk (frazione mucillaginosa di semi di psillio), rimedio casalingo per la stipsi, ha determinato una riduzione delle concentrazioni plasmatiche di ferro e calcio.
Anche un’etichettatura non corretta può costituire fonte di pericolo di intossicazione e possibilità di un uso errato del farmaco: una donna ha sviluppato crisi epilettiche tonico-cloniche con encefalopatia metabolica in seguito ad ingestione di un olio per massaggi il cui nome, riportato sull’etichetta, era di una preparazione ayurvedica, ma la cui analisi ha rivelato contenesse olio di trementina. In un altro caso, una formulazione analgesica che veniva presentata come vedana nigraha ras, conteneva, in realtà, 530 mg di acido acetilsalicilico (la comune aspirina) e 100 mg di paracetamolo.
Gli effetti indesiderati sono, come per la farmacoterapia convenzionale, più rischiosi per soggetti anziani, in età pediatrica e donne in gravidanza o allattamento. Al giorno d’oggi, si cerca di integrare le conoscenze ayurvediche con i parametri e le metodologie moderne, eseguendo indagini cliniche accurate e fornendo informazioni dettagliate sui meccanismi chimici di azione e sui possibili effetti collaterali e/o da interazione con altri farmaci. Un trattamento viene definito efficace quando cura la malattia senza dar luogo ad alcun effetto indesiderato, né al momento dell’assunzione né più tardi. Ciò implica adeguati metodi di sorveglianza, aggiornamenti continui e una comunicazione informativa chiara, precisa ed esauriente.
Analogamente, si cerca di comprendere il pakruti (costituzione di base) in termini più attuali, guidando la pratica ayurvedica nell’era genomica, tanto da coniare il nuovo termine Ayugenomics.

Raffaele Mobilia, Dipartimento di Neuroscienze, Facoltà di Medicina, Università di Messina.

Riferimenti bibliografici

Lele R.D., Ayurveda and Modern Medicine, Bombay, India, Bhartiya Vidya Bhavan, 1986

Bhatt A.D., Clinical Research on Ayurvedic therapeutics: myths, realities and challenges J. Assoc. Physicians. India, 2001; 49, 558-562

Vaidya A.B., Vaidya R.A., Nagral S.I., Ayurveda and a different kind of evidence: from Lord Macaulay to Lord Walton, J. Assoc. Physicians, India, 2001

Rahane A.L., Gattani S.G., Food-drug interaction. A case-study, Proceedings of International Conference of Society of Pharmacovigilance, India, 2002

Shaw D., Leon C., Kolev S., Murray V., Traditional remedies and food supplements. A five-years toxicology study, Drug Safety, 1997

Chainani Wu N., Safety and anti-inflammatory activity of Curcumin: a component of tumeric (Curcuma longa) J. Altern, Complement. Medicine, 2003


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(24.10.13) I "BOZZETTI GALATRESI" DI UMBERTO DI STILO (Michele Scozzarra) - Quando Umberto Di Stilo mi ha regalato il suo ultimo libro, “Bozzetti Galatresi”, la prima cosa che ho sentito di fare è di dirgli “grazie” per questo suo ulteriore prezioso tassello che si va ad incastonare nella composizione di quel meraviglioso mosaico della storia di Galatro che, piano piano, sta completando con ogni sua nuova opera. Questo suo nuovo libro, come per incanto, ci rende attuale il richiamo divertito, serio, drammatico, culturale, di un tempo che, solo in una lettura superficiale della realtà, sembra non abbia più nulla da dire, testimoniare, insegnare.
Che cosa avrà scritto stavolta l’amico Umberto, mi chiedevo mentre sfogliavo le pagine del libro? E, man mano che le pagine scorrevano, provavo a immaginare cosa i Galatresi, di non oltre i quaranta anni, avrebbero percepito in queste pagine, cosa avrebbero colto e come avrebbero interpretato questi “bozzetti” di vita galatrese di tanti anni fa.
Ma leggendo l’introduzione al libro, in tante domande hanno trovato risposta nella presentazione che fa lo stesso Autore: “Solitamente si sostiene che col passare degli anni, per uno strano fenomeno collegato all'avanzare dell'età, si dimenticano gli avvenimenti recenti e, prepotenti, tornano alla memoria episodi del passato. Anche quello morto. Episodi che, evidentemente, il tempo non solo non ha offuscato, ma restituisce alla memoria arricchiti di particolari e abbelliti dal magico alone del ricordo che tutto rende più bello e poetico. Capita allora, che episodi e particolari che un tempo sembravano del tutto insignificanti, a distanza di anni, se rivissuti nel ricordo, acquistino la suggestione e i contorni delle favole e, non di rado, si riscoprano anche dell'abito travolgente della nostalgia. Magia del ricordo e degli anni che, passando, ovattano di fascino ogni cosa. … Ed allora sullo schermo della memoria sono tornate ad animarsi non soltanto immagini in bianco e nero di persone care che mi sono state vicine, ma anche diversi episodi dell'infanzia e della gioventù... Figure di persone familiari, dunque, ma anche di semplici conoscenti, sono tornate nitide alla memoria e, insieme a loro, nel magico mondo onirico, hanno ripreso forma e consistenza alcuni episodi di vita cittadina dei quali loro stessi sono stati protagonisti. Si tratta di persone del popolo che all'interno della comunità hanno vissuto la loro quotidianità in maniera discreta e che oggi meritano il massimo apprezzamento per la loro grande dignità e per i sentimenti di solidarietà e collaborazione che hanno contraddistinto la loro vita anche quando, in alcuni determinati periodi storici, le condizioni socio-economiche della comunità erano particolarmente proibitive”.
In nessuna pagina dei “Bozzetti Galatresi” Umberto Di Stilo concede spunto all’estetismo, nel senso che non cerca di farci capire com’era bella (o brutta) la vita dei Galatresi nel periodo dell’immediato dopoguerra; ma molto più “piacevolmente” ci fa vedere la verità di quella vita, cioè la totalità di una cultura che oggi è totalmente scomparsa e, non solo non c’è più, ma non potrà mai più tornare ad esserci, e proprio in questo sta il valore profondo di racconti di questa opera letteraria.
Il grande realismo (anche se preferisco dire “la grande verità”) che esplode in tutti i “racconti-bozzetti” non può essere definito solo con un giudizio estetico o con le suggestioni particolari che si ri-vivono nei vari racconti, perché questo libro, a mio avviso, non è “realista”… è “profondamente e realmente vero!”. E, sotto questo aspetto, possiamo dire che ci troviamo davanti ad un “qualcosa” che può rappresentare “l’osso più duro da masticare”: Umberto Di Stilo con questa sua opera ci porta a chiederci come sia possibile, in una società schizofrenica e instabile come la nostra, che si possa ancora apprezzare una simile testimonianza di valori e di affetti.
Una realtà dove la povertà, il dolore, la fatica, i rimpianti, gli scherzi, le consuetudini, il lavoro dei nostri artigiani, esprimono un giudizio sul modo di concepire e di vivere l’esistenza che ci supera di molte lunghezze. Non so quanti nel libro hanno colto la limpida immagine della laboriosità della nostra gente, che ha guidato la genialità creativa del nostro popolo. La descrizione della realtà che si presenta davanti al giovane Saverio, appena entra a Galatro è, a mio avviso, una delle pagine più belle dei “Bozzetti Galatresi”, ed è sorprendente, almeno per me, che questa immagine venga rappresentata e ricordata a noi galatresi del 2013, quando ormai di quanto raffigurato non rimane neanche il ricordo.
Almeno grazie alla letteratura possiamo conoscere e rivivere i segni dell’antica laboriosità, professionalità, vitalità del nostro popolo: “Come per incanto, quando dopo l'ultima curva gli fu improvvisamente di fronte il panorama di Galatro con il calvario in cima alla bianca collina e le abitazioni che, attaccate le une alle altre quasi per vicendevole protezione, sembra vogliano dar vita ad un naturale grande presepe, sia pure in maniera sfumata, ricordò il paese. Si accorse che le abitazioni poste in fondo alla valle presentavano le ferite prodotte dalla furia devastatrice delle acque e che poco più avanti del palazzo nel quale ricordò di avere abitato insieme alla nonna, qua e là erano ancora ammassati cumuli di macerie. Erano i resti delle case, del frantoio e dell'albergo che il fiume aveva demolito dalle fondamenta o aveva squarciato buona parte delle pareti perimetrali. Incuriosito si fermò ad osservare con attenzione ed ebbe l'impressione di trovarsi improvvisamente in un grande quartiere. Ovunque operai a lavoro. A sinistra notò che si stava procedendo alla costruzione di un grande muro di contenimento perché sul pianoro soprastante era in avanzato stato di realizzazione un rione di case popolari destinate ai danneggiati dell'alluvione di due anni prima; poco più avanti procedevano spediti i lavori del mastodontico ponte che avrebbe garantito l'attraversamento del fiume che non scorreva più libero tra i campi e le case del paese, come lo aveva visto anni prima, ma lo stavano dotando di nuove briglie e di robusti argini anch'essi in avanzato stato di costruzione. Donne con grosse pietre o secchi pieni di sabbia in testa, uomini che spalavano nel fiume, muratori che accatastavano pietre su pietre, carpentieri che inchiodavano tavole e preparavano i cassoni per le prossime gettate di cemento; sul letto del fiume scalpellini indaffarati a preparare i grossi blocchi di granito da utilizzare per l'arco del ponte... Un fervore di opere ed un gran numero di operai che lavoravano in più punti ed altri che si spostavano da una parte all'altra... una situazione di grande operosità che impressionò Saverio. Sono arrivato in un grande cantiere, pensò guardandosi intorno...”.
Come posso non ringraziare Umberto Di Stilo per avermi fatto rivivere, anche se solo con il racconto, la storia che ho sempre sentito ripetere da mia madre riguardante il mio bisnonno Francesco Cuppari e tutta una generazione di famiglie di fabbri che ci hanno lasciato un patrimonio “artistico e culturale” che ancora oggi, in tanti posti, è possibile ammirare: “... qui a Galatro tutti i fabbri si cimentano in vere creazioni artistiche. Sai, i fratelli Macrì, che hanno la bottega poco più sotto, in questa stessa strada, col ferro riescono a fare anche delle bisce che sembrano vere e tanti altri lavori di grande precisione... quelle bisce sono così perfette che quando le stringi nella mano, hai l'impressione di avvertire anche la loro viscida essenza. E poi abbiamo il più grande artista del ferro battuto: mastro Ciccio Cuppari, zio del mio maestro. Da qualche anno si è trasferito ad Oppido ma nelle migliori famiglie galatresi e della zona ha lasciato opere di grande gusto artistico e, proprio perché la sua arte del ferro battuto ha varcato i confini comunali, è stato incaricato di realizzare tutti i lavori in ferro che abbelliscono l'interno della cattedrale di Oppido. Quei lavori per la loro bellezza artistica e per la loro impeccabile esecuzione sono stati molto apprezzati da tutti, tanto è vero che le loro fotografie sono state pubblicate sui giornali...”.
Credo che Umberto Di Stilo, con i “Bozzetti Galatresi”, ci abbia fatto scoprire ed incontrare un pezzo di storia del nostro paese sconosciuta a molti, una storia non scritta, legata a persone che hanno pensato, vissuto, operato, creato tante belle cose, anche se, il più delle volte è stato tramandato neanche il loro nome. Bisogna ringraziare Umberto Di Stilo perché ha reso possibile uno “scavo” nella memoria galatrese ed ha fatto rivivere la storia di uomini e donne legati in maniera inscindibile alla storia del nostro paese… ha “fotografato” la verità di certe storie legate alle persone, al nostro paesaggio, al nostro ambiente, alla nostra cultura, mediante racconti tramandati soprattutto oralmente, che Umberto ha ritenuto di dover trasmettere alle generazioni future, come lui stesso dice nell’introduzione al libro “Nello sfondo dei semplici racconti, tutti ispirati a fatti realmente accaduti, spero di essere riuscito a far emergere anche la indiscussa e riconosciuta eccellenza dell'artigianato galatrese, un universo che, oltre al mio ricordo, meriterebbe maggiore attenzione soprattutto dalle istituzioni...”.
Diceva Cesare Pavese “prima dei libri ci furono le favole, le immagini, ci furono i canti e le feste”: Umberto Di Stilo con i “bozzetti” non intende fare l’elegia di un tempo che ormai non c’è più, ma rievoca un patrimonio vivente, conosciuto direttamente, ma anche attraverso il parlare con tante persone, attraverso molti incontri e dialoghi, ascoltando le voci di chi queste storie le ha vissute. Perché non potremo mai più tornare indietro, riportare “ai giorni nostri” tutto quel mondo ormai andato... Ma, dalla lettura del libro appare chiaro che possiamo e dobbiamo senz'altro riconsiderare tutti i valori che, all'interno di quella società e di quelle persone, avevano trovato un equilibrio ed una maestranza che permetteva al nostro piccolo borgo di essere considerato come la culla dei più grandi maestri artigiani: “... A quei tempi a Galatro era ancora assai fiorente l’artigianato e da tutto il circondario si guardava al suggestivo paese edificato sulle sponde del Metramo come alla culla dei più grandi maestri artigiani. Le botteghe non erano solo luoghi di lavoro, veri templi consacrati alla fatica, ma anche punti di incontro, di discussione e, a volte, anche si scherzi e di innocenti passatempo. Nei ritagli di tempo libero nei saloni si giocava a dama o si suonava il mandolino, nelle sartorie si discuteva di dogmi e si suonava la fisarmonica, nelle falegnamerie, tra un colpo di martello e uno di pialla, le fazioni di Coppi e Bartali discutevano animatamente di ciclismo, nelle forgie si parlava do politica e nelle calzolerie si predisponevano scherzi… All’epoca tutti i laboratori artigianali erano popolati da apprendisti perché l’artigianato, insieme all’agricoltura, dava solide garanzie di lavoro e costituiva le colonne portanti della locale economia. Non era soltanto artigianato maschile perché accanto ai sarti, ai calzolai, ai falegnami ed ai fabbri c’erano le provette sarte, le esperte ricamatrici e le brave tessitrici che contribuivano a tenere alto il buon nome dell’artigianato artistico galatrese. I ragazzi, già in tenera età, se non andavano in campagna insieme ai genitori contadini, venivano avviati ad una bottega artigianale per apprendere il mestiere per il quale si sentivano più portati e che in futuro avrebbe loro garantito il necessario per vivere. I figli degli artigiani, sin da piccoli, solitamente cominciavano a lavorare nella bottega di papà, per cui da una generazione all’altra, in quelle famiglie, tutti i componenti, praticavano lo stesso mestiere. Era sarto il figlio del sarto, e il figlio del calzolaio, il figlio del falegname e il figlio del fabbro avrebbero continuato a fare il mestiere dei loro genitori. Tutto ciò perché, come recitava un antico precetto l’arti du’ tata è menza ‘mparata …”.
Con i “Bozzetti Galatresi” Umberto Di Stilo ha consegnato, non solo alla Storia del nostro paese un bel ritratto della vita com’era a Galatro più di mezzo secolo addietro, ma è anche riuscito, ancora una volta, a presentare delle persone vere e concrete, rispettandone fino in fondo ogni semplice e peculiare caratteristica: ha ricordato e descritto dei personaggi galatresi indimenticabili, riuscendo a ridare volto, memoria e vita agli amici che ormai non ci sono più, facendo rivivere conoscenti di un tempo ormai remoto, il cui ricordo non si è ancora spento. Ci ha messo davanti delle persone vive, protagoniste di un mondo semplice e reale, che si staglia sullo sfondo di una Galatro ricca di valori e di sentimenti, nonostante ci si trovi nel difficile periodo del dopoguerra, dove la povertà e la fame erano delle realtà con le quali bisognava fare i conti giornalmente.
Per il lettore che si ritrova a leggere di don Agostino Albanese, di ‘Ntoni Librandi, dei Forgiari di Galatro, di Marefrancisca, di mastro Rocco Distilo, di Giuseppe Panetta, di Mastru Vicenzu, don Aurelio Lamanna, Ciccillo, Rosina… è come trovarsi dentro un racconto di un mondo ormai lontano, dal quale siamo presi ed imbrigliati, sin dalla lettura delle prime pagine, per il riaffiorare di un qualcosa che “sentiamo” di avere dentro e Umberto ci svela di cosa si tratta. E, grazie alla sua prodigiosa memoria, alla sua inarrestabile creatività, Umberto Di Stilo ci presenta dei personaggi che nascono dalla sovrapposizione di infiniti dettagli, di storie e personaggi che hanno dell’incredibile: non un mondo idilliaco, non la ricerca del tempo perduto, ma la memoria di una tradizione ancora capace di trasmettere il fascino e l’immagine di un mondo del quale dobbiamo riconsiderare il modo di concepire la vita in tutta la sua verità e bellezza. Per questo nuovo tassello che Umberto Di Stilo ha realizzato, per completare la composizione finale del grande mosaico che sta realizzando sulla nostra storia, sui nostri beni artistici, sulle nostre tradizioni… all’esplosione del “grazie” iniziale, non può non seguire la domanda: a quando il prossimo tassello?...








