(6.1.10) UNA MEMORABILE SERATA MUSICALE - Il 2010 si è aperto a Galatro con il Concerto per il Nuovo Anno, memorabile sia per la varietà che per la qualità delle proposte musicali. Si è spaziato fra autori dal Cinquecento ai nostri giorni ed in generi dal classico al sacro, al popolare, fino al jazz.
Ha fatto da tessuto connettivo, nella varietà di proposte, l'impeccabile "british style" del presentatore Nicola Pettinato che ha illustrato con la consueta puntualità autori ed interpreti.
Si è iniziato con una serie di brani per pianoforte eseguiti da Massimo Distilo, pianista formatosi alla scuola di Aldo Ciccolini che, oltre ad un Preludio in Do minore e ad un Quodlibet di Bach, ha proposto una riduzione per pianoforte della prima parte della Quinta Sinfonia di Beethoven. Gli applausi convinti del foltissimo pubblico che gremiva come non mai la Chiesa di San Nicola (dall'acustica impareggiabile), hanno inframezzato i vari brani eseguiti con una cura speciale per la qualità del suono e dei colori. Il pianista ha proposto poi tre canzoni di Guglielmo Cottrau, compositore di origine francese vissuto a Napoli nella prima metà dell'Ottocento, alla base del primo affermarsi della canzone napoletana: Lu milu muzzecato, Fenesta vascia e Te voglio bene assaje. Una proposta musicale in argomento con le ricerche che Massimo Distilo conduce per la propria tesi di dottorato e con il volume a propria cura, con prefazione di Massimo Privitera, di imminente pubblicazione, che raccoglie in traduzione italiana le lettere di Cottrau, altri scritti su di esso ed un profilo biografico ragionato del compositore. Il pianista ha chiuso con un omaggio a Mino Reitano, scomparso nel 2009: una personale trascrizione per pianoforte di Era il tempo delle more. La scelta di omaggiare il cantante calabrese, a lungo protagonista della musica leggera italiana, è stata particolarmente apprezzata dal pubblico.
E' stata la volta poi di due fisarmonicisti emergenti: Rocco Cannizzaro e Salvatore Cirillo, studenti entrambi al 7° anno al conservatorio di Messina sotto la guida di Salvatore Crisafulli. I due giovani hanno proposto brani di non facile approccio come la Toccata di Pasquini (Cannizzaro) e la Pavana di Byrd (Cirillo), oltre ad uno scatenato Libertango di Piazzolla (per due fisarmoniche) che ha riscosso gli scroscianti consensi del pubblico.
E' giunto quindi l'atteso momento del jazz. Il Nicola Sergio e Michael Rosen duo ha deliziato l'attento uditorio con tre brani per pianoforte e sax che hanno riscosso vere e proprie ovazioni. I due musicisti collaborano da diversi anni ed hanno raggiunto un affiatamento ammirevole. Il pianista Nicola Sergio, che vive da due anni a Parigi, è un astro nascente del jazz internazionale, ha firmato di recente per la Challenge Records International ed il suo cd Symbols uscirà nel prossimo febbraio in sette nazioni. Il pianista è coinvolto anche nel progetto Cilea mon amour, rivisitazione in chiave jazz delle arie del compositore palmese.
Il sax di Michael Rosen è invece ben noto negli ambienti della musica internazionale. Oltre alla sterminata discografia e alle collaborazioni con i nomi più prestigiosi del jazz, da Enrico Rava a Stefano Bollani, Danilo Rea, Jim Hall, Jane Morris, troviamo gli assoli di Rosen anche nei dischi di Mina, Celentano, Renato Zero. Apprezzato pure negli ambienti del classico, ha in programma una serie di esibizioni con la Filarmonica della Scala. I due musicisti hanno dimostrato, oltre che una pronunciata originalità improvvisativa, anche la capacità di far immedesimare il pubblico nelle sequenze di accordi delle loro intense atmosfere jazz.
E' venuto quindi il momento dell'ormai imponente Coro Parrocchiale di Galatro, ben 60 elementi voci bianche comprese, diretto con la consueta maestria da Biagio Cirillo e che si è avvalso in questa occasione di una voce solista d'eccezione, la soprano Elena Bagalà perfezionatasi alla scuola di Elio Battaglia e scelta fra le voci nuove della lirica nel Premio Omaggio a Francesco Cilea. Elena Bagalà, sempre in perfetta sintonia col complesso corale galatrese, ha connotato le parti solistiche con la sua sapiente e naturale agogica, conferendo loro un'espressività molto intensa.
Dopo Panis angelicus di Cesar Franck e Adeste fideles di Marco Frisina è arrivato il Va' pensiero di Verdi. La formazione corale galatrese ha dimostrato che i meccanismi contrappuntistici fra le varie voci sono consolidati e il livello raggiunto dalle esecuzioni è sempre più elevato. Il coro si è avvalso in questa occasione, oltre che della collaborazione all'organo di Salvatore Cirillo, anche del prezioso apporto di Nico Amato che, nell'accompagnare all'organo e al pianoforte diversi brani di non facile approccio, ha dato un saggio di abilità e competenza, cui ha contribuito di certo anche l'esperienza come direttore del Coro Polifonico Maria SS. del Rosario di Cittanova.
Negli ultimi due brani - Natale nella mia città e Le tue meraviglie - c'è stato l'intervento del Coro dei Bambini accompagnato dagli strumentisti Florence Lamanna (chitarra) e Raffaele Lorenzini (jambè). E' stato un vero trionfo con la richiesta anche di un bis.
Un gioioso scambio di auguri di buon anno fra il pubblico mescolatosi ai musicisti ha concluso la splendida serata che è stata realizzata grazie al patrocinio di numerosi sponsor di cui riportiamo in basso l'elenco.