Nelle foto: scene di vita galatrese di tanti anni fa e in basso la copertina del libro "Bozzetti galatresi".

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(30.10.13) UNA NUOVA FASHION APP DI ONSCREEN COMMUNICATION PER SIAMOISES - Annalisa Masi dell'ufficio stampa di Onscreen Communication, azienda del cui management fa parte il nostro concittadino Saverio Ceravolo, ci informa dell'ideazione e dello sviluppo di una nuova app in realtà aumentata.
Stavolta la tecnologia incontra il fashion. SIAMOISES, il nuovo brand italiano che coniuga design e innovazione, lancia la sua prima collezione, “Born to be yourself”, con un’app in realtà aumentata coinvolgente e dinamica, ideata e sviluppata da OnScreen Communication.
Le t-shirt, completamente Made in Italy, diventano la base di un’entusiasmante avventura interattiva. I bimbi prendono vita sulle magliette, e con loro gli elementi che li caratterizzano. L’utente entra nell’universo SIAMOISES e veste nuovi panni in una dimensione al confine tra realtà e fantasia. Tre diverse esperienze, per far emergere la sua parte più vera.
Scarica l’app e libera la tua anima più trendy. Punta la fotocamera del tuo device sulla t-shirt e osserva il bimbo animarsi. Ti senti più hippie, nerd o glam rock? Clicca su SIAMOISES e accedi direttamente al sito per scegliere la maglietta in base al tuo mood. Scopri il tuo stile e trasforma il tuo aspetto. Inquadra il tuo volto con la fotocamera e mostra la tua personalità. Scatta una foto e condividi il tuo nuovo look su Facebook.
Un viaggio nel mondo irresistibile del glamour. OnScreen Communication realizza con SIAMOISES la prima app interamente in realtà aumentata per il fashion, in cui l’utente percorre strade diverse per esprimere se stesso.
La moda si arricchisce di nuove possibilità espressive, in cui l’utente è il vero protagonista. Con SIAMOISES e la realtà aumentata per rivelare il proprio lato più trendy.

L’app SIAMOISES è disponibile gratuitamente su:
App Store: bit.ly/16Q6pVt
Google Play: bit.ly/1ajIKJt
Video dell’app: bit.ly/16srjnC

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(1.11.13) UN SALUTARE TUFFO NEL NOSTRO PASSATO (Pasquale Cannatà) - Ho gustato con molta ingordigia il piatto che Umberto Di Stilo ci ha offerto con i suoi “Bozzetti Galatresi”, e le dieci pietanze che ha portato alla mia tavola si sono rivelate dolci da gustare in ogni loro boccone.
La lettura del suo libro ha prodotto in me un piacevolissimo riaffiorare di ricordi della mia gioventù che ancora si rispecchiano nei personaggi descritti, nei loro usi e costumi, nella forte personalità che emana dalla loro descrizione. E non potrebbe essere diversamente, visto che non di personaggi si tratta, ma di persone vere e proprie che lui ha conosciuto personalmente o di cui ha sentito raccontare la storia: io ci ho ritrovato mio padre e mio nonno nel loro negozio e nell’affitto delle camere ai bagnanti, i miei vicini di casa della famiglia Lamanna, i momenti ludici nella vicina sartoria di Pasquale Distilo alla sera, finita la giornata lavorativa, e tante altre situazioni di vita paesana.
Delle persone descritte è messa in rilievo non solo la capacità nel lavoro ma anche, o forse innanzitutto, sono evidenziati i principi morali che li distinguevano: tipica già nel primo bozzetto, come succoso antipasto e prefigurazione di ciò che ci si poteva aspettare nel resto del libro, la figura di Agostino Albanese che ci insegna ad essere umili ed avere il senso dei nostri limiti nel confronto con gli altri.
Le usanze e le tradizioni nei rapporti tra fidanzati, tra genitori e figli, tra marito e moglie e con i datori di lavoro sono descritte dettagliatamente e fanno immaginare le vicende come se anche noi fossimo li presenti: mi sono ritrovato a battere il ferro incandescente insieme ai “forgiari i Galatru”, ad accudire i bachi da seta insieme a nonna Maria Stella, a percorrere mulattiere insieme a ‘Ntoni, a scalare “u maju” insieme a mastru Vicenzu ed a fare tante altre cose che ho visto fare da ragazzo.
Dulcis in fundo mi sono rivisto alla ricerca della “canna di nuvolati”, ma "u trattenimentu" che ho ricevuto dalla lettura del libro è stato concreto e realissimo.
Bello, bello, bello.


Nelle foto: in alto Pasquale Cannatà, in basso "A strata a menzu" in un disegno di Angelo Formica.

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(8.11.13) POESIA STRANA (Biagio Cirillo) - Ho scritto una poesia un po' strana, eccola. Da un po di tempo non scrivo al giornale per mancanza di tempo e di argomenti, ma vedo e leggo con piacere articoli interessanti.
Spero di scendere per fine anno e trovare una copia dell’ultimo libro del caro prof. Umberto Di Stilo “Bozzetti Galatresi”; mi ha incuriosito leggendo
l’articolo di Pasquale Cannatà.
Un saluto come sempre a alla redazione e un saluto ai miei familiari e ai paesani.

Su tutti stranìzzi

Nc’e cu mangia,
cu ‘mbìvi e cu futti,
cu nd’avi la panza
comu na gutti;

cu sputa
e cu agghiùtti,
cu pidhita ‘nzanu
e cu faci li rutti;

cu dici "su belli"
e ‘mbèci su brutti,
non capisci mancu
u c…u mu futti.

C’è chirhu chi spina
u vinu da gutti,
chirhàtru chi studia
com’avi u ti futti;

cu caccia e cu ‘mbùtta
di supa e di sutta,
cu staci a riposu
e cu ‘ndavi m’arhùtta;

cu ‘ndavi na machina
senza cappotta
e cu gira a ppedi
c’u mali e dinocchia;

cu campa pe nnenti,
cu mori a na botta,
cu suffri na vita
ed è prontu mu schiatta;

cu ciurla lu vinu,
ca l’acqua ‘nci ‘ngrùppa,
cu siti non ‘ndavi
e cu nnenti s’abbutta;

cu scrivi e cu leghi,
e nc’è cu cancella,
e puru cu dici:
"sta vita eni bella".
 


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(22.11.13) QUEL MONDO SCOMPARSO SALVATO DALLA LETTERATURA (Angelo Cannatà) - Confesso che non ho letto molti libri di scrittori calabresi. Corrado Alvaro, Leonida Rèpaci, Saverio Strati, Fortunato Seminara…, certo, e qualche intellettuale lucido, intrigante - Lombardi Satriani, Vito Teti (ottimo Il patriota e la maestra)... Pochi autori. Perché il tempo è tiranno e l’istinto mi ha portato in altre direzioni.
Se Philip Roth ti guarda dallo scaffale come resistere? E’ tutta colpa di Pastorale americana, Nemesi, Zuckerman, La macchia umana… e di Coetzee, Yourcenar, Pamuk, Grossman... Ci sono anche gli italiani, naturalmente: Alessandro Baricco, Ammaniti, Lucarelli… E poi i grandi vanno riletti: riapro Sartre, Camus, de Beauvoir, ogni tanto, per ritrovare l’ebbrezza, la “cotta” – si può dire? – lo stordimento dei vent’anni per i francesi. Mi fermo. La letteratura calabrese l’ho trascurata, come tante cose – ahimè – della mia terra. E’ una perdita dolorosa. Ma anche una scelta, che mostra, adesso, la sua assoluta arbitrarietà.
E se fosse, paradossalmente, una certa idea di letteratura, il modo in cui si manifesta - il romanzo storico, il racconto neorealista… - a dirci qualcosa di noi? Sento le obiezioni: “Dopo Joyce cambia la forma-romanzo… il racconto…” Giusto. Eppure. Eppure prendi in mano
Bozzetti galatresi di Umberto Di Stilo (Luigi Pellegrini editore), e senti che gli schemi, le costruzioni critiche e letterarie saltano. E’ un testo che sembra scritto nell’Ottocento e piace proprio perché sa di antico; perché quel mondo non c’è più e non c’è quel linguaggio che lo raccontava. Un paradosso? Forse. Ma se il libro intriga che importanza ha?
’A basata. Al bacio pubblico l’innamorato ricorreva quando non era accettato dalla ragazza”, o “quand’erano i genitori a non accettare il fidanzamento e alla fuga d’amore – ’a fujitina – preferisse il più teatrale bacio all’uscita della messa.” Altri tempi. Che dicono – nella distanza da ciò che siamo – gli innumerevoli mutamenti. Le trasformazioni. Nessun rimpianto ovviamente per i costumi antichi. Ma da lì veniamo e se sacche di medioevo permangono nel nostro tempo (anche nelle forme più torbide), Di Stilo ci aiuta a decodificarle.
Certe pagine valgono più di un trattato di sociologia: “- Vedi Marefrancisca, il matrimonio non è come una giacca che se non ti veste bene la riporti alla sarta, l’aggiusta, toglie i difetti e te la fa stare bene addosso… Il matrimonio è sacro, non si aggiusta e comu ti cadi hai mu tu teni.” E’ la fotografia di un mondo. Che non c’è più, per fortuna. Nell’epoca in cui Papa Francesco apre ai divorziati - con le cautele tipiche della Chiesa -, suonano lontani anni luce le parole amorevoli (nel contesto narrativo hanno questo senso) dette a Marefrancisca. Ma proprio qui sta il valore di Bozzetti galatresi: mostra come le verità – anche le più grandi – siano soggette all’inesorabile trascorrere del tempo. Si chiama relativismo; Di Stilo evidenzia situazioni, gesti, modi di sentire delle generazioni passate in pagine semplici e chiare. Nessuno dei personaggi è il vero soggetto del libro, nemmeno del piccolo spazio (il bozzetto) in cui è narrata la sua vita. Il vero soggetto è “la memoria”. E “il tempo che ci trasforma”: come eravamo, come vivevamo, come pensavamo. Fellini lo chiamava Amarcord (i ricordi personali – ’A menza canna... – si alternano nel testo a storie vissute, per così dire, narrativamente elaborando le trame delle fonti orali, I forgiari ’i Galatru…).
Il lettore troverà, leggendo, anche valori antichi la cui scomparsa non è – questa volta – segno di progresso. E’ l’altro aspetto interessante del volume: mostra, pagina dopo pagina, cosa abbiamo perso col tramonto della civiltà contadina e cosa conquistato col cosiddetto progresso: “S’ammazzau ’u mulu ’i ’Ntoni Librandi. La notizia, di bocca in bocca, in pochi minuti si diffuse in tutto il paese. E i commenti furono di unanime commiserazione per il giovane che da pochi mesi, dopo un fidanzamento in famiglia di circa due anni, era andato a nozze con Catuzza Demasi.” E’ l’incipit di un racconto (il volume ne contiene 10), in cui emerge la solidarietà umana - qualità fondamentale della vecchia Comunità - verso il protagonista colpito da una sventura. Poche pennellate, attraverso le quali le nostre affollate solitudini di uomini post-moderni mostrano (tutto) il loro miserabile limite. Basterebbe questo “gioco”, questo confronto – storico, sociologico, filosofico – tra ieri e oggi, per giustificare la lettura di Bozzetti galatresi. Italo Calvino scrive: “Già nella vetrina della libreria hai individuato la copertina col titolo che cercavi. Seguendo questa traccia visiva ti sei fatto largo nel negozio attraverso il fitto sbarramento dei Libri Che Non Hai Letto che ti guardano accigliati dai banchi e dagli scaffali cercando d’intimidirti. Ma tu sai che non devi lasciarti mettere in soggezione, che tra loro s’estendono per ettari ed ettari i Libri Che Puoi Fare A Meno Di Leggere, i Libri Fatti Per Altri Usi Che la lettura…” (Se una notte d’inverno un viaggiatore). Ecco, il libro di Umberto Di Stilo è fatto per essere letto. Nella volatile anarchia delle nostre vite dice – col tono leggero che sanno avere le cose profonde – da dove veniamo: un passo fondamentale per muoverci, con qualche strumento in più, verso il futuro. Per una volta, facciamoli aspettare i Roth, i Sartre, i Baricco. Bozzetti galatresi diverte e aiuta a pensare. E’ un’esperienza che può fare ogni lettore (i paesi della Calabria si somigliano: Galatro, Squillace, Dipignano…); ognuno troverà qualcosa del suo passato: un luogo della memoria, una storia, un aneddoto, una Comunità, un proverbio, un’idea che l’ha influenzato. E la fatica di vivere, la voglia di farcela, la povertà, la miseria, l’orgoglio. Sono piacevoli questi Bozzetti. E utili. Non è poco.

Articolo apparso su "Il Quotidiano della Calabria" del 16 Novembre 2013

Nelle foto, dall'alto in basso: Angelo Cannatà, Umberto Di Stilo, muli impiegati per il trasporto di tronchetti (foto tratta dal libro).

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(25.11.13) ROUTINE IS FANTASTIC (Saverio Ceravolo) - Vorrei condividere con i lettori di Galatro Terme News l'ultimo progetto al quale ho lavorato.
Venerdì 15 Novembre a Roma, in piazza di Santa Maria in Trastevere, con una proiezione di Video Mapping su un palazzo, abbiamo lanciato la nuova campagna di comunicazione nazionale dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati - UNHCR – “Routine is Fantastic”.
L'evento, organizzato per far comprendere il dramma vissuto da milioni di rifugiati nel mondo, è stato trasmesso in diretta mondiale live streaming sul canale YouTube dell'UNHCR. Molti i giornalisti intervenuti e tanti i servizi dedicati all'evento dal TG1, TG5, TG LA7, TGR, Blob.
Piazza di Santa Maria in Trastevere si è trasformata in un teatro di guerra nell’ambito dell’iniziativa promossa dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), patrocinata dal Comune di Roma, per promuovere “Routine is fantastic”, la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi con lo scopo di dare un sostegno ai 20 milioni di donne e bambine rifugiate.
Secondo i dati ufficiali, oltre 7 milioni di donne sono rifugiate nel mondo, tra cui quasi 1 milione hanno subito violenza sessuale e abusi nei loro paesi di origine, mentre 287 mila muoiono ogni anno di parto. La raccolta fondi dell’Unhcr è destinata a 20 milioni di donne e bambine rifugiate in 99 paesi per dare un sostegno alla salute riproduttiva, la sicurezza e l’inclusione sociale. La campagna ha l’obiettivo di restituire una normalità a chi ha perso tutto come le donne e le bambine rifugiate.

Fino al 5 dicembre è possibile sostenere l’Unhcr anche con un sms solidale al 45507.

L’evento promosso a Roma ha voluto far vivere a tutti l’irruzione della guerra nella vita di ogni giorno attraverso una proiezione Video Mapping sulla facciata del palazzo del Vicariato in piazza di Santa Maria in Trastevere. Con una simulazione molto realistica di ciò che accade quando la guerra si affaccia nella vita di milioni di donne e uomini, spezzandone la routine e costringendoli alla fuga forzata dalle proprie case, sono stati ricreati momenti di vita quotidiana, scene di panico, pianti e tentativi di fuga. Rumori insistenti degli elicotteri coprono il silenzio di una serata tranquilla, mentre un’ala del palazzo viene bombardata e prende fuoco, una parte crolla. Tra gli abitanti solo due sopravvissuti, una mamma e il suo bambino in fuga dalle macerie.
Un’iniziativa simbolica molto forte che sfrutta il canale del “sensazionalismo” per entrare nelle coscienze di ognuno di noi invitandoci a guardare la vita da un altro punto di vista.
OnScreen Communication ha curato tutto il progetto e la realizzazione del Video Mapping.
Ecco il video:



www.onscreencommunication.it

YouTube: OnScreen Communication
Facebook: OnScreen Communication
Twitter: OnScreen_Com