La Mimesis pubblica soprattutto testi di filosofia. Ho visto nel catalogo Emanuele Severino, Umberto Curi, Sergio Moravia - per fare alcuni nomi importanti - e un’infinità di docenti universitari. La scelta di questa casa editrice ha qualcosa a che fare con il taglio del tuo libro?
In un certo senso è così. Discuto innanzitutto l’etica e la filosofia politica di Scalfari e il suo rapporto con la metafisica. Tratto anche altri temi, certo, ma questi sono dominanti.
Vuoi dirci qualcosa del tuo lavoro. Mi sembra di capire che parli poco di Scalfari fondatore di “Repubblica”.
Non tratto per niente questo argomento: fa parte del progetto di un secondo volume, un percorso che va dagli anni del “Mondo” (la mitica rivista di Pannunzio), fino alla fondazione dell’ “Espresso” e, a partire dal 1976, di “Repubblica”. Nel primo volume mi soffermo soprattutto su questioni politiche e filosofiche.
Quali?
Discuto e commento - attraverso un’analisi dei testi - la visione scalfariana dello Stato, la difesa della Costituzione repubblicana; le riflessioni sull’arte e la religione; le sue teorie sul fondamento della morale. C’è naturalmente anche uno spazio dedicato ai giudizi della critica. Sui libri del fondatore di “Repubblica” si sono pronunciati autori importanti come Claudio Magris, Gianni Vattimo, Umberto Galimberti, Pietro Citati, eccetera.
Partiamo dal capitolo sullo Stato. Come articoli il tuo discorso? Quali sono i temi affrontati?
E’ difficile parlarne in poche battute. Comunque: muovo dalla partitocrazia (tema molto discusso da Scalfari negli anni Ottanta), mi soffermo poi sull’attacco leghista allo Stato repubblicano e sul Parlamento dimezzato nell’era del berlusconismo. Al centro del capitolo c’è un flashback sulle svolte autoritarie in Italia e l’assalto al cuore dello Stato: il colpo di Stato di De Lorenzo; gli anni di piombo; la loggia P2. Ma, ti ripeto, qui posso solo indicare i temi e aggiungere che nelle analisi di questi momenti fondamentali della storia d’Italia, Scalfari ha sempre dimostrato un grande rispetto della legge e una difesa assoluta della Costituzione e dello Stato di diritto.
Come quando difese, dalla postazione di “Repubblica”, la linea della fermezza e della “ragion di Stato” durante il rapimento Moro?
Proprio così, ricordi bene. A questo argomento dedico un paragrafo del mio lavoro. Si tratta di pagine fondamentali per una ricostruzione dell’idea scalfariana di “Stato di diritto” e, nello stesso tempo, per comprendere – a distanza di molti anni – un momento decisivo della storia d’Italia. Sono stati anni bui, gli anni di piombo, Scalfari attraverso il suo giornale ha saputo formare un’opinione pubblica vigile e attenta, pronta a scendere in piazza – su posizioni laiche e liberali – in difesa della legalità e dei diritti civili conquistati con importanti battaglie sociali.
Nel capitolo sulla religione discuti - è inevitabile - il delicato tema del rapporto tra Stato e Chiesa. Voglio dire: il punto di vista di Scalfari su questo argomento.
E’ un aspetto senz’altro presente. Ma c’è dell’altro, importante dal punto di vista teorico. In questo capitolo ragiono del libro di Scalfari Incontro con Io: della duplice volontà di Cristo; dell’inconciliabilità di “fides et ratio” (nonostante Woityla e Tommaso); della questione cattolica (nel “giardino del Papa” – in Italia – dice Scalfari, spesso l’ingerenza della Chiesa nella politica supera i limiti stabiliti dai Patti lateranensi); ma ci sono molte pagine dedicate al rapporto ricerca scientifica/fede e al confronto di Scalfari con Habermas su religioni e laicismi. Come molti sanno il fondatore di “Repubblica” è un grande laico e un illuminista: leggere i suoi testi e - a volte - discuterli con lui è stato come immergersi in un luogo teorico dove tutto è sottoposto al dubbio e al vaglio della ragione critica. Una grande esperienza.
Scalfari è ateo, il suo rapporto con la religione - potrebbe pensare qualche lettore - è molto conflittuale. E’ così?
Non sempre e non necessariamente. Ha conversato amabilmente e a lungo con grandi personalità del mondo cattolico, cito per tutti Giovanni Reale e il cardinale Carlo Maria Martini (con quest’ultimo è nata una sincera amicizia), cercando sempre i punti d’incontro, al di là delle inevitabili differenze. In un dibattito, proprio col cardinale Martini, prima della malattia di quest’ultimo, gli ha detto: “Eminenza, la stimo moltissimo, ma sul piano teologico-dogmatico è impossibile intenderci: io non ho il dono della fede. L’incontro può avvenire (ed è interessante) sul terreno dell’etica. L’altruismo, la solidarietà, l’integrazione degli extracomunitari, la difesa degli ultimi, avvicinano la Chiesa alla sinistra liberale più che alle politiche del centro destra.”
Mi viene da pensare ai fatti di Rosarno. E’ nella difesa degli ultimi che il solidarismo cattolico e la cultura dell’inclusione e della solidarietà della sinistra si incontrano.
E’ proprio così. Scalfari e il cardinale Martini hanno anticipato di alcuni decenni un dibattito che oggi è di scottante attualità.
Le differenze però - tra laici e cattolici - ci sono, e restano molto forti.
Certo, e anche Scalfari ci tiene a sottolinearle. E’ un aspetto che evidenzio nel mio libro: la Chiesa predica valori assoluti e pretende d’imporre le sue Verità alla politica (Repubblica denuncia - lo dicevamo - le ingerenze del Vaticano); ma che cos’è la verità? si chiede Scalfari con Nietzsche. Il risultato è l’approdo a una visione relativistica dell’esistenza, che trova gli argomenti logici per contrastare il più logico dei teologi: Vito Mancuso. Ecco, per esempio, uno dei percorsi scalfariani verso la filosofia.