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(2.12.13) MATRIX, AVATAR E L'INCARNAZIONE (Pasquale Cannatà) - Nella settimana appena trascorsa mi è capitato di rivedere, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, i due film che maggiormente immergono lo spettatore nella “realtà virtuale”: si tratta di film di fantascienza che in quanto tali ipotizzano quello che ci potrebbe accadere se facessimo un utilizzo portato alle estreme conseguenze di alcune conoscenze tecnologiche già acquisite. Infatti la realtà virtuale esiste già da molti anni, e consiste in una serie di marchingegni che attraverso sensori messi a contatto con il corpo permettono alla persona di interagire con una macchina programmata con una storia nella quale si può “entrare” ed operare come se ci si fosse dentro.
In Matrix ci viene prospettato un futuro cupo e negativo per l’umanità, dove è rovesciata la logica che vuole l’uomo usare le macchine da lui inventate e programmate, per prefigurare un mondo dove sono invece le macchine ad usare l’energia prodotta dal corpo degli esseri umani per alimentarsi e quindi vivere una vita propria: la trama prevede comunque la presenza di uno sparuto numero di persone che possono entrare nel “programma” dei computer che dominano il mondo per lottare al fine di ripristinare l’ordine naturale delle cose. Ciò si verificherà puntualmente, ed alla fine si creerà una società più consapevole dei rischi che si corrono quando si esagera con la tecnologia. La visione pessimistica degli autori si capisce chiaramente dal fatto che rappresentano un mondo abitato da “persone” che non possono cambiare il proprio destino perché già determinato da altri, “programmato” appunto: questo modo di pensare riporta alla mente un certo cristianesimo dimesso, dove i fedeli non lottano per migliorare la loro condizione di vita perché credono ad un destino già scritto, ed aspettano l’intervento di una volontà esterna più forte (il miracolo) per vederla modificata.
In Avatar è l’uomo ad essere cattivo: nel film si immagina un futuro in cui sulla Terra scarseggiano le fonti di energia, e si cercano su pianeti lontani le materie prime indispensabili per alimentare tutto ciò che ci serve nella vita quotidiana. Su un pianeta fuori dal nostro sistema solare, abitato da esseri pacifici in armonia con la natura, viene individuato un prezioso minerale che però si trova in gran parte in zone ritenute sacre dai nativi, i quali per questo negano la sua estrazione. L’atmosfera del pianeta non è respirabile dall’uomo che per questo lavora usando maschere filtranti e per entrare in contatto con gli abitanti del pianeta costruisce un “avatar”, un corpo biologico uguale a quello dei nativi, ma privo di coscienza propria. L’uomo, stando all’interno di una speciale capsula, può interagire con il suo avatar proprio come si fa nella realtà virtuale: quando poi ci sarà l’inevitabile guerra tra le due culture, l’uomo-avatar prenderà le parti dei nativi ed alla fine abbandonerà il suo corpo umano per vedere la sua mente trasferita all’interno dell’avatar stesso, grazie all’intercessione degli indigeni e all’intervento di un’entità superiore alla quale tutti gli esseri viventi del pianeta sono connessi, come ad una grande rete. Qui è ancora più evidente l’analogia con il cristianesimo, e con una fede operosa e vitale. Le “persone” sono in balia delle forze del male, ma lottano per contrastarle: una forza esterna si incarna nel loro mondo per aiutarli e non per agire al posto loro, è ucciso perché non viene creduto, ma poi risorge con un corpo diverso, “trasfigurato” nel caso di Gesù Cristo.
Oggi le tecnologie ipotizzate nelle realtà virtuali di Matrix (1999) e Avatar (2009) sono quasi a portata di mano, perché sia le macchine sia i programmi che le gestiscono fanno ogni anno passi da gigante, e ormai si costruiscono computer portatili con processori da 4,2 Ghz , capaci quindi di fare più di 4 miliardi di operazioni algebriche al secondo! Non parliamo poi dei supercalcolatori, che sono un insieme di processori organizzati in modo da gestire un totale di carichi di lavoro eccezionale: magari occupano lo spazio di un grande appartamento e consumano molta energia elettrica, ma sono in grado di superare i 1.000 Ghz, cioè di fare più di mille miliardi di operazioni al secondo!
La visione dei suddetti due film in questo particolare periodo dell’anno che per la Chiesa cattolica è definito di “Avvento” perché i credenti si preparano a ricordare, con il Natale, la venuta di Gesù Cristo sulla terra (l’incarnazione del Dio Vivente), mi ha portato a fare alcune considerazioni con annesse conseguenti associazioni di idee.
Considerato:
- che quasi tutti ormai tocchiamo con mano queste meraviglie della tecnica che sono i computer, i telefonini, i tablet, ecc.;
- che in molti usano i videogiochi (che potremmo considerare come una quasi realtà virtuale) quando vogliono passare un po’ di tempo a divertirsi;
- che qualcuno ha sperimentato anche l’emozione di entrare in una “realtà virtuale” vera e propria.
Allora non riesco a capire come mai:
- mentre i cristiani credono che il Dio onnipotente si sia incarnato in Gesù Cristo, gli atei, pur sapendo che noi piccole creature possiamo “entrare” in una realtà diversa da quella in cui viviamo e creata da noi, non credono possibile che esista un Dio che può entrare nel nostro mondo da Lui creato. A chi volesse obiettare che quando l’uomo opera nella realtà virtuale è in effetti ben piantato su questa terra (il corpo del giocatore che respira e la sua mente che agisce al di fuori di esso sono una cosa sola), ricordo che, quando Gesù Cristo afferma che “alcune cose le conosce solo il Padre”, ci ha già resi partecipi del fatto che anche e prima di tutto in Dio esiste questa dualità di quelli che potremmo definire “livelli operativi” , ribadendo però che “Lui e il Padre sono una cosa sola”: Gesù è vero Dio e vero uomo, così come il giocatore della realtà virtuale è vero uomo e vero personaggio.
- mentre i cristiani credono che esista Dio e che Lui ci conosce uno per uno e ci ascolta tutti, gli atei, pur sapendo che noi esseri umani siamo in grado di creare oggetti che operano centinaia di miliardi di volte al secondo e sono capaci di tenere in memoria altrettanti miliardi di informazioni, non concepiscono un Dio che ogni istante può conoscere tutto di pochi miliardi di creature che vivono in questo mondo da Lui creato ed interagire con loro: può un oggetto creato dall’uomo, fatto di plastica, metallo e silicio, essere più potente di Dio che ha fatto l’uomo, il silicio, il metallo e tutto quello che l’uomo usa per le sue creazioni?
Che abbia ragione Odifreddi quando afferma che solo un cretino può dirsi cristiano? O non è possibile che i cristiani abbiano saputo da sempre quello che l’analogia prima illustrata tra le nostre creazioni tecnologiche e “la Creazione” rende oggi più credibile, e che lui insieme a tutti gli altri atei si ostinano a continuare a negare?
Sulla questione dell’incredulità degli atei, i quali sostengono che si deve fare a meno di Dio perché la scienza oggi può spiegare tutto e tutto risolvere, mi sia consentito usare le parole con le quali
Domenico Distilo interpreta il mio pensiero:
“Tra la fede e la moderna ragione scientifica non c’è incompatibilità e neppure dissonanza ma pieno accordo, sì che non è possibile, se non si è… in malafede o dominati da un pregiudizio ateistico o antiteistico, addurre argomenti razionali contro la fede. La vecchia formula di Tertulliano, credo quia absurdum, risulta così completamente rovesciata: si crede perché, alla luce dei fatti e della interpretazione razionale di essi, è assurdo non tanto credere quanto non credere e sarà l’ateo a pronunciare, debitamente parafrasandola, la formula tertullianesca, non potendo altro dire che non credo quia absurdum (non credo, anche se questa mia non credenza è assurda)”.
Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” dice Dio come ultimo atto della Sua creazione: se è vero che l’immagine non è uguaglianza e che la somiglianza non è identità (e ne consegue che l’uomo non è uguale a Dio!) è anche vero che le realizzazioni sempre più grandi fatte dall’uomo possono farci capire come sia sempre più credibile che Dio abbia fatto tutto l’universo con la “parola della Sua potenza”.

P.S. - Giulio Mantovani scrive su "giornale.it":
Joseph de Maistre, a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, nelle Serate di Pietroburgo chiedeva ai suoi ospiti: « Si può concepire il pensiero come accidente di una sostanza che non pensa?». Questo mi spingeva a rigettare la teoria evoluzionista, ma non volevo accrescere la divisione, o la guerra tra le due teorie, ma trovare la risoluzione nell’accettare, in campo accademico, tutte e due le ipotesi: cioè l’evoluzione non è altro che una continua creazione nel tempo.
L’ultima teoria (detta delle stringhe) accreditata in ambiente scientifico mondiale, dice che fu un suono o una “vibrazione” che ha innescato il “Big Bang”, il fenomeno da cui ha avuto inizio la creazione di tutto l’universo. Ecco un punto in comune: credo fermamente che sia stato il suono della Parola di Dio, come è scritto all’inizio della Genesi: « – Sia la luce!. – E la luce fu» . Ed i primi versetti del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo… Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui…». Senza contare che nel libro della Sapienza era già stato scritto: «Grande è il Signore che tutto ha creato e disposto con misura, numero, ordine e peso». Proprio ciò che ci stanno rivelando le sonde spaziali!
La conclusione la vorrei esprimere con una frase di sant’Agostino: «Non occorre capire per credere, ma occorre credere per capire».

Nelle foto, dall'alto: le locandine dei film "Matrix" e "Avatar" e un'icona della chiesa ortodossa rappresentante l'Incarnazione.