Resta da dire qualcosa dei capitoli sull’arte e, appunto, la filosofia. Il grande pubblico conosce poco gli scritti letterari e filosofici di Scalfari.
Qui veramente è difficile sintetizzare. Posso solo indicare il titolo di qualche libro: penso, per la letteratura, a Il labirinto e La ruga sulla fronte (in quest’ultimo romanzo, attraverso il personaggio di Andrea Grammonte - ovvero: attraverso le avventure e le crisi esistenziali di un grande capitano d’industria - Scalfari racconta un secolo di storia d’Italia). Per la filosofia indico i volumi Alla ricerca della morale perduta e L’uomo che non credeva in Dio. Si tratta di testi dove le idee di Scalfari sull’arte e la filosofia sono sviluppate con una chiarezza di linguaggio e una conoscenza delle problematiche interne alle discipline che sorprende, perché lo immaginiamo completamente immerso nella cabina di comando di un grande giornale. Invece, come Montanelli coltivava con grande competenza la passione per la Storia, Scalfari coltiva ancora oggi un grande interesse per la letteratura e la filosofia. Mi ha raccontato, di recente, che sta concludendo un nuovo testo con un chiaro impianto filosofico.
Il risultato delle sue ricerche è una filosofia, mi par di capire, che guarda a Nietzsche come autore centrale della modernità.
Sì, ma con alcune varianti interessanti. Materialismo, biologismo etico, ateismo: sono le chiavi d’ingresso nella filosofia scalfariana. Ti invierò il libro fra qualche settimana, caro Domenico, e potrai entrare dentro queste tematiche con la calma e l’attenzione necessarie a un’attenta analisi. Dire di più in un’intervista è davvero impossibile. Posso solo aggiungere che Repubblica è stata una postazione particolare, dalla quale Scalfari ha osservato il mondo. Ma anche un luogo di potere. Fondare e dirigere “questo” giornale gli ha dato un prestigio che alcuni ministri nemmeno sospettano. Ed ecco la necessità di riflettere filosoficamente sul potere. In Incontro con Io ci sono pagine interessanti sul tema. E ancora: le riflessioni su etica e politica in L’uomo che non credeva in Dio; e quelle sul progetto, l’azione, la memoria. Eccetera. Il passaggio è, sempre, da uno sguardo giornalistico sul mondo a una più profonda, necessaria (per Scalfari, ineludibile) riflessione filosofica. Ma qui dobbiamo chiudere. Spero soltanto di essere riuscito ad incuriosire qualche lettore.
Credo di sì. A me è venuta voglia di leggerlo questo libro.
E’ quel che volevo. Grazie Domenico, per questa piacevole conversazione.
Angelo Cannatà, Eugenio Scalfari e il suo tempo, Mimesis, Milano, pp. 332, € 20,00
(3.3.10) TRA LINGUA E DIALETTO (Domenico Distilo) - Qualche tempo fa si è laureata in Scienze della Formazione, presso l’Università di Messina, Caterina Lauro discutendo una tesi dal titolo Due generazioni a confronto tra lingua e dialetto: un’indagine a Galatro, un tema non certo usuale sul quale, almeno per quanto riguarda il nostro paese, non esistono precedenti, una letteratura a cui attingere e con cui potersi confrontare. La giovane neodottoressa si è così cimentata con un lavoro pionieristico, una ricognizione dello stato d’uso del nostro dialetto da cui trarre spunti interessanti per una riflessione che, interpretandone i risultati, si incentri sul rapporto tra lingua e cultura locale azzardando, se possibile, previsioni sulle probabilità di sopravvivenza di entrambe.
La motivazione dell’indagine è da individuare, su questo non pensiamo possano esserci dubbi anche se l’autrice non lo dice espressamente, nel carattere sempre più pervasivo rispetto alle parlate locali assunto dall’italiano a partire da quella che, sulla scorta del celebre linguista Tullio De Mauro, si può definire “la rivoluzione di Mike Bongiorno”, la diffusione per mezzo della televisione dell’italiano che, nel’ultimo mezzo secolo, è venuto sempre più erodendo gli spazi del dialetto imponendo una forma linguistica ibrida, un codice misto che, stando al lavoro di Caterina, appartiene ormai alla stragrande maggioranza dei galatresi che continuano a parlare il dialetto, anziani o giovani che siano.
“Il dialetto - così Caterina Lauro sintetizza il suo lavoro nelle Conclusioni - è molto vitale presso i giovani che ne dimostrano una buona conoscenza, pur manifestando forti spinte verso processi di ammodernamento e di italianizzazione […]. La nuova dialettalità dei giovani è il risultato di un processo avviato dai genitori già in fase di socializzazione primaria attraverso la trasmissione di un dialetto più moderno, epurato dai tratti marcatamente arcaici, di una più prolungata scolarizzazione e della continua esposizione alla lingua dei media. Ma va osservato come tale processo d’italianizzazione sia attivo anche presso le persone anziane, per quanto il loro dialetto continui a mantenere molti tratti conservativi”.
Le persone anziane, quelle che oggi hanno 65 anni, ne avevano nove nell’anno, il 1954, in cui la Rai iniziava le trasmissioni televisive con una programmazione regolare e hanno perciò avuto tutto il tempo, con un’esposizione più o meno prolungata al medium televisivo (sicuramente di gran lunga prevalente rispetto agli altri media), di recepirne il lessico e le forme linguistiche, per giunta in un’epoca nella quale il linguaggio di giornalisti e conduttori televisivi era molto più ligio ai canoni dell’ortodossia grammaticale e sintattica di quanto lo sia oggi. Questo spiega, a nostro avviso, sia perché nella lingua sono praticamente scomparse le forme arcaiche sia perché non solo i giovani ma anche gli anziani parlino senza difficoltà in italiano: gli anziani di oggi non sono quelli di trenta o quarant’anni fa e oltre a recepire le forme linguistiche dell’italiano hanno avuto modo di elaborarne il valore nei luoghi - scolastici, lavorativi, ecc. - frequentati. E’ significativo, a questo proposito, che quasi tutti gli intervistati dichiarino di parlare in italiano quando si rivolgono ai bambini, come se volessero favorirne la promozione culturale e sociale per mezzo di una lingua percepita come più raffinata e formale.
La tesi di Caterina fotografa egregiamente la situazione del dialetto negli anni Zero del XXI secolo offrendocene uno spaccato sincronico sulle categorie di utenti, sulle modalità d’uso e sui rapporti interlinguistici con l’italiano. Ci sarebbe però ora da soffermarsi sulla dimensione diacronica, magari approfondendo vieppiù l’ambito lessicale: qual è, ad esempio, la frequenza d’uso di certi termini nel 2010? E qual era trent’anni fa?
La difficoltà è dove attingere le informazioni relative ad un’epoca nella quale la ricerca non era stata programmata. Non si tratta però di un ostacolo insormontabile: basterebbe scavare nella memoria di anziani e meno anziani sollecitandoli a ricordare quando – con più o meno approssimazione - un certo termine è uscito dal loro vocabolario attivo.
Una considerazione è possibile fare, del resto confortata da quanto emerge dalla ricerca: il dialetto galatrese tra gli anni Cinquanta e Sessanta ha iniziato il suo processo di fuoruscita dall’arcaismo, processo che si può dire, dopo mezzo secolo, completato. Ma per quanto il dialetto di oggi sia molto più vicino all’italiano, non lo si può dire in alcun modo scomparso. Non è avvenuta nessuna sostituzione, al massimo si può parlare di un doppio codice. E se non è avvenuta, o perlomeno non è avvenuta in toto, l’omologazione linguistica, la conclusione da trarsi è che non è avvenuta quella culturale, essendo la lingua parte integrante, sicuramente la più cospicua, di una cultura. Infatti “con sorprendente simmetria rispetto agli anziani, al 75% dei giovani capita di usare parole italiane parlando in calabrese, mentre al 25% non succede” (p.29). Come dire che giovani e anziani parlano nella stessa misura il dialetto e nella stessa misura intercalano parole o frasi in italiano.
Ora, il 75% significa tre quarti degli intervistati che - a prescindere dalle risposte secondo noi poco attendibili sulle cause delle commutazioni di codice - parla e conosce benissimo i termini dialettali e, soprattutto, continua a “pensare” in dialetto, continua cioè a percepire il mondo attraverso gli schemi della lingua-cultura dialettale.
Si potrebbe pensare che questo sia un male, una circostanza che alimenta i revisionismi storici e la ripresa delle ideologie neoborboniche – l’equivalente sudista del leghismo.
Non è così. Fin dai tempi del dantesco De vulgari eloquentia il rapporto tra una lingua più genuina, materna, e una più culta è visto come un’opportunità di reciproco arricchimento. Poi sta alla società e alla politica far sì che il reciproco arricchimento, gli scambi e le commutazioni di codice non si traducano in discorsi politicamente beceri e culturalmente infondati quali sono quelli di leghisti e neoborbonici. Ma questo è un altro paio di maniche, per cui non ci resta che fare voti che qualcuno, magari lei stessa, continui il meritorio lavoro di Caterina Lauro.
(5.3.10) CHI ERA VERAMENTE L'ABATE CONIA? UN DOCUMENTO SCONOSCIUTO (Michele Scozzarra) - “...'U dissi puru ‘abbati Conia, ca cu’ sett'oru non si cugghiunija...”: è stata questa frase, sentita per caso una sera di molti anni addietro nella sede di Proposte a Nicotera, che mi ha spinto ad interessarmi e rivedere la produzione letteraria e la figura dell’abate Giovanni Conia. Giovanni Conia nacque a Galatro nel 1752, primogenito di una famiglia di agiati contadini, e morì ad Oppido nel 1839, alla venerabile età di 87 anni, dove fu sotterrato nella Chiesa del Purgatorio, senza neanche il ricordo di una lapide. In seguito furono disperse pure le ossa.
Molte sono le questioni sollevate dalle incerte notizie che si hanno intorno alla sua vita, ma proviamo a domandarci lo stesso: chi era l'abate Conia? Da molti viene descritto come organista prestigioso, poeta, maestro del bel canto, cerimoniere ecclesiastico, oratore sottile e teologo; infatti, grazie ai suoi meriti di teologo, di oratore, di umanista, fu chiamato a far parte dell'Accademia Florimontana di Monteleone, ed il principe Filangelo Vibonese, al secolo don Raffaele Potenza, che ne era il fondatore, lo accolse con il nome di Florisbo Elidonio.
Giovanni Conia, ordinato sacerdote nel dicembre del 1777 dal Vescovo di Nicotera, al quale era stato presentato dal Vicario Generale di Mileto Francesco Lupo, da giovane aveva fatto parte del clero romano dove, segnalato per la sua dottrina e per la sua condotta, venne nominato predicatore apostolico e poté parlare anche alla presenza del Papa nella Cappella Sistina. Don Rocco Zerbi nel necrologio di Giovanni Conia afferma che questi era “d’intemerati costumi e menò vita illibata. Religioso senza ostentazione, virtuoso senza fasto, attivo senza consumo di forza, amico senza doppiezza”.
Ma, quando ormai si trattava di cogliere il frutto dei suoi meriti, Giovanni Conia abbandonò Roma. Tornato dalla Capitale si stabilì in luoghi come Limbadi, Orsigliadi, Caridà, Zungri, definiti dal Canonico Giuseppe Pignataro: “Paesi microscopici e remoti nei quali le cose e gli uomini diventano natura. Ma tra queste cose e questi uomini gli asceti e gli artisti avvertono potente la voce di Dio”.