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(4.12.13) DOPO OLTRE MEZZO SECOLO TORNA LA PROCESSIONE DELL'IMMACOLATA (Umberto Di Stilo) - Dopo oltre mezzo secolo, e a distanza di qualche settimana dalla proclamazione ufficiale di Galatro “città mariana”, la piccola statua lignea dell’Immacolata, domenica prossima, lascerà la chiesa parrocchiale per essere portata in processione lungo le vie principali del paese. L’evento, così come è stato presentato, assume i connotati dell’avvenimento storico. Soprattutto per le giovani generazioni per le quali la programmata processione è una novità. Non lo è, però, per chi ha i capelli innevati dal tempo e il ricordo di quella processione, recuperato improvvisamente dalla memoria, provoca un vortice di sentimenti impastati di nostalgia proprio come il tuffo nel passato che genera il casuale rinvenimento di una fotografia di famiglia che, seppur leggermente sfuocata ed ingiallita dal tempo, riesce a dare vigore alle immagini di tante persone care che ci hanno lasciato. L’annuncio della processione che domenica prossima si snoderà per le vie del paese subito dopo la messa solenne, in molti dei fedeli “anziani” che si trovavano in chiesa al momento dell’avviso del parroco, ha improvvisamente riportato alla memoria l’immagine della piccola statua che, seguita da molti fedeli, nei difficili anni del secondo conflitto mondiale, attraversa le strade della parrocchia accompagnata dal canto “mira il tuo popolo” e dalle allegre note di una marcia eseguita dal locale complesso bandistico.
Qualche volta la processione ha interessato soltanto le viuzze dei rioni Pecorello e Ceramidìo, perchè le condizioni atmosferiche minacciavano pioggia e il parroco non voleva impedire che la Madonna portasse il suo materno saluto almeno agli anziani e agli ammalati di quelle stradine che, come in un ideale abbraccio, da sempre cingono la chiesa. Contrariamente a quel che qualche giovane potrebbe pensare, a Galatro la mariana devozione verso l’Immacolata Concezione è antichissima. Infatti è da far risalire agli ultimi decenni del 1400 allorchè a Lei venne dedicato un artistico e ben addobbato altare della Chiesa di Santa Maria della Neve (successivamente divenuta chiesa dell’Immacolata) uno dei più antichi luoghi di culto che i fedeli avevano costruito nei diversi rioni del paese. Su quell’altare i fedeli avevano l’opportunità di contemplare le fattezze fisiche della “Concezione” nel dipinto di Antonello da Messina, opera che ha avuto modo di ammirare estasiato il vescovo Del Tufo in occasione della sua visita del 1586 e che andò perduta nel terremoto del 1783.(1) La devozione alla Concezione, quindi, era radicata tra i galatresi molto prima che Papa Pio IX, l’8 dicembre del 1854, proclamasse il “dogma dell’Immacolata”. Se antichissima, dunque, è la devozione altrettanto antichissima è la processione per le vie del paese che, soprattutto nei secoli passati, è stata un appuntamento fisso per tutti i fedeli locali.
Il corteo devozionale si è continuato a svolgere regolarmente anche nel “nuovo” centro abitato (quello costruito dopo il terremoto del 1783) quando la statua processionale lignea della Madonna (la stessa che attualmente i fedeli venerano nella chiesa San Nicola) dissotterrata dalle macerie del tempio a Lei dedicato, è stata trasferita nella nuova parrocchiale. Inoltre, a dimostrazione che in paese la devozione all’Immacolata era molto diffusa e radicata tra i fedeli, basterebbe ricordare che a Lei volevano dedicare la ricostruita chiesa del rione “San Nicola” (l’attuale chiesa della Montagna). Il sindaco del tempo, Michelangelo Fazzari, infatti, insieme ad un nutrito gruppo di fedeli, nell’agosto del 1796, scriveva al vescovo Mons. Enrico Capece Minutoli per comunicargli che “ritrovandosi in q.(uest)a terra di Galatro, e propriamente di là del fiume Metramo, antico sito di d.(ett)a terra, eretta una chiesa Economale a spese dell’individui di d.(ett)o Galatro, la quale non ancora ha nome né titolo; pertanto volendosi da questo pub.(blic)o appellarsi chiesa dell’Immacolata Concezzione (sic!), sup.(plic) a la bontà di V. S. Ill.ma e R.(everen)dissima benignarsi con suo decreto appellarla Chiesa dell’Immacolata Concezzione col permesso ancora a questo Economo Curato d. Dom.(eni)co Mandùci che facci trasportare la statua dell’Immacolata che rettrovasi nella Parrocchia in d.(ett)a chiesa Economale”.
Successivamente 98 fedeli dimoranti nell’antico quartiere, insieme ad alcuni esponenti della borghesia locale, sollecitarono ripetutamente la dedicazione della chiesa all’Immacolata Concezione.
Il Vescovo prese tempo; disse di volersi rendere personalmente conto allorquando sarebbe venuto a Galatro per la visita pastorale. E, col passare del tempo, l’idea sfumò e la chiesa, com’è a tutti noto, alcuni anni dopo, con l’arrivo da Garopoli della delorenziana statua della Madonna della Montagna e con la devozione a Lei che di mese in mese andava sempre più diffondendosi tra i fedeli di quel Quartiere, fu dedicata alla Madonna di Polsi, ovvero alla Madonna della Montagna.
Per decenni nelle chiese di Galatro è esistita una sola statua dell’Immacolata: quella “antica“ posta al culto dei fedeli nella chiesa parrocchiale.(2) Poi, nel 1937, il parroco don Antonio Teti ha pensato di dotare la sua chiesa di un’altra statua con la quale ha pure programmato di fare la processione nel giorno della festa. La cosa non è stata gradita all’arciprete Bruno Antonio Marazzita che il 1° ottobre si è affrettato ad indirizzare al Vescovo una lettera di disapprovazione nei confronti del collega parroco che aveva portato a Galatro “una seconda statua dell’Immacolata, dimenticando che sin da antichi tempi è sempre esistita in questa chiesa” di san Nicola che annualmente organizzava semplici festeggiamenti con processione per le vie del paese. Non risulta, però, che dai successori del parroco Teti sia stata mai programmata la processione dell’Immacolata in quella parrocchia.
Va, infine, ricordato che nel dicembre 2004 il parroco Don Cosimo Furfaro, ripristinando l’antica tradizione che diversi anni prima era stata interrotta per la concomitante festività del santo Patrono, ha voluto che per la novena dell’Immacolata la statua fosse tolta dall’altare, ove è esposta al culto dei fedeli, e collocata sulla sua “vara” processionale in prossimità dell’abside. Per i fedeli quel semplice gesto è stato ricco di valori interiori. Dopo molti anni, infatti, la Mamma celeste, ricolma d’amore e di attenzioni, tornava fisicamente a stare in mezzo ai suoi figli per sentirli più vicini e per soddisfare le loro richieste.
Adesso, per iniziativa del parroco Don Giuseppe Calimera, in quest’anno mariano parrocchiale che si concluderà nel prossimo agosto con l’incoronazione della Madonna del Carmine, dopo molti decenni, la settecentesca statua dell’Immacolata, domenica prossima, tornerà a lasciare nuovamente la chiesa e, pellegrina d’amore, andrà a far visita a tutti i suoi figli ed a riscaldare i loro cuori con la fiamma della Fede.

NOTE
(1) Su questa pregevolissima opera, rimando il lettore desideroso di maggiori notizie al capitolo “Dipinto della Concettione”, inserito nel mio volume “Il cinquecentesco trittico marmoreo…”, pag. 129-135.
(2) La statua che i fedeli trovano nella chiesa parrocchiale, è opera dello scultore Domenico Delorenzo che l’ha realizzata per la chiesa galatrese nel 1768. Nel 1958 è stata restaurata da Alfonso Montagnese “a divozione della signora Maria Adelaide Ferrari in Pascarelli”. Per ulteriori notizie storico-artistiche sulla statua, si rimanda il paziente lettore al capitolo “Statua lignea dell’Immacolata”, inserito nel mio volume “Il cinquecentesco trittico marmoreo…”, pag. 253–260.


Visualizza il programma della festa dell'Immacolata col messaggio di Don Giuseppe Calimera (PDF) 17,8 KB

Nella foto: la statua dell'Immacolata nella chiesa matrice di San Nicola in Galatro.

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(21.12.13) ALESSANDRO OCELLO: QUANDO LA PASSIONE PER LA MUSICA DIVENTA ARTE (Michele Scozzarra) - L’avere conosciuto l’amico Alessandro Ocello, non solo come serio professionista che opera nella nostra Galatro, ma come cultore di un’arte musicale che non solo esegue, ma produce la musica, attraverso la creazione degli strumenti musicali, originali e particolari come la ghironda, mi ha permesso di approfondire la conoscenza di una realtà culturale e musicale “nuova”.
Dalle parole di Alessandro s’intuisce come, alla musica intesa anche come una tra le più alte espressioni dell’arte di realizzare gli strumenti, si può guardare non soltanto come “voraci” consumatori di un prodotto che è immesso sul mercato solo al fine di fare soldi, ma come una parte delle attività umane cui è ancora riconosciuta una possibilità creativa, culturale, artistica.
Nella realizzazione di uno strumento come la ghironda (oggi in pratica sconosciuto a molti) Alessandro ci mette tutta la sua passione per la musica, come un qualcosa che penetra nella storia del nostro ambiente, della nostra terra.
Oggi è in atto, in molte delle nostre comunità, non solo calabresi, una scoperta di tutta una tradizione musicale con cui la gente ha espresso nei secoli, ed esprime ancora, la sua fede, la sua cultura, la sua fatica, la sua sofferenza. Voglio pensare, soprattutto, visto il richiamo che Alessandro fa al bel suono ipnotico e misterioso della ghironda, a quei canti e musiche, a tutte quelle espressioni artistiche e musicali che, pur nate in tempi di povertà e di fatica, esprimevano una fiducia e una speranza nel loro futuro, talvolta “contro ogni speranza”.
Questo tipo di musica è nata, innanzitutto dalle esperienze più autenticamente “popolari” dei nostri paesi, il più delle volte non prestando particolare importanza al fatto se l’opera (o lo strumento musicale in sé!) era stata creata dall’abile quanto anonimo musicista artigiano, oppure dal musicista di gran fama.
Dalle parole di Alessandro emerge come l’unica “arte” commovente è quella che dal cuore dell’uomo viene depositata in suoni, trascritti con un linguaggio che l’uomo ha inventato così come la poesia, la pittura, la scultura e altre modalità per lasciare una traccia dei momenti di verità della propria vita. C’è chi lo fa attraverso le parole, c’è chi lo fa attraverso i segni, c’è chi lo fa attraverso la creazione degli strumenti e dei suoni… così come sta facendo Alessandro… che lo sta facendo veramente bene e con bravura, competenza e passione, come lui stesso ci racconta.

Che cosa ti ha spinto alla passione per la realizzazione di questi particolari strumenti musicali?
Diciamo che ho avuto sempre una vena artistica, sono sempre stato bravo a disegnare sin da piccolo, poi crescendo mi sono interessato a tante cose che mi hanno dato tanti stimoli. Da autodidatta ho scoperto la musica e mi sono appassionato alle chitarre. All’inizio le smontavo, le modificavo e le riverniciavo.
La prima volta che mi sono cimentato nella costruzione, mi misi in testa di replicare uno strumento che vidi in una fotografia, sono partito con delle tavole che avevo a casa, proprio per questa mia mania di realizzare qualcosa di estroso e singolare. Diciamo che la spinta è venuta da sé, nel cercare di migliorare le tecniche, nella curiosità di scoprire le cose, nell’inseguire una perfezione irraggiungibile. Ho fatto tutto da autodidatta, così per gioco, mai potevo pensare di riuscire a costruire un giorno una ghironda.

A volere guardare bene i tuoi pezzi sembrano usciti da una bottega d’arte, eppure tu continui a parlare di autodidatta…
Molti mi fanno i complimenti nel vedere gli strumenti, altri mi danno del “geniale”, ma io non la vedo così. Per me il genio non esiste. Io mi sono appassionato di una cosa inusuale, di un qualcosa che tanti non hanno mai visto, se vogliamo di un qualcosa di non facile fattibilità. Spesso sto volentieri anche di notte a disegnare, se sei veramente preso da qualcosa, in quella cosa diventi bravo, gli ostacoli si superano facilmente, non c’è niente di geniale.
Col tempo qualche amico mi ha incoraggiato a non trascurare questa mia passione che, ripeto, è nata per caso… Ti dico che dal primo pezzo che ho realizzato (una chitarra più di dieci anni addietro), fino al giorno della festa della Montagna di quest’anno, quando sono salito sul palco con i Karadros, quasi nessuno sapeva di questa mia passione. E’ chiaro che mi sono perfezionato con il tempo, quello che vedi oggi non è nato così dalla sera alla mattina, però oggi posso dire di riuscire a realizzare qualcosa di buono, e non so dire adesso se in futuro questa mia passione la coltiverò a livello intenso come lavoro primario…
Per mestiere io faccio il geometra ma, tutto il tempo libero che ho ormai lo dedico a curare ancora di più quest’arte. Prima progetto il pezzo che voglio realizzare, poi prendo gli strumenti e inizio a comporre.

Sei riuscito a realizzare uno strumento molto complicato come la ghironda. Che tipo di musica si può realizzare oggi con uno strumento come questo?
La ghironda è uno strumento sostanzialmente semplice. Non si possono suonare tanti stili di musica in quanto è uno strumento piuttosto limitato, non è come il pianoforte o come la chitarra, dove si possono cambiare gli accordi o eseguire arpeggi. Qua siamo sempre su un tono fisso. E’ importante dire che per suonare la ghironda non è necessario conoscere bene la musica, e quindi non ha bisogno di studi particolari per riuscire a tirare fuori una bella melodia. A prima vista la ghironda può sembrare un giocattolone fatto a forma di botte e non un vero e proprio strumento musicale; però a tutti gli effetti lo era e lo è tuttora, anche se sconosciuto a tanti. Nel vedere suonare la ghironda, tanta gente, rimane spiazzata, stupita, incuriosisce sin da subito, ci si chiede “ma come fa a suonare”, poi il suono è particolare, è ipnotico e misterioso, all’ascolto viene spontaneo dire: ma che bel suono.