Fu anche arciprete della Chiesa di Santa Maria degli Angeli e di San Giorgio a Laureana di Borrello e nel mese di maggio del 1826 entrò a far parte del Capitolo di Oppido.
Oratore di eccelse virtù, salì i migliori pulpiti, percorse in lungo ed in largo la Calabria reggina e parte del catanzarese per tenere panegirici, prediche quaresimali, orazioni funebri: il favore popolare lo assisteva, si racconta che ascoltare un suo panegirico era uno scialo di idee, di affetti e di entusiasmo.
In una delle sue poesie più famose, la Canzone faceta, proprio per questo suo peregrinare, dice:
Pistatimi sta testa:
cu tantu chi campai,
ancora no mparai
la Santa Cruci.
‘Ncignai di li primi anni
pemmu ricivu ‘mbiti;
e mai ‘nci furu liti
pe la juta.
Ma poi pe’ la tornata
ognunu rifriddava,
ed eu spessu ‘ncappava
a billi balli.
Eu currijai lu mundu,
pruppiti non dassai:
festa non c'era mai
senza di mia.[…]
Disseminava per ogni dove poesie in dialetto calabro ed in volgare, sollecitategli a destra ed a manca, al suo passaggio o durante il suo soggiorno, stante la conoscenza che si aveva del suo poetare. Non a caso le poesie del Conia si presentano come modello di lingua popolare viva, poiché in esse troviamo ritratte e trasfuse mirabilmente, le locuzioni speciali, la potenza espressiva del nostro vernacolo, la semplicità, il brio spassoso, l'arguzia fine, l'ironia mordace, i sottintesi tanto significativi; infatti le vicende di una gatta che rubava i pesci e li portava al suo padrone, di un asino o di un cognetto di alici, non potevano che esprimersi che nel dialetto parlato ogni giorno.
I conoscitori dei nostri dialetti, riconoscono che il Conia considerava il nostro dialetto una vera e propria lingua, e per la bellezza dei suoi versi lo considerano “un antesignano del rinnovamento letterario”. C’è stato anche chi ha sostenuto che “quello che Dante ha rappresentato per la lingua italiana, Giovanni Conia lo ha rappresentato per la lingua calabra”.
Cesare Lombroso per mostrare l’eccellenza del dialetto calabrese e l’arte dei suoi poeti, trascrisse alcune versi del Conia, nei quali ha riconosciuto una “stupenda e vera poesia, tanto più che riassume la storia ed i pregi del calabrese vernacolo”.
Nonostante tutto questo, ancora oggi, molte notizie sulla vita di Giovanni Conia rimangono incerte, anche se ci sono in giro delle ottime pubblicazioni.
La prima è dello stesso Conia e porta come titolo: “Saggio dell'energia, semplicità, ed espressione della lingua calabra nelle poesie di Giovanni Conia” è dedicata al Signor D. Nicola Santangelo, Segretario di Stato e Ministro degli affari interni nel Regno delle Due Sicilie ed è stata pubblicata dai Tipografi Vescovili di Napoli nel 1834.
Un’altra edizione dal titolo: “Giovanni Conia – Poesie complete” a cura di Pasquale Creazzo è stata pubblicata a Reggio Calabria presso la Società editrice reggina nel 1929.
Altra pregevole pubblicazione del 1980, edizioni Parallelo 38, “L’abate Giovanni Conia, Poeta dialettale calabrese – Testimonianze e poesie” del prof. Raffaele Sergio, il quale è anche l’autore del busto in bronzo di Giovanni Conia che si trova nel piazzale antistante il Municipio di Galatro.
Sempre nel 1980, sotto il titolo “Poesie calabre del Canonico Conia” mons. Giuseppe Pignataro ha curato e presentato la ristampa dell’edizione originale del 1834.
Sul mensile Proposte, nel numero di novembre del 1989, avevo chiuso il mio articolo sull’abate Conia scrivendo che, la ricerca poteva continuare…
Ma, a dire il vero, non pensavo mai che venisse fuori uno scritto totalmente sconosciuto anche ai più approfonditi studiosi del nostro poeta; infatti, fino ad oggi, di Conìa sono state pubblicate solo le poesie. Per questo, mi considero fortunato di aver avuto la fortuna di far conoscere, grazie alla gentilezza della Signora Tina Mumoli-Martorana di Limbadi, l’elogio funebre che l’abate Conia, il 28 giugno 1817, quando era arciprete di Zungri, compose per l’anniversario della morte dell’Arciprete di Limbadi Don Andrea Mumoli.
E’ questo un documento di grande importanza, perché contribuisce a far conoscere la vera dimensione culturale, oltre che oratoria, di Giovanni Conia.
Da parte mia, la curiosità che ha suscitato la figura dell’abate Conia, anche attraverso i miei scritti, è stata una soddisfazione abbondantemente ripagata, dall’aver contribuito a far conoscere più approfonditamente questo grande Poeta galatrese, perché a dispetto di quanto affermava il Creazzo, che “il Conia ha avuto la sfortuna di nascere in quel di Galatro perché li poco o nulla si apprezza”, penso che è stato anche merito dei galatresi aver fatto si che Giovanni Conia non fosse dimenticato, ma venisse conosciuto e apprezzato, non soltanto da pochi esperti.
E vi assicuro che questa, per un galatrese, è una soddisfazione non da poco….
Nelle foto, dall'alto in basso: la copertina del libro di Raffaele Sergio su Giovanni Conia, col busto opera dello stesso autore; la copertina del Saggio sulla lingua calabra di Conia; la copertina dell'elogio di Don Andrea Mumoli di Conia.
Scrivere su Eugenio Scalfari non è impresa dappoco. Se si trattasse soltanto di un giornalista, per quanto grande, il campo d’indagine sarebbe bene o male circoscritto. Si sa che il giornalista insegue la storia attraverso la cronaca, per cui basterebbe trarre dagli editoriali, dalle interviste, dai reportage l’essenza di quello che Hegel chiamava “il proprio tempo appreso col pensiero”, ciò che prima come cronaca e poi come storia ha una rilevanza e uno spessore metastorici, una dimensione universale riassunta nel singolo evento, nel singolo fatto da cui l’interprete deve coglierla e svolgerla per poterla adeguatamente comprendere e farla comprendere.
Si dà il caso, però, che Scalfari sia non solo giornalista ma anche filosofo, romanziere, imprenditore, economista, politico, insomma un personaggio poliedrico, dai molteplici interessi e dal multiforme ingegno di fronte al quale rischia di saltare ogni schema, di fallire ogni tentativo di reductio ad unum, di individuazione di un baricentro, di un ubi consistam a partire dal quale proporne una ricostruzione e rappresentazione unitarie.
Questo rischio Angelo Cannatà è riuscito a scongiurarlo trascegliendo dalla mole imponente degli scritti del suo autore quelli che meglio evidenziano il filo che lo lega al proprio tempo - da cui, sempre per citare Hegel, “nessuno può saltar via più di quanto possa saltar via dalla terra”.
Il primo capitolo – Stato e antiStato - è, allora, un'esposizione della dottrina dello Stato di Scalfari nel suo processo genetico, mentre prende forma e sostanza nel crogiuolo delle vicende italiane degli ultimi cinquant’anni -dai fatti di Genova del 1960 alla stagione del terrorismo e delle stragi all’occupazione dello Stato ad opera dei partiti della prima repubblica fino a Tangentopoli e alla successiva devastazione, intellettuale e morale prima che politica, compiuta dal berlusconismo- alimentandosi del sogno giovanile di “giustizia e libertà”. E’ infatti il "sogno" giovanile ad orientare il giudizio che di volta in volta il giornalista pronuncia sugli eventi, giudizio che, nascendo informato a un’idea etica, metapolitica, non scade mai nel pragmatismo deteriore, in quello che, parafrasando Craxi, si potrebbe definire “machiavellismo un tanto al chilo” dei suoi non pochi detrattori.
La sintesi scalfariana di giustizia e libertà viene da Cannatà, pensiamo opportunamente, accostata a Una teoria della giustizia dell’americano John Rawls, autentica bibbia dell’ideologia liberal, di quel liberalismo di sinistra che in Italia ha espresso personalità di grandissima levatura intellettuale – basti pensare a Norberto Bobbio - ma non è mai riuscito a diventare maggioritario, a tradursi, eccezion fatta per poche felici stagioni – Giolitti, il primo centrosinistra di Fanfani e, in minore misura, di Moro - in forza di governo.
Sulle ragioni di questa incapacità/impossibilità il fondatore di Repubblica s’interroga di continuo, in ogni articolo in cui si sforza di spiegare l’infinita transizione in cui il sistema politico è entrato a partire dalla crisi dei primi anni Novanta con le tare storiche, culturali, antropologiche che da secoli aduggiano il Belpaese –strutturale debolezza della borghesia e inadeguatezza delle elite, presenza della Chiesa cattolica e quant’altro.
Le risposte Scalfari le attinge, ovviamente rimodulandole nel proprio personale registro, alla tradizione di pensiero laica e laicista che, partendo da Gobetti, passa per Bobbio e approda a lui stesso. Tradizione che a nostro giudizio ha un limite: è troppo imperniata su ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato, con la conseguenza, per usare le celebri parole di Benedetto Croce, di farsi spesso “giustiziera” senza mai essere “giustificatrice”.
Si tratta di un limite (lo si capisce dalla lettura del terzo e quarto capitolo del libro, rispettivamente sulla religione e sulla filosofia di Scalfari, mentre il secondo è dedicato alle riflessioni sull’arte) strutturale, che affonda le radici nell’illuminismo radicale, nel votarsi alla Ragione quale unica guida, sola dimensione nella quale declinare l’esistenza individuale e collettiva, senza lasciare nessun margine a quelle che non riesce a vedere se non come illusioni, che “la ragione non può impedirsi di pensare che sono ‘vere’ solo perché la nostra mente le pensa come tali” (p.189).
Il percorso filosofico di Scalfari, in buona sostanza, sembrerebbe partire da Voltaire per trovare in Nietzsche e nel nichilismo il mentore più congeniale.
Ad avviso di chi scrive appunto soltanto sembrerebbe, perchè non è così. Poiché se così fosse la “religione civile” di Scalfari, che apprezziamo soprattutto leggendo gli editoriali domenicali, sarebbe letteralmente in-fondata, oltre che sul piano teoretico, su quello storico-biografico. In realtà invece un fondamento potrebbe averlo e, anche per motivi generazionali, non potrebbe che essere il vecchio Croce, benché forse non riconosciuto o del tutto misconosciuto.
Sotto sotto, per intenderci, Scalfari per continuare a combattere le sue battaglie all’insegna di “giustizia e libertà” non può non credere, crocianamente, nella storia foriera di una misura sempre maggiore di libertà, operando in tal modo una declinazione crociana del divenire di Nietzsche, come se sospettasse, o sperasse, che Dio non sia morto, o perlomeno non lo sia ancora.
Gli spunti offerti dal libro di Angelo Cannatà sarebbero, comunque, ancora tanti per essere contenuti in un breve articolo. Non ci resta che aspettare l’opportunità di riprendere la discussione.
Nell'immagine: la copertina del libro di Angelo Cannatà su Scalfari.
(12.4.10) PRESENTAZIONE A ROMA PER IL LIBRO SU SCALFARI DI ANGELO CANNATA' - Il libro di Angelo Cannatà, Eugenio Scalfari e il suo tempo, uscito di recente per i tipi dell'Editrice Mimesis, sarà presentato a Roma, Martedì 13 Aprile alle ore 18.00, presso la libreria Bibli, in via dei Fienaroli 28, Trastevere.