Proviamo a descrivere la ghironda da un punto di vista “tecnico”.
La ghironda è costruita interamente in legno, come altri strumenti di liuteria. A fronte di una facilità nel suonarla vi è una notevolissima difficoltà nella sua realizzazione. C’è bisogno di centinaia di ore di lavoro e di una pazienza certosina sino alla messa a punto definitiva. Io in particolare ho realizzato una ghironda occitana a forma di liuto, poi esistono varie versioni, cambia la forma ma il contenuto è sempre uguale. All’interno della cassa vi è un asse meccanico che permette di far girare una ruota di legno tramite una manovella posta all’esterno della cassa. Il suono è prodotto dallo sfregamento delle corde sulla ruota che ha la stessa funzione dell’archetto sulle corde del violino. La ruota a differenza dell’archetto, permette di non staccare mai il suono, quindi si ha un continuo ronzio delle corde di “bordone” che tengono un accordo fisso, mentre altre corde cosiddette di “canto” generano la melodia intervenendo su una tastiera posta al di sopra dello strumento che viene azionata con le dita. Essendo la ghironda uno strumento limitato nella tonalità, se lo si suona con altri strumenti, tipo la chitarra, il piano o la fisarmonica, sono quest’ultimi che si devono adeguare a lei e non viceversa.

Come mai un tale delicato e prezioso strumento oggi è quasi sconosciuto?
Oggi è possibile ancora ascoltare il suono della ghironda in alcuni festival europei di musica folk, in particolare in Francia e Ungheria, dove è abbastanza conosciuta. Non avrà avuto la fortuna di altri strumenti famosi, forse perché non è adatta a musiche moderne, però era ed è presente in molte zone europee, anche nel nord Italia.
La ghironda è l’ultimo nato di una famiglia di strumenti a ruota che erano molto in voga già nel X secolo. Discende dall’organistrum che era uno strumento polifonico, faceva melodia e accompagnamento, era autosufficiente quindi “organico”, lo rendeva adatto all’accompagnamento dei canti religiosi. Da questo nacquero le versioni da “strada”, la symponia usata nelle feste popolari, e anni più tardi la ghironda, ovvero l’evoluzione definitiva di questi strumenti, compare nel medioevo e conserva le stesse caratteristiche, ma è più evoluto. La sua figura era associata a quella di mendicanti, girovaghi, gente di cattiva reputazione, per questo motivo probabilmente ne decretò l’emarginazione.

* * *

Da addetto ai lavori nel campo musicale, colgo l'occasione di questa bellissima intervista realizzata da Michele Scozzarra per fare i più sinceri complimenti ad Alessandro Ocello per le sue eccellenti realizzazioni nel campo della liuteria. Si tratta di un settore che, dopo anni di decadenza, sta conoscendo dalle nostre parti un notevole fulgore, con un buon numero di giovani che hanno iniziato a dedicarsi con successo a questo tipo di attività, contribuendo con le loro realizzazioni anche all'ottimo momento che sta vivendo la musica etnica in Calabria.
Proprio nei giorni scorsi abbiamo appreso della scomparsa di Vincenzo De Bonis, ultimo discendente di una storica famiglia di liutai calabresi di Bisignano. Il rimpianto per fortuna è attenuato dal sapere che l'arte liutaria in Calabria prosegue e anzi si intensifica. A Galatro eravamo finora abituati a conoscere le produzioni aerofone di Macrì. Gli strumenti cordofoni (ghironda, chitarre battenti e classiche) di Alessandro Ocello credo non abbiano precedenti di rilievo nel nostro paese e bisogna essere orgogliosi della presenza a Galatro di un bravo costruttore.
Altra cosa che volevo aggiungere è che nella musica non esistono strumenti di serie A e di serie B. Tutti gli strumenti in fondo hanno origine popolare, ad idearli e realizzarli sono sempre state la mente e le mani di un artigiano costruttore. Abbiamo anche l'illustre precedente di Leonardo da Vinci che progettò una viola organista che aveva un meccanismo uguale a quello della ghironda. Si trattava di uno strumento a corde molto grande che si suonava direttamente con la tastiera, come un organo. Il progetto di Leonardo è stato realizzato solo molto di recente, a secoli di distanza. Inoltre per la ghironda hanno scritto musiche anche famosissimi compositori come Vivaldi (una trascrizione delle Quattro Stagioni) e lo stesso Mozart (Concerto per due lire con accompagnamento di più strumenti).

Massimo Distilo


Alessandro Ocello suona la Ghironda coi Karadros durante la festa della Montagna

Nelle foto, dall'alto in basso: Alessandro Ocello con una ghironda da lui realizzata; il meccanismo della ghironda; dettagli della ghironda; chitarre battenti e classiche costruite da Alessandro.


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(27.12.13) CONCERTO PER IL NUOVO ANNO A POLISTENA CON NICOLA SERGIO E ALTRI ARTISTI - Nel Salone delle Feste di Polistena, Lunedì 30 dicembre, alle ore 18.30, si svolgerà un concerto omaggio (ingresso gratuito) e di buon auspicio per il nuovo anno, patrocinato dal Comune di Polistena. Sarà presentata al pubblico una nuova realtà associativa: LYRIKS – Laboratorio Interdisciplinare di Ricerche Artistiche.
Tra i fondatori dell'associazione il pianista galatrese Nicola Sergio che si esibirà nell'occasione assieme ad altri artisti, presentando anche tre pezzi del suo
recente progetto dal titolo "Migrants".
In programma una serie di brani in prima assoluta che toccheranno la musica contemporanea, il jazz, il canto lirico e che saranno accompagnati da proiezioni video e dall’anteprima dei progetti in fase di produzione che porteranno il marchio di LYRIKS: Migrants, Suoni in Aspromonte, Flotte di pace.
Una serata all’insegna dell’innovazione che si fa teatro, opera, musica, lirica di suono e immagine in grado di coinvolgere e promuovere il territorio nella sua interezza e nella sua concezione culturale più ampia.
LYRIKS è una factory che guarda alla multidisciplinarità delle arti, alla musica contemporanea, al jazz, alla lirica. Studia i ritmi dell’oggi ma non tralascia la musica di tradizione orale, le sue contaminazioni e le possibili sperimentazioni con il teatro, il cinema, l'arte contemporanea. Le forme d’avanguardia e i gesti di “innovazione” che generano le nuove visioni di un mondo fatto di suono e immagini.
Musica non solo da ascoltare ma anche da vedere con il supporto di strumenti innovativi in grado di proiettare l’ascoltatore nella visione. Un nuovo scenario in cui i componenti della neonata associazione si muovono con professionalità, ricerca e spirito di appartenenza al territorio di origine. Per questo LYRIKS si presenta come uno straordinario strumento di lettura e indagine del passato e del presente.
Francesco Anile, Nino Cannatà, Tony Capula, Sergio Coniglio, Nelly Creazzo, Girolamo Deraco, Caterina Francese, Salvatore Insana, Nicola Sergio i protagonisti della serata del 30 dicembre prossimo. Loro i fondatori e componenti di questa nuova compagine culturale. Personalità che legano i loro nomi all’arte e alla ricerca storico-letteraria, operatori culturali con un comune denominatore: nati in Calabria e cittadini ed esportatori della cultura nel mondo.
LYRIKS è, dunque, un network, è "luogo" di produzione, promozione e formazione. Quest’ultima rivolta soprattutto ai più giovani per una crescita adeguata e coerente con la cultura radicata nei territori propri del mediterraneo.
LYRIKS vuole essere una realtà in bilico tra due epoche: il '900 e il futuro, un’opportunità per una rinascita critica e produttiva che faccia della cultura il proprio centro di dialogo e cooperazione. Un nuovo modo di fare con uno sguardo che si muove tra innovazione e tradizione per sostenere produzioni altrimenti impossibili.
Tutto questo diventa possibile grazie ad una rete di professionalità disponibili a costruire un nuova realtà culturale in un territorio ricco di storia passata e che guarda alla qualità come possibile sostegno e sviluppo del bene comune.
«Un gruppo di professionisti, la cui motivazione nasce dalla consapevolezza di essere figli di una terra-madre, le cui radici magnogreche sono fonte di ispirazione e di carattere identitario, la cui storia non può essere calpestata dalla trascuratezza e la cultura sovrastata dalla non conoscenza; per questo LYRIKS nasce come progetto culturale diffuso, nasce dal centro del mediterraneo per abbracciare l’internazionalità di cui siamo capaci, migranti come siamo», così si esprime il neo presidente di LYRIKS, il tenore Francesco Anile a pochi giorni dal concerto inaugurale «che - continua - vuole essere un saluto al nuovo anno ed un augurio per il pubblico e per i nostri progetti, che hanno l’obiettivo di generare impulsi positivi per il nostro territorio. Partiamo da noi, dalla nostra identità storico-culturale che aspetta solo di essere conosciuta e valorizzata.»
(dal comunicato stampa di Pia Tucci)

www.lyriks.it




Scarica la Locandina del Concerto per il nuovo anno (PDF) 1,17 MB

Nelle foto: in alto Nicola Sergio, in basso un momento della conferenza stampa di presentazione di Lyriks (da sinistra Marco Policaro, Michele Tripodi, Francesco Anile, Domenico Lazzari, Nelly Creazzo).

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(29.12.13) LA CHIESA DI SAN NICOLA (Umberto Di Stilo) - Pubblichiamo gli appunti che hanno costituito la base della conferenza sulla storia della chiesa di San Nicola tenuta da Umberto Di Stilo, lo scorso 14 dicembre, alla presenza del vescovo della diocesi di Oppido–Palmi, mons. Francesco Milito, del sindaco di Galatro e di altre autorità in occasione del XXV anniversario della consacrazione della stessa chiesa avvenuta il 5 dicembre 1988.