Sono previsti gli interventi di Giancarlo Bosetti, direttore di Reset, Antonio Gnoli, responsabile delle pagine culturali di Repubblica, Concita De Gregorio, direttore de L'Unità. Sarà presente lo stesso Eugenio Scalfari.
Il dibattito sarà trasmesso su Radio Libera Tutti, che può essere ascoltata on line sul sito www.radioliberatutti.it.
Nella foto: la copertina del volume di Cannatà, "Eugenio Scalfari e il suo tempo".
Visualizza la presentazione su Dante Alighieri (PPS) 3,56 MB - Per una corretta fruizione si consiglia di scaricare prima il file sul computer e lanciarlo successivamente. Per andare avanti con le diapositive fare clic col mouse.
5 Maggio, ore 21.00: Presentazione ufficiale del cd SYMBOLS (Challenge Records) al Sunside Jazz Club di Parigi. Concerto:
NICOLA SERGIO TRIO + MICHAEL ROSEN
Nicola Sergio (piano/compositions)
Matteo Bortone (double basse)
Fabrice Moreau (drums)
Ospiti: Melanie Badal (cello), Michael rosen (sax)
6 Maggio, ore 19.30: Mezzora di piano solo di Nicola Sergio nel ridotto del Theatre du Chatelet a Parigi, con vetrina integrale della Challenge Records.
Biglietti per il concerto:
10€/persona in prevendita sul sito (offerta 20€/2 tickets): www.billetreduc.com
13€/persona in prevendita sul sito: www.moxity.com
20€/persona sul sito di Sunside. Usufruite di un'offerta eccezionale "Concerto+CD": Posto per il concerto + il CD col 20% di riduzione (offerta valida solo acquistando il vostro biglietto sul sito internet www.sunset-sunside.com)
Ecco alcuni giudizi critici in lingua francese su Nicola Sergio:
"Installé à Paris depuis 2008, le jeune pianiste nous délivre ici un jazz aux accents chantants, souvent teinté d'une pointe de mélancolie, distillant un charme typiquement transalpin. Si ce deuxième album séduit, c'est aussi par l'équilibre de sa structure, reposant sur des compositions variées et abouties dont l'enchaînement semble avoir été soigneusement étudié... Depuis son piano, le leader dirige ce petit monde sans jamaîs tirer la couverture à lui, toujours au service de la musique. Une belle preuve de maturité." Pascal Rozat (Jazz Magazine Jazzman) - Aprile 2010
"Je pense que, pour embrasser une carrière de leader, il faut trois qualités essentielles: le talent bien sûr, l’intelligence, et la ténacité. Voilà ce que j’ai immédiatement vu chez Nicola Sergio le jour où il m’a rendu visite, il y a quelques années, avide d’opinions et de conseils. C’est avec une grande fierté que j’écris aujourd’hui ces “liner notes” pour parler du magnifique travail que vous tenez entre vos mains,où un pianiste sensible et résolu joue avec talent de la musique intelligemment écrite, dirige avec intelligence une rythmique tenace et une front-line talentueuse, marie avec talent des musiciens de tous âges et tous horizons autour d’un projet ambitieux, aux couleurs variées, tantôt empreint de la tradition du jazz, tantôt d’autres traditions..." Giovanni Mirabassiwww.mirabassi.com
"Ce pianiste de jazz apporte avec son premier album beaucoup d'élégance, d'audace et de surprise dans sa façon de jouer.Une découverte Aligre FM, à ne pas louper!" Pascal Pareti e Nathalie Trannois (Radio Aligre FM 93.1)
Il disco oltre che nella maggior parte dei negozi di musica è acquistabile on line su molti siti. Eccone alcuni:
Nelle immagini: In alto a sinistra il manifesto di presentazione del cd Symbols; in basso a destra il manifesto per il concerto di Nicola Sergio al Theatre du Chatelet.
(29.5.10) PRESENTATO IL VOCABOLARIO DEL DIALETTO DI GALATRO - Ha avuto luogo presso l’auditorium delle Terme la presentazione del Vocabolario del dialetto di Galatro di Umberto Di Stilo.
Alle note introduttive e di saluto dell’assessore alla cultura Bruno Scoleri e del sindaco Carmelo Panetta, che a nome di tutti i galatresi ha ringraziato Umberto Di Stilo per essersi sobbarcato un lavoro improbo durato anni ma che rappresenta, ora che è stato portato a compimento, un punto di riferimento per la cultura e l’identità del nostro paese, ha fatto seguito la relazione dell’ex sindaco, professore di lettere e attualmente dirigente scolastico dell’’Istituto comprensivo di Mammola, Franco Galluzzo.
Galluzzo si è soffermato sulla dignità della cultura calabrese e della lingua in cui essa si esprime, erede delle grandi tradizioni greca e latina. Di questa lingua e di questa cultura il lavoro di Umberto Di Stilo rappresenta ora una ragione e uno strumento in più per apprezzarne la ricchezza, lasciando cadere le prevenzioni che, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, inducevano molti a vergognarsi del dialetto e a costringere i figli a parlare in italiano. Atteggiamento che se poteva essere spiegabile trenta o quarant’anni fa, oggi, nell’epoca in cui il dialetto è uscito dall’arcaismo, è affatto privo di senso.
E’ stata quindi la volta del prof. Paolo Martino, linguista docente alla Lumsa, che dopo aver premesso che ogni lingua racchiude una visione del mondo, ha illustrato le caratteristiche del Vocabolario di Umberto Di Stilo, costruito, a differenza di altri dalle identiche finalità, non solo con passione e amore per la propria lingua materna, ma con consapevolezza metodologica e capacità di attingere ai testi di una letteratura –quella di Conia, Martino, Alvaro, Rocco Distilo – di grande dignità e notevole spessore. Martino, che ha sostenuto il carattere di vera e propria lingua di quello che noi calabresi per primi ci ostiniamo, sbagliando, a chiamare dialetto, si è anche prodotto in alcune apprezzate puntualizzazioni tecniche circa la storia e l’uso di alcuni lemmi.
Si sono poi registrati vari interventi, tutti di grande interesse tra cui quello dell’assessore provinciale alla cultura Santo Gioffrè, che ha rievocato con accenti accorati il passato di sofferenze delle classi subalterne calabresi. Gioffrè si è, a conclusione del suo intervento, impegnato, a nome dell’amministrazione provinciale a sostenere finanziariamente la pubblicazione della Storia di Galatro che Umberto Di Stilo ha ormai completato dopo anni di pazienti ricerche. Analogo impegno ha assunto Carmelo Panetta a nome dell’amministrazione comunale di Galatro.
Infine l’autore ha raccontato i numerosi anni dedicati alla confezione del Vocabolario, col paziente lavoro di raccolta attingendo alla lingua delle persone più anziane con le quali non disdegnava di trascorrere il suo tempo. Di Stilo ha preannunciato, concludendo, una imminente ristampa con l’aggiunta di soprannomi che gli sono sfuggiti. Gli interventi dei relatori e del pubblico sono stati inframmezzati dalle esibizioni canore di alcuni allievi della Scuola Media di Mammola che, sotto la guida dei loro insegnanti, hanno proposto pezzi famosi della tradizione musicale popolare calabrese.
Nella foto: il tavolo dei relatori durante la presentazione del Vocabolario.
(1.6.10) UN LIBRO SUI TERRONI CHE CITA L'ABATE MARTINO - Pino Aprile, Terroni, Piemme, 2010, pp. 305, € 17,50.
Un libro del noto giornalista Pino Aprile, già collaboratore di Sergio Zavoli nell'inchiesta Viaggio nel Sud e nella trasmissione Rai Tv7, si interroga su tutto quello che è stato fatto perchè gli italiani del Sud diventassero Meridionali. Secondo Pino Aprile la storia di oggi è uguale a quella di ieri: dopo l'unità d'Italia il Sud subì un vero e proprio scippo, con tutte le ricchezze che venivano depredate dai piemontesi per favorire lo sviluppo del Nord. Chi si ribellava era considerato un brigante e veniva immediatamente fucilato o impiccato. Interi paesi rasi al suolo con esecuzioni di massa (anche di donne e bambini), stupri ed altre atrocità. Il numero di vittime raggiunse cifre altissime difficilmente quantificabili, secondo alcuni si sfiorò il milione di morti.
I quattrini del Sud, che ancora poco dopo l'unità circolavano in quantità doppia rispetto a quelli di tutto il resto d'Italia messo assieme, servirono in gran parte per coprire i debiti di guerra del Piemonte. Subito dopo, un sistema fiscale durissimo nei confronti del Meridione fece il resto. Nonostante tutto ciò, ancora fino ai primi del Novecento il Sud manteneva un tenore di vita simile a quello del Nord, ma l'opera fu continuata dal fascismo e dai successivi governi repubblicani che favorirono con sperequazioni disumane l'ulteriore sviluppo del Settentrione e resero il Sud un'area depressa e di emigrazione, in cui tutto ciò che si vede è caratterizzato dal segno "meno", e dove anche la colpa di tutto è addebitata alle stesse genti meridionali. Il rozzo e barbaro branco dei leghisti di Bossi ha completato l'opera. Si tratta di un libro che espone tesi affascinanti ma documentate e che val proprio la pena di leggere.
A pagina 118 c'è anche un riferimento ai versi sferzanti, contro i piemontesi, del nostro abate galatrese Antonio Martino, vissuto all'epoca dell'arrivo dei "liberatori". Ve ne riproponiamo in basso uno stralcio.
Calaru di Piemunti allindicati,
na razza chi mangiava dhà pulenti
e di Netali e Pasca dui patati.
Iestimaturi orrendi e miscredenti
e facci tosti e latri cedulati,
superbi, disprezzanti, impertinenti,
sèdinu all'umbra e fannu tavulati
cu li suduri chi jettamu ardenti.
E di li fundi nostri cilonari
nui diventammu, ed idhi propetari.
Di cannavedhu vìnnaru vestuti,
scarpi ammuffati, robba di becchini:
mò di castoru, e vannu petturuti,
cu stivaletti a moda li cchiù fini.
Calaru ccittu ccittu, ntimuruti
e virgognusi comu fanciullini:
nchi vìttaru a nui, manzi ed arricchiuti,
apriru nasca e isaru li cudini,
e cui ndi chiamau "locchi" e cui "nimali",
e ndi ncignaru a fari servizziali.
Guardaru in prima misa l'olivari,
l'agrumi, li vigneti e mandri e frutti,
e dìsseru fra loru: "Nc'è di fari...
ccà nc'è di beni mu ngrassamu tutti".
E sùbitu si mìsaru a sciancari
a schiatta panza, ad alleggiari gutti,
poi dazi senza fini a mmunzedhari
pe comu s'ammunzedha ligna rutti,
e pe di cchiù "li schiavi cunquistati"
ndi chiamanu, li facci d'ammazzati.
Già li famigghi ricchi impezzentiru,
li pòvari su' sicchi pe la fami,
l'argentu e l'oru tuttu lu periru,
e scumpariu di nui finna lu rami.
L'impieghi fra di loru si spartiru,
fìciaru schiananzìa di lu bestiami:
gadhini ed ova e pasta l'incariru,
lu ranu, vinu, pisci e la fogghiami.
Non pensan'autru ch'a mangiari sulu:
mu fannu bonu chippu e grossu culu.
Da Antonio Martino, Poesie Politiche, Officina Meridionale, Roma, 1975, pp. 38-39