Già nella prima metà del XV secolo, tra le chiese consacrate presenti sul suo territorio, Galatro annoverava quella dedicata al Patrono San Nicola. Insieme a tutte le altre, anche quella venne rasa al suolo dal disastroso evento sismico del 5 febbraio 1783. Prendendo questa data come spartiacque degli avvenimenti sociali e religiosi di Galatro, bisogna distinguere la storia che questa nostra chiesa parrocchiale ha avuto prima del terremoto da quella del dopo terremoto.
Anteriormente al 5 febbraio 1783 la chiesa parrocchiale di Galatro si trovava nel quartiere che, proprio in onore del Santo patrono, si chiamava (e in molti atti ufficiali conserva ancora tale denominazione) “Rione san Nicola”, rione che, oggi, corrisponde a tutta la parte bassa della sezione Montebello.
La chiesa, infatti, sin dalla sua prima edificazione – ovvero sin dalla prima metà del XV secolo - è stata costruita là dove oggi c’è la chiesa della Montagna.
La distrutta chiesa parrocchiale, secondo quanto si legge nel verbale della visita compiuta da Mons. Del Tufo nel 1586, aveva “doi sacrestie” perché oltre a quella della chiesa c’era anche quella annessa alla cappella del SS. Sacramento, cappella quest’ultima che era dotata anche di una sua Confraternita. A questa cappella, nel 1546 (e, quindi, 40 anni prima della visita di Del Tufo) Papa Paolo III aveva concesso la bolla delle indulgenze, poi riconfermata (con altra apposita bolla) il 26 dicembre 1585 dal Papa Sisto V mentre si trovava nella romana basilica di Santa Maria della Minerva.
Il visitatore apostolico, nel suo verbale annota anche che la chiesa aveva “doi ali” il che induce a pensare che il tempio era a due navate o, più verosimilmente, che la chiesa era a croce latina. In questo caso, con la dizione “doi ali” è da supporre che il visitatore abbia voluto definire le due cappelle laterali che, incrociandosi con la navata centrale all’altezza dell’abside e in prossimità dell’altare maggiore, davano origine ai due bracci della croce. Si può affermare, pertanto che la distrutta parrocchiale aveva pressappoco la stessa forma dell’odierna chiesa di Maria SS. della Montagna anche se, nel corso dei secoli quest’ultima è stata totalmente rifatta ed ha subito diversi interventi di restauro.
Un secolo e mezzo più tardi, nel verbale della visita effettuata nei giorni 14, 15 e 16 maggio 1746, il visitatore apostolico scrive che la parrocchiale è dotata di tre navate di cui una grande al centro e di due più piccole laterali. Nella navata centrale precisa di aver trovato una lapide sepolcrale, ricca di capitelli, appartenente alla famiglia Agliostro.
Nessun altro visitatore si è più preoccupato e premurato di descrivere la chiesa in tutti i particolari della struttura. Dai vari verbali, però, è possibile dedurre che la parrocchiale era molto ben tenuta, ricca di altari importanti – molti dei quali eretti come jus patronatus dalle agiate famiglie locali – e, soprattutto, provvista di preziosi arredi e di opere d’arte di gran pregio. Tra le altre, per economia di tempo, ricordiamo solo la quattrocentesca statua marmorea di san Nicola (che adesso è in questa nuova parrocchiale e che all’epoca era posta sull’altare maggiore) e la pala marmorea del tabernacolo che era nella cappella del Santissimo e che, dissotterrata dalle macerie del terremoto, successivamente è stata parzialmente utilizzata per abbellire l’altare maggiore della chiesa della Montagna. Qui, per la sua particolare bellezza, da qualche decennio è diventata oggetto di studio da parte dei cultori d’arte.
Il terremoto ridusse la chiesa ad un cumulo di rovine e in pochi secondi seppellì il gusto artistico e le concrete testimonianze della fede profonda che animava tutti i galatresi. Seppellì statue, dipinti d’autore, altorilievi stucchei e marmorei, tutte opere che nel loro insieme, oltre al grado di maturità artistica dei maestri che operavano nella zona, costituivano la concreta dimostrazione dell’elevato gusto estetico a cui erano pervenuti i galatresi nel cammino di civiltà lungo alcuni secoli. Tali opere testimoniavano, soprattutto, la discreta condizione economica dei galatresi, grazie alla quale era stato possibile dotare le chiese di opere d’arte e di mantenerle come vere e proprie piccole basiliche. Tale testimonianza in pochi secondi è stata quasi totalmente cancellata dalla furia devastatrice del terremoto che nel volgere di poche ore ha fatto registrare diverse scosse di elevata potenza. Galatro, come diversi altri paesi di questa zona, è stata completamente rasa al suolo. E oltre ai danni materiali, ha dovuto piangere anche 341 vittime.
Dopo il “flagello” del 5 febbraio, com’era logico che fosse, oltre alla riedificazione delle private abitazioni, i galatresi pretesero che, per soddisfare le loro esigenze spirituali, potessero disporre almeno di un luogo di culto. Tutti loro, che dalla forza distruttrice del terremoto avevano visto ridurre in informi ammassi di macerie le loro tredici chiese, chiedevano a gran voce che venisse ricostruita almeno l’arcipretale chiesa parrocchiale.
Fu così che, per assicurare ai fedeli la possibilità di partecipare alla celebrazione dei sacri riti e per sopperire alla completa mancanza di luoghi di culto, il parroco del tempo, don Nicola Garuffi, provvide alla costruzione di una baracca di tavole, soluzione transitoria ma quanto mai pratica e sbrigativa. Anche i cittadini trovarono temporaneo ricovero in rustiche baracche di tavole o in semplici capanne di frasche, finché, finito il lungo sciame sismico e con l’arrivo della calda stagione, non hanno potuto cominciare a provvedere alle costruzioni in muratura.
Contemporaneamente, mentre gli amministratori del tempo si rivolgevano al Governo del Re per chiedere aiuti per la ricostruzione del paese, il parroco Garuffi supplicava il concreto intervento del Vescovo di Mileto, Mons. Giuseppe Maria Carafa che, pur essendo assillato dalle richieste che gli venivano rivolte dalle diverse comunità della Diocesi, non poteva dimenticare di essere feudatario e “Barone” di Galatro.
Nel frattempo i cittadini, dovendo ricostruire ex novo le loro abitazioni, decisero di allontanarsi il più possibile dal fiume perchè periodicamente causava inondazioni ed arrecava notevoli danni materiali e perdita di vite umane. L’ultima disastrosa alluvione, infatti, risaliva a soli sei anni prima. Contemporaneamente fu deciso che la chiesa dovesse essere edificata nella stessa zona nella quale gli abitanti, nella loro quasi totalità, avevano stabilito di ricostruire le loro abitazioni e le loro botteghe artigianali. In prossimità delle opposte rive del fiume, invece, avevano disposto di lasciare soltanto i calcinai dei conciatori di pelle, attività all’epoca ancora molto fiorente in paese. In prossimità del Metramo e del Fermano dovevano necessariamente rimanere anche i frantoi ed i molini che, per riprendere la loro normale attività lavorativa avevano bisogno di sfruttare la loro forza idraulica.
Come spesso accade, però, la scelta non fu condivisa da tutti, con la conseguenza che tra i cittadini si vennero ad originare due fazioni.
Da una parte c’erano i galatresi desiderosi di ricostruire le loro case il più lontano possibile dai fiumi e dall’altra quelli che, sia pure in netta minoranza, avevano deciso di riedificarle sulle macerie delle loro abitazioni distrutte dal terremoto. Questo secondo gruppo era composto dalla quasi totalità dei cittadini superstiti dell’antico rione San Nicola.
E poiché nonostante l’intervento di alcuni esponenti della borghesia locale i pareri continuavano ad essere diversi e il dissenso si accentuava sempre più, la maggior parte dei cittadini, pur dovendo abbandonare a malincuore i loro antichi rioni e le abitazioni nelle quali erano nati e cresciuti, decise di andare a realizzare la nuova abitazione nel sito già individuato per la costruzione del nuovo paese.
Apparve a tutti evidente, a questo punto, che insieme alle loro abitazioni si dovesse provvedere a trasferire anche la chiesa parrocchiale dal distrutto quartiere san Nicola – nel quale si trovava da secoli - al nuovo rione Serghi, ove su una estesa zona pianeggiante si stava dando inizio alla edificazione del nuovo centro abitato.
Qui, per alcuni anni, (e finché non è stata ultimata la costruzione del nuovo tempio) la chiesa parrocchiale - unico luogo di culto di tutto il paese - dovette operare all’interno di una semplice e rustica baracca di tavole, insufficiente ad ospitare l’intera comunità dei fedeli locali.
E sempre qui, in quella “rustica baracca di tavole”, vennero raccolte tutte le statue dissotterrate dalle macerie delle varie chiese galatresi, insieme a preziosi dipinti, ad antiche campane, ai paramenti, agli arredi e ai “vasi sacri”, anch’essi dissepolti dalle rovine dei diversi sacri edifici.
Tutto ciò che era appartenuto alle diverse istituzioni ecclesiastiche operanti sul territorio comunale, insomma, è stato portato in quella che, dopo il flagello è diventata l’unica chiesa galatrese e che “de jure et de facto” fungeva da “nuova” seppur “rustica” e “provvisoria” chiesa parrocchiale.
Ben presto la “baracca” di tavole risultò inadeguata alle esigenze dei fedeli locali. Soprattutto per le sue dimensioni assai ridotte.
Per i fedeli galatresi, abituati a servirsi di molti luoghi di culto, la situazione divenne assai precaria. Il buon parroco Garuffi, anche nella sua qualità di vicario foraneo, sollecitava la costruzione di una nuova chiesa. E’ passato solo qualche anno e il Re di Napoli, Ferdinando IV, accogliendo la motivata richiesta del vescovo Giuseppe Maria Carafa, con proprio decreto del 5 gennaio 1785 autorizzava – anzi suggeriva – il trasferimento dell’intero abitato e la sua totale ricostruzione in un diverso e più sicuro sito e – cosa assai importante - acconsentiva che si desse inizio ai lavori di costruzione della nuova parrocchiale nel nuovo nucleo urbano e, quindi, in luogo lontano da quello che per secoli aveva ospitato la chiesa del santo Patrono.
La nuova ubicazione, dunque, non è stata scelta dall’arciprete Nicola Garuffi, parroco e vicario foraneo del tempo, per sue “particolari vedute” come, insinuando interessi campanilistici, ha scritto qualche decennio dopo Don Nicola Defelice. La nuova chiesa parrocchiale, infatti, è stata edificata nello stesso rione nel quale il maggior numero dei galatresi aveva deciso di costruire il nuovo paese.
Ultimata in pochi anni, con grande entusiasmo e partecipazione dei fedeli, la nuova chiesa parrocchiale è stata aperta al culto nel 1792 (nove anni dopo il terremoto). Per corredarla dell’altare maggiore, su conforme parere del principe di Strongoli inviato speciale di Ferdinando IV, è stato smontato e magistralmente ricomposto il trittico marmoreo che per oltre due secoli aveva costituito il monumentale altare della chiesa di Santa Maria Della Valle voluta e fatta costruire a proprie spese, nel 1517 ed “in solo lateranense”, dal feudatario e barone di Galatro, Mons. Andrea della Valle, vescovo di Mileto.
La basilicale chiesa era crollata al suolo, ma l’altare aveva miracolosamente resistito, rimanendo pressoché integro alle ripetute violente scosse di terremoto. Pertanto, era possibile trasferirlo alla nuova chiesa. Così è stato e in questa nuova parrocchiale è ancora possibile ammirare le tre statue (San Giovanni Battista, la Madonna Della Valle e San Giovanni Evangelista) in tutta la loro solenne cinquecentesca bellezza. Ed è qui che, periodicamente, l’intero trittico costituisce materia di studio per molti cultori, studiosi e critici della nostra arte rinascimentale ed è, soprattutto, oggetto di attenta osservazione per gruppi di studenti dell’Accademia di Belle Arti o della facoltà di architettura della città dello Stretto.
In questa stessa chiesa si conserva pure la quattrocentesca statua in marmo bianco alabastrino riproducente le sembianze di san Nicola vescovo e confessore, Patrono del paese. Tale opera, pregevolissima per stile ed esecuzione, proviene dalla distrutta chiesa abbaziale annessa al convento basiliano di San Salvatore della Chilèna, convento tra i più attivi ed importanti in Calabria fino ai primi decenni del 1400. La statua rispecchia i canoni del culto greco-bizantino. Il santo vescovo, infatti, non ha la tiara in testa (come nella iconografia classica cattolica) e, a guardare la scultura con attenzione, si nota che il volume della testa sembra sproporzionato rispetto al resto del corpo. Ciò perché nella cultura greco-bizantina (come sarà alcuni secoli dopo, nel periodo dell’illuminismo) veniva data grande importanza alla testa in quanto sede dell’intelligenza e del pensiero.
La nuova chiesa, dopo meno di due anni dall’ultimazione dei lavori fu visitata dal vescovo Mons. Enrico Capece Minutolo. In quell’occasione, ha lasciato scritto nel verbale che ha amministrato il sacramento della cresima a molti adulti e che ha trovato la chiesa in ordine. All’epoca erano stati ultimati gli altari laterali del Patrono San Nicola (sul quale era posta all’adorazione del fedeli la statua in marmo), l’altare di San Michele Arcangelo (di Jure patronato della famiglia Sufrà), l’altare dell’Immacolata Vergine Maria (mantenuto dalla carità dei fedeli) e l’altare del SS. Crocifisso (di Jure patronato della famiglia Joculano). Gli altri due altari laterali (quello delle Anime del purgatorio e quello di San Francesco di Paola) sono stati costruiti negli anni immediatamente successivi.
Dal verbale della visita pastorale che cento anni dopo, nel 1890, ha effettuato il vescovo De Lorenzo, apprendiamo anche la disposizione e la dedicazione dei vari altari laterali. Il visitatore, infatti, annota che entrando sul lato destro c’era l’altare di san Rocco, poi quello della Beata Maria Vergine in cielo Assunta e infine quello dell’Immacolata. A sinistra, invece, il primo era quello di san Francesco di Paola, il secondo quello delle Anime del Purgatorio e il terzo quello di san Nicola, con la statua di marmo nella nicchia.
In appositi armadi chiusi trova, ben custodite, le statue di san Giuseppe, dell’Assunta, di san Nicola, di Gesù deposto dalla croce e di Gesù Risorto. E poi, ancora, le statue di Santa Filomena, di Sant’Antonio e di San Francesco Saverio.
Un anno dopo la visita del vescovo De Lorenzo, la mattina del 1° agosto 1891, si è verificato il quasi totale crollo del soffitto e del tetto con notevoli danni a tutta la chiesa. I lavori di restauro sono stati molto accurati e non si sono limitati solo alla ricostruzione del tetto e del soffitto giacché in alcuni punti del sacro edificio è stato necessario ricostruire ex novo la sua struttura muraria. Dal soffitto al pavimento, dall’intonaco esterno a quello esterno, dalle porte ed ai finestroni, dal rifacimento totale di molti stucchi al restauro di alcuni settecenteschi dipinti, in concreto la chiesa è stata quasi completamente rifatta.
Poi, dopo 17 mesi di lavori, notte di Natale del 1892, il nuovo parroco don Bruno Antonio Marazzita, tra i consensi e le approvazioni dei fedeli entusiasti per quanto era stato fatto, ha riaperto al culto la chiesa.
Lo splendore della parrocchiale rifatta a nuovo durava poco.
Gli eventi tellurici dell’8 settembre del 1905 e poi quello del 28 dicembre 1908, infatti, la danneggiavano seriamente. Tra l’altro è stato completamente mozzato il tetto a piramide del campanile e alcune pareti perimetrali sono state fortemente lesionate, con l’urgente necessità di ricorrere a nuovi lavori di restauro per rendere sicuro il sacro edificio.
Originariamente la chiesa presentava una facciata barocca (pregiata opera di maestranze locali) mentre tutto l’interno ad ampia navata unica era decorato in sobrio ordine jonico. I vari interventi di restauro conservativo successivi ai terremoti, soprattutto per le insufficienti disponibilità economiche, sono stati sempre parziali, affrettati e rabberciati tanto da peggiorare ed impoverire sempre più l’originaria decorazione che abbelliva l’interno e da cancellare la settecentesca facciata principale, poi completamente e arbitrariamente modificata dai restauri del 1956.
Nel corso dei lavori eseguiti nel 1946 e nel 1956 sono stati eliminati anche due (dei quattro) altorilievi stucchei riproducenti gli evangelisti realizzati nel 1892 dall’artista Francesco Morano di Polistena e coi quali il giovane parroco del tempo, Bruno Antonio Marazzita, aveva inteso rendere più bella e più ricca d’arte la chiesa.
Per contro, nel corso di questi stessi lavori, mediante la realizzazione di un muro parallelo a quello perimetrale della chiesa è stato unito il campanile alla sagrestia. Così facendo è stato chiuso lo spazio libero appartenente allo stesso ente ecclesiastico e, con l’attuazione dell’apposito tetto, è stata ottenuta (ex novo) la saletta ricreativa che, appena ultimata, è stata utilizzata come aula dell’asilo parrocchiale istituito dall’Oda e, successivamente, anche come luogo di culto, nel periodo in cui, nell’85, la chiesa è stata temporaneamente inagibile per consentire che venissero eseguiti alcuni lavori di restauro, finanziati dalla Regione ed autorizzati dalla Soprintendenza ai beni artistici di Cosenza.
Va doverosamente ricordato che i muratori Giuseppe e Salvatore Scozzarra, Gabriele Spanò e Domenico Trimboli, esperti nell’arte del restauro, hanno messo a disposizione della ditta appaltatrice le loro competenze e che il giovane Carmelino Longo ha provveduto a tinteggiare le pareti interne della chiesa.
All’interno della stessa si conservano altre opere di notevole pregio artistico: le statue lignee di San Nicola, San Rocco, dell’Immacolata Concezione e dell’Assunta (tutte di noti scultori calabresi) nonché vari pezzi di argenteria. Tra gli altri, due calici: uno, proveniente dalla Chiesa della Valle, datato 1612, ed un altro, tutto lavorato a sbalzo ed a cesello, che, per essere stato restaurato nel 1713, lascia chiaramente intendere che potrebbe essere stato realizzato almeno mezzo secolo prima da argentieri napoletani (o siciliani). Al 1731, invece, risale un parato completo (Piviale, pianeta, tonacelle e manipoli) ricamato in seta ed oro zecchino ed appartenuto a Don Bruno Godano che, come procuratore della venerabile chiesa di Santa Maria della Valle, a imperituro ricordo della sua alta dignità religiosa, insieme al suo nome volle ricamato anche il triregno papale. Al defunto parroco Don Giovinazzo avevo suggerito di creare un piccolo museo parrocchiale ed esporre i vari pezzi di argenteria insieme ad alcuni importi documenti, in apposite bacheche fissate alle pareti della sala parrocchiale. Ritenevo potesse essere questo l’unico modo per rendere partecipi i fedeli dei “pezzi” che testimoniano la storia religiosa galatrese. Penso che l’idea sia ancora valida.

Al soffitto della navata è fissato l’unico dipinto settecentesco giunto fino a noi: raffigura l’Assunta ed il suo ultimo restauro risale al 1892, ad opera dell’artista Nicola Valentino. Gli altri tre dipinti antichi (quello di san Rocco, di san Francesco e delle Anime del Purgatorio) sono stati distrutti durante i lavori in chiesa del 1946 e poi del 1956.

* * *

Tra i parroci “dotti” che, nel corso dei secoli, si sono avvicendati in questa chiesa parrocchiale, ricordiamo: 1586GIUSEPPE NUCERA, di Polistena, così dotto da essere il maestro di umane lettere e di teologia del giovane Girolamo Marafioti, teologo dell’ordine dei minimi osservanti, ed autore, tra l’altro, del volume Croniche et antichità di Calabria che, pubblicato per la prima volta nel 1596 e in seconda edizione nel 1601, ancora oggi offre una miniera di notizie agli studiosi di storia locale.
1658 - FABIO SERGIO, sacerdote galatrese che per la sua profonda preparazione teologica prima di essere titolare della chiesa parrocchiale, “antico arcipresbiterato di san Nicola di Galatro” è stato per diverso tempo “confessore e cappellano” nella chiesa di Santa Maria di Loreto alla Colonna Traiana di Roma.
1778 - NICOLA GARUFFI, anch’egli galatrese, che subito dopo il terremoto del 1783, “a futura memoria” aveva lasciato scritto sul registro dei morti, due composizioni latine nelle quali fa riferimenti all’antica storia di Galatro.
E, nel secolo appena passato,
DON ROCCO DISTILO, sacerdote di vasta cultura che fu poeta, musico e apprezzato predicatore.

Nella foto, dall'alto: Umberto Di Stilo; interno della chiesa matrice di San Nicola in Galatro durante una celebrazione; esterno della stessa chiesa; la quattrocentesca statua di San Nicola in marmo alabastrino ivi conservata.

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(30.12.13) LE MARATONE MUSICALI DEL PIANISTA EMILIO AVERSANO (Massimo Distilo) - Negli ultimi giorni il Tg1 e molti giornali, fra cui l'autorevole Corriere della Sera, si sono occupati del fenomeno che negli ultimi tempi ha un po' messo a rivoluzione il mondo della musica classica, ovvero le Maratone musicali del noto pianista Emilio Aversano.
Quarantasettenne, originario di Salerno ma con casa a Tropea, titolare di cattedra al conservatorio di Vibo Valentia, formatosi alla scuola di un monumento del pianoforte quale Aldo Ciccolini, il pianista è in grado nella stessa serata di proporre al pubblico fino a cinque concerti per pianoforte e orchestra. Se pensiamo che eseguire già un solo concerto del genere, di norma costituito da tre tempi e che quasi sempre supera la mezz'ora di durata, costituisce fatica non da poco (Ciccolini nelle sue lezioni sosteneva che per ben prepararne uno è necessario un anno di lavoro), le performance di Aversano acquistano rilievo assoluto e rientrano a buon diritto nella grande "Storia" del pianoforte, quella che prende le mosse dai nomi mitici di Chopin, Liszt e Thalberg; a quest'ultimo in particolare chiunque nel Meridione d'Italia abbia qualche volta poggiato le mani su una tastiera deve un po' qualcosa, essendo egli stato il capostipite della scuola pianistica napoletana.
Qualche sera fa a Catanzaro, presso l'auditorium "Casalinuovo", Aversano ci ha fatto ascoltare, assieme all'Orchestra Filarmonica di Bacau diretta dallo statunitense Robert Gutter, un assaggio delle sue "maratone": un tempo del concerto in La maggiore K488 di Mozart, la Wanderer Fantasie di Schubert nella trascrizione di Liszt (da almeno tre decenni non la si ascoltava più dal vivo in Italia) e il Concerto n. 1 in Si bemolle minore di Ciaikowsky. Il pianista e l'orchestra erano reduci da un'altra performance, solo tre giorni prima, nella sala "Verdi" del Conservatorio di Milano dove al suddetto programma si aggiungeva il concerto in La minore di Schumann. E non molto tempo fa, stavolta al teatro "Dal Verme" di Milano, i concerti eseguiti da Aversano nella stessa sera erano stati addirittura cinque: K488 di Mozart, La min. di Schumann, n. 1 di Ciaikowsky, n. 2 di Liszt e n. 2 di Rachmaninov. Si pensi che di norma i pianisti eseguono in una serata un solo concerto con orchestra.
Tanta carne al fuoco dunque, con grande dispendio di energie fisiche e psichiche sia per il solista che per l'orchestra, come afferma lo stesso Aversano che esegue a memoria l'intero programma sempre con impressionante lucidità, estrema attenzione agli stacchi dei tempi e grande cura interpretativa, ingredienti che gli consentono di tener sempre desta l'attenzione dell'uditorio, tant'è che le sue sale sono sempre piene a fronte della notevole lunghezza del programma.
Al centro dell'esibizione resta comunque sempre la musica. Aversano nel suonare è sempre molto lontano da atteggiamenti di vuota spettacolarizzazione, la sua figura è sempre molto composta, quasi novello Thalberg che rifugge il biedermeier. Egli si ispira al mito di Filippide e alla sua folle corsa da Maratona ad Atene: «La classicità insegna l'estetica e l'etica, concependole come indivisibili - dice Aversano - e così concepisco il mio essere musicista.»


Il servizio del Tg1 sulla "Maratona" di Emilio Aversano

www.emilioaversano.it

Nella foto in alto: il pianista Emilio Aversano impegnato con l'orchestra.

